You could be my
unintended
Choice to live my life extended
You could be the one I'll always love
You could be the one who listens to
my deepest inquisitions
You could be the one I'll always love
I'll be there as soon as I can
But I'm busy mending broken pieces
of the life I had before.
Muse, unintended.
Capitolo nove
Musicista
Uscii
dalla doccia e perle trasparenti caddero sul pavimento dai capelli.
Così presi
un asciugamano per eliminare l’acqua che me li schiacciava
sulla fronte.
Avvoltomi un salvietta in vita mi diressi in cucina ed azionai la
macchinetta
del caffè, ma, mentre tornavo in camera, il cellulare
squillò.
Mi voltai di scatto verso il tavolo, sul quale era poggiato il telefono
e
sperai fosse lei. Quando lessi il
nome scossi il capo e sorrisi. Sbagliato.
«Ragazzina.» dissi dirigendomi in camera.
«Ehi, Bob. Ascolta, potresti portare del vino?»
«Okay. Sì, non preoccuparti sto benissimo. Anche tu? Oh, beh, mi fa
piacere.» dissi aprendo il
cassetto della biancheria.
«Ti hanno mai detto che fa male bere durante il pomeriggio,
signor Pattinson?»
«No, credo di no. Bianco o rosso?»
«Bianco.»
«Okay.»
«A dopo, Bob. Non fare tardi!» esclamò e
l’immaginai sorridere.
«Se il traffico me lo permetterà.»
«Divertente.», e riappese.
Scossi il capo ridacchiando e, poggiato il telefono sul tavolo, mi
diressi in
camera. Indossai un paio di jeans ed una maglia grigia a manica corta,
afferrai
le chiavi della macchina e la giacca in pelle poggiata sulla sedia
all’ingresso
ed uscii di casa, ignaro della serata che mi si prospettava davanti.
Bussai ripetutamente alla porta di legno scuro, dondolando sui talloni,
fino a
che, Rachel, non aprì la porta dopo diverse imprecazioni.
«Ti reputo responsabile del mio scontro con il
divano.» disse spostandosi per
farmi entrare.
«Ciao, anche a te, ragazzina.»
dissi
entrando e fermandomi dinanzi a lei, che si spostò appena
per chiudere la
porta. Quando si mise dritta, notai che la distanza fra noi non era
molta, con
un passo avrei potuto eliminarla del tutto.
«Ciao, Bobby.»
disse sorridendo.
La fioca luce proveniente dalla cucina si rifletté nei suoi
occhi turchese e la
sua pelle sembrava aver la stessa consistenza della seta. Aveva alcune
ciocche
di capelli raccolte dietro la testa, così da scoprirle parte
del viso, altre
ricadevano in grandi onde sulle spalle esili. Fu strano, ma la trovai
bellissima.
Sorrisi. «Mi spieghi come hai fatto?»
«E’ semplice Pattinson: afferri la maniglia e tiri
la porta.»
Scossi il capo. «Bella questa. No, idiota, lo scontro col
divano.»
Fece spallucce. «Sono inciampata mentre correvo. Non
chiedermi come ho fatto
perché non ne ho idea.» disse prima di voltarsi e
dirigersi in cucina dalla
quale proveniva un odore di verdure grigliate. Solo allora mi resi
conto che
indossava un grembiule con sopra disegnati dei biscotti, che le copriva
parte
della canotta color della notte e pantaloni scuri.
«Tenuta da lavoro?» chiesi indicandola ed entrando
nella cucina. Mi bloccai di
colpo e sgranai gli occhi.
«Cosa c’è?» chiese corrugando
la fronte.
«La tua cucina è… rossa e
gialla.» dissi scioccato.
«Due dei miei colori preferiti.» disse sorridendo.
«Lo so, è un po’ eccentrica.
Tutta la casa lo è. C’è colore
ovunque.» disse avvicinandosi al piano della
cucina e tagliando delle zucchine.
Sorrisi e mi tolsi la giacca poggiandola su una sedia.
«Il vino?» chiesi mostrandole la bottiglia.
«Poggialo sul tavolo.» disse indicandomi col
coltello.
«Ehm… Rachel, ti sarei grato se facessi attenzione
con quella lama.» dissi
avvicinandomi con cautela.
«Hai paura?» disse in un risolino.
«Molta.»
«Femminuccia.» sospirò ritornando al
lavoro.
«Decisamente cortese.»
«Perché invece di ciarlare inutilmente non mi dai
una mano?» chiese. «Nel
secondo cassetto accanto al frigo ci sono le posate, prendi un
coltello.» disse
guardandomi e sorridendo con dolcezza.
Abbozzai un sorriso ed aprii il cassetto prendendo un coltello,
aiutandole poi
ad affettare dei pomodori.
«E così vivi sola.» dissi voltandomi
appena verso lei, che invece non distolse
lo sguardo dalle verdure.
«Sì.» rispose impassibile, poi dopo
alcuni istanti, poggiò le mani sul piano
della cucina. Si voltò verso me, alzando il capo per potermi
guardare negli
occhi, rivelandomi il cielo turchese dei suoi. «Ti rendi
conto di quanto sia
sciocca la tua domanda?» chiese alzando le sopracciglia.
Mi morsi il labbro inferiore, reprimendo un sorriso.
«Effettivamente.»
Rachel scosse il capo prima di chinarsi ed aprire l’anta di
un pensile della
cucina. Ne estrasse una padella prima di scattare diritta.
«Ecco.» disse sorridente.
Sorrisi di rimando e, prima di tornare a tagliare i pomodori,
l’osservai
versare verdure a cubetti nella padella e posarla sui fornelli.
«Invece
di osservarmi inebetito, perché non continui a tagliare a
fette i pomodori?»
chiese accendendo il gas.
Sbattei più volte le palpebre udendo le sue parole e,
scuotendo il capo, risi.
«Perdonami, ragazzina. Non credevo fossi
così… agile in cucina.» ironizzai
cercando di nascondere l’improvviso, irrazionale, imbarazzo.
Lei si voltò corrugando le sopracciglia. «Certo,
come no. Ti va una birra, star?»
«Con molto piacere.» risposi finendo di tagliare
l’ultimo pomodoro.
Rachel si voltò e, quasi saltellando si diresse verso il
frigo bianco ricoperto
di calamite, aprendone l’anta.
«Collezione?» chiesi prima di dirigermi verso il
lavabo e sciacquarmi le mani.
«Sì. Provengono da ogni parte
dell’America e del mondo… più o
meno.», afferrò
le birre e le poggiò sul piano della cucina, cercando in un
cassetto il
cavatappi.
Mi asciugai le mani con una salvietta appesa accanto al lavandino e mi
diressi
verso il frigo per osservarle. Era un’esplosione di colori,
di forme, di
riproduzioni. Avvicinai il viso ignorando Rachel che stappava le
bottiglie ed
osservai le calamite. Osservai in particolare la riproduzione di una
salice,
dannatamente reale.
«Tieni.» mormorò Rachel passandomi la
bottiglia. Mi voltai verso lei per afferrarla.
Solo allora mi accorsi che guardava la stessa calamita con un sorriso a
colorarle il sottile viso.
«Me la regalò la nonna.»,
chinò appena lo sguardo fissandosi la punta della
scarpe. «Da bambina Pocahontas era
il
mio film d’animazione preferito, e lo è
tutt’ora. Consideravo nonna
Sally, come… nonna Salice, e io la
chiamavo così. Insomma, la classica nonna che sa darti buoni
consigli, che
parla con citazioni, saggia, che ti induce a fare la cosa giusta, anche
ti
sembra la più sbagliata.» bevve un sorso di birra,
prima di alzare gli occhi
sul mio viso. «E’ la mia preferita.»
«Cos’è l’è
successo?» mormorai. Per alcuni istanti i sui occhi limpidi,
d’un
tratto fattisi impenetrabili e simili ad uragano, solcarono i miei, in
cerca
forse di conferme di un qualcosa a me sconosciuto. Poi si
voltò e si diresse
verso i fornelli, girando le verdure con un mestolo di legno.
Quando parlò la sua voce era seria, quasi sembrava non
appartenerle. Alle mie
orecchie apparve d’un tratto la donna che in
realtà era. «Cancro allo stomaco.
E’ morta l’anno scorso.»
«Mi dispiace.» mormorai con sincerità.
Mi avvicinai ai fornelli, affiancandola.
«Oh, beh, prima o poi tocca a tutti, no?» disse e
quando si voltò nei suoi
occhi guizzarono sofferenza e dolore, che inutilmente cerco di
nascondere con
un amabile sorriso. Bevve
un sorso di
birra. «Allora? Ti va di fare un giro della casa?»
«E questa
era la mia camera.» disse uscendo dalla stanza e
soffermandosi in
corridoio. «Lo so, è un’umile dimora, ma
per una persona è perfetta. Per me, è
perfetta. Ci entrano tutte le mie cose e se mia madre viene a trovarmi
dorme
sul divano.» disse sorridendo.
Feci un risolino.
«E’ davvero bella. Come ho già detto:
un’esplosione di
colori.»
Lei dondolò
sui talloni, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
«C’è
ancora una stanza da vedere: il seminterrato.»
Inclinai il capo di
lato. «E cosa c’è, lì?
Scheletri e cadaveri?»
«Ah-ah.
No.», roteò gli occhi e, percorrendo il corridoio
fino al piccolo
soggiorno, dove vi era un divano a tre
posti rosso, ed una poltrona blu, davanti ad un televisore ed un
tavolino
orientale, aprii una porta che quasi si confondeva col muro…
giallo. Al buio
scendemmo una piccola rampa di scala, fino a che Rachel non accese una
luce.
«Voilà.» disse aprendo le
braccia. In
fondo alla stanza, vicino al parete, vi era una batteria. Mi guardai
intorno
notando le mura color della crema.
«Camera
insonorizzata?» chiesi stupefatto.
Lei annuì e
si poggio allo stipite della porta, incrociando le braccia al
petto. «Dai entra.» disse con un cenno del capo.
Sorrisi ed entrai.
Quando le passai accanto il suo profumo mi colpì ancora con
delicatezza.
«Suoni la
batteria?» chiesi guardando lo strumento, ma notando subito
un basso.
«Ed il basso?»
«Sì…
più o meno. Suono la batteria e chitarra da quando avevo
dieci anni. Ed
ora sto cercando d’imparare il basso. Nella band sono solo
voce e chitarra
ritmica –delle volte.» disse mentre sfiorar avo le
corde del vecchio Fender.
«Waw.»
dissi voltandomi a guardarla e solo allora mi resi conto che si era
avvicinata, distanziando a de appena cinquanta centimetri.
«Oh, beh,
è il vecchio, e quasi defunto, basso di Nick, il bassista
della band.
Non a caso da sempre problemi.» aggiunse in un risolino.
«Potrei
sentirti suonare?» chiesi senza distogliere il mio sguardo
dal suo.
Rachel
arricciò le labbra in una smorfia.
«Dai, ragazzina.» dissi dandole un
leggero spintone.
«Okay,»
sbuffò,«Bob.»
Camminando, evitando
accuratamente i diversi cavi, giunse alla batteria, per
poi prendere posto. Con la testa mi fece cenno di chiudere la porta,
così
scattai eseguendo i muti ordini.
Mi voltai,
guardandola. Sembrava ancor più piccola dietro i tamburi, ed
il suo
viso quasi era dissonante con l’imponente strumento.
Imbronciata lei mi guardò
e alla luce del neon i suoi occhi erano quasi celeste. Le feci cenno di
iniziare mentre mi sedevo sulla moquette blu, con un gomito poggiato su
una
gamba piegata. Per un attimo i suo occhi parvero perdersi nei miei,
come se
stesse perdendosi in infinite congetture, in personali pensieri a me
ignoti.
Poi sbatté ripetutamente le palpebre come per riprendersi da
quegli attimi di
amnesia e prese in mano le bacchette.
Sorrisi di quella
stramba ragazza.
«Pronto per
l’inferno?» chiese alzando ritmicamente le
sopracciglia.
Risi.
«Assolutamente sì.»
«Maledetto.»
ringhiò.
«Dai,
ragazzina, non casca di certo il mondo!»
«Okay,
okay!» esclamò lei alzando le mani, come in segno
di difesa. Chiuse gli
occhi e quando gli aprì batte con violenza sui tamburi. Con
lo sguardo fisso
sulla batteria cominciò a muovere energicamente le braccia e
non potei non
chiedermi dove trovasse tutta quella forza, tutta quella energia. Un
susseguirsi di apparenti rumori, creatori di un straordinario ritmo,
inondarono
la stanza. I capelli ondeggiavano ad ogni suo movimento finendole
davanti al
viso. Con il viso rivolto verso destra batteva con violenza le
bacchette sui
tamburi sinistri, e poi il charleston, e ancora la gran cassa.
L’energia che il
suo fragile corpo conteneva sembrava sprizzarle da ogni poro. Con occhi
sgranati
l’osservavo muoversi con agilità, quasi saltare
sullo sgabello. Poi il ritmo si
fece sempre più debole, fino a cessare.
Fui sorpreso dalla sua
bravura, dalla passione che ella ci metteva nel muovere
le braccia, nel creare ritmi e nel perdersi in ciò che
faceva. Apparve in quel
momento la ragazza ribelle che per molti era, quella che infrange le
regole,
sicura di se stessa e mi chiesi se fossi solo io, invece, a riconoscere
in lei
dolcezza e semplicità. Mi chiesi come apparisse Rachel agli
occhi del pubblico
o degli altri che avevano avuto modo di conoscerla. Dolce e simpatica
come si
presentava ai miei occhi, o ribelle e forte come appariva in quel
momento,
dietro il grande strumento?
«Allora?
E’ abbastanza per una ragazzina?» chiese e un lampo
di malizia le
attraversò gli occhi chiari.
Alzai le sopracciglia.
«Mi hai sorpreso, Rachel.» dissi sincero.
«Come
tutti.» disse alzandosi e posando le bacchette su un tamburo.
Mi alzai e lei mi
venne incontro, le labbra appena dischiuse per permetterle di
respirare con la bocca.
«Quanta
modestia.» la canzonai.
«Senti chi
parla.» disse passandosi una mano fra i capelli, scoprendo la
fronte
dalla scura frangetta, rivelandomi il suo viso sottile, per intero.
Risi. «Sul
serio, Rachel, sei stata… divina. Credo tu abbia
talento.»
«Grazie,
Bob.» disse lei sorridendo, indugiando con lo sguardo nel
mio.
Scrollai le spalle.
«Solo verità.»
«Dai, genio,
andiamo a mangiare. Muoio di fame.» disse poi raggiante,
prendendomi sottobraccio.
«Sai, mia
cara, Rachel, dovrei venire più stesso da te.»
«Certamente
per il piacere della mia compagnia, no?» chiese in un
risolino.
«Certo!»
esclamai cominciando a salire la scale, il suo braccio ancora
intrecciato al mio.
«Meno male.
Io credevo per via della mia camera insonorizzata.»
«Ma cosa ti
passa per la mente. Ovvio che è per le came-… per
il piacere della
tua compagnia.» mi corressi scuotendo il capo e facendola
ridere.
«Idiota.»
disse dandomi un leggero spintone e facendomi scontrare con lo
stipite della porta.
«Ahi, mi
sono fatto male.»
Lei si
voltò e alzò le sopracciglia. «Povero Bobby, su, tanto passa.»
disse sorridendomi e carezzandomi la
spalla dolorante.
«Malefica.»
mormorai.
Rachel fece spallucce.
«Nah.»
Poi si
voltò dirigendosi in cucina. E non potei non pensare che
Rachel era
l’amica mai avuta.
*
Eccomi
qui… ancora.
Allora, chiedo
umilmente perdono se non posso ringraziare a modo coloro che
hanno recensito, ma, davvero, oggi sono incasinatissima… e
questa settimana non
si prospetta di certo migliore –stupido quinto anno.
Ad ogni modo, ci tengo
tantissimo a regalare un piccolo spazio agli angeli che,
gentilissimamente hanno recensito lo scorso capitolo.
Grazie, Xx_scrittrice_xX,
Nessie93,
ginevrapotter,
PiccolaKetty,
KeLsey,
Railen,
Ryry_.
Grazie, gradi di cuore.
E grazia soprattutto a
te, mia galattica uditrice.
E ricorda che per
qualunque cosa io ci
sono.
Ti voglio bene.
A voi, un bacio,
Panda.