Capitolo 26
La
sete
Capovolto.
Il mondo capovolto dinnanzi ai suoi occhi, vivo, pulsante di suggestioni
inafferrabili, la linea spezzata di un pensiero che, stravolgendo l’ordine
logico delle cose, annacquava e plasmava senza criterio ogni singolo
oggetto.
Una
pressione crescente gli pungeva il cranio, come se perfino i suoi capelli
fossero divenuti un peso insopportabile che lo attirava dolorosamente in basso.
Tante minuscole trafitture di spillo sotto la cute, come se il suo corpo fosse
stato tramutato in fragile vetro.
E
forse a quella cosa non importava granché, se le sue
giunture cominciavano a dolere, a bruciare sotto la pelle
tesa.
Piangevo…
per Fernand. È tutto ciò che riesco a ricordare, a convogliare in una
successione coerente; l’unica sensazione viva, come un ferro rovente incuneato a
forza dentro la ferita.
E
no, non rimuoverlo, ti prego: farà male. So che ne morirò, ma ti prego, lascia
tutto così. Scorrerà meno sangue.
E
poi… Tutto in fumo. Ogni impianto scompaginato da uno sbuffo d’aria nella notte;
la variazione impercettibile di un istante in cui nulla, nulla rappresenta più
un legame con quella realtà che pesa come piombo.
Il
buio.
I
suoi sensi riuscivano solo a frantumare le percezioni in un groviglio in cui
tutto era stravolto, trasfigurato, precipitato nel caos, in un inestricabile
tumulto fra realtà e immaginazione, annegato in un intrico di percezioni
sconnesse che la sua sensibilità cutanea sintetizzava a fatica, che la mente si
rifiutava di raccogliere. Una nenia ipnotica nella testa a far da cornice, da
sottofondo illusorio della sua discesa vertiginosa
nell’incoscienza.
Eppure
faceva caldo tra le sue braccia, nonostante il suo respiro così freddo, un’unica
nota carezzevole che ne stemperava l’impatto metallico, innaturale sul suo
viso.
Attendeva,
Dorian, sulla pelle i brividi di un desiderio improvviso, inconsulto. Qualcosa
di conosciuto, un alienante
déjà-vu che gli serpeggiava nelle carni. Tutto amplificato intorno a lui,
nebuloso, distorto. Strizzò le palpebre. Tutto così… assurdo!
Vieni,
avrebbe voluto ingiungergli con voce soffice. Alla creatura che lo teneva sotto
il proprio imperio insindacabile. Ti desidero. Non indugiare ancora,
metti fine all’agonia di un’attesa snervante.
Sei
bellissimo, Dorian.
Solo
un sibilo confuso nella sua mente, un debole miraggio. E il suo corpo scosso da
un moto convulso, quando un formicolio intenso gli si addensò alla base del
collo e risalì sottopelle con un moto circolare, ipnotico. Tanto da ritrovarsi
inarcato verso la creatura che lo teneva avvinto a sé. Come la falena attratta
dalla fiamma, oscillava verso di lui a chiedergli di più. Desiderio dirompente e
sconosciuto, eco remota dall’intensità tremenda.
Ogni
percezione giaceva capovolta davanti ai suoi occhi. E tutto sfumava, diventava
vivo, divampava di mille luccichii confusi, il battito del cuore un rombo
martellante che gli esplodeva nelle tempie, un intenso languore che gli mordeva
il petto, sovrapponendosi ad ogni altra facoltà
sensoriale.
E
poi, di nuovo, il buio. L’insondabile buio.
*
* *
Era
stato poco più che un istante. La presa del suo compagno salda su di lui, quasi
dolorosa. Lui. Il vampiro
giovane. L’aveva ghermito alle spalle di sorpresa, unghie di diamante a
perforargli la carne, e l’aveva scagliato lontano.
Niente
male, per un novizio, avrebbe detto in un’altra occasione. Davvero niente male.
Ora invece sentì la pelle del volto tendersi in uno spasimo d’ira, le labbra
contratte in un soffio, come una fiera a cui è stato strappato il cibo di
bocca.
Lui.
La sua creatura torreggiava su di lui, le dita
frementi di rabbia. L’aveva afferrato come uno straccio e strappato via, lontano
da Dorian, per poi scaraventarlo contro il muro. Lontano da
lui.
Digrignò
i denti, un lampo di frustrazione a contrargli le viscere. Poi, lentamente, la
rabbia scivolò via come gocce di pioggia, e un guizzo di razionalità riaffiorò
sul suo volto livido, modellandolo in un’espressione meno
ferina.
Sospirò:
un secondo soltanto, e avrebbe potuto annientarlo. La sua creatura. L’aveva
tradito.
Distratto,
si portò una mano alle labbra, nettandole dal sangue
rappreso.
Come
stille di veleno. Veleno che torna a perseguitarmi, puntuale, appena le stelle
tramontano sulla volta del cielo.
E
per un istante riuscì persino a non curarsi di lui né di quel tremito oscuro in
punta di labbra, come il battito di un cuore impazzito: c’era solo l’istante in
cui lui e Dorian erano stati una sola cosa che respirava, una sola sorgente di
sangue e spirito dirompente. Poi due mani l’avevano strappato via di lì,
infrangendo la sua estasi.
Il
suo compagno immortale gli volgeva le spalle, chino sul corpo privo di sensi di
Dorian. Veloce, se lo strinse al petto come un fagotto, appena si avvide di
quanto fosse vicino. I suoi occhi serpeggiarono di
collera.
-
Dannazione! – gli parve di sentirlo soffiare tra i denti.
Quei
piccoli, adorabili canini vergini. Bianchi e incontaminati come il suo volto,
come il manto di tristezza che gli aveva gettato addosso.
-
Dio, è… È Dorian! – il suo sguardo scorse su di lui, in attesa; poi una specie
di ringhio basso, gutturale – Che cosa gli hai fatto?
E
lui, in tutta risposta, lo fissò con rabbia. Come se, di colpo, la sola vista
gli desse la nausea. E il desiderio di schiaffeggiarlo.
-
Avanti… – lo incalzò con un sussurro gelido, buttando le sue rimostranze nel
dimenticatoio – Forza. Fammi vedere se hai imparato la
lezione.
-
Rispondi alla mia domanda.
-
La mia era una risposta. Pensi che per te sarà… diverso? Migliore? Pensi di
resistere ancora a lungo alla sete? Hai le labbra livide. Hai bisogno di
sangue.
Il
suo sguardo scivolò sul volto di Dorian. Il colore gli era già fuggito dalle
guance. Avrebbe resistito ancora un po’. All’assalto della seconda delle belve
affamate che avevano fatto di lui il loro singolare
banchetto.
Ignorando
le proteste del suo compagno che cercava di sottrarglielo, accostò il viso alla
gola di Dorian e lo ripulì del filo di sangue che colava dalla piccola ferita.
Un attimo prima di riporre lo sguardo su di lui e affrontarlo.
-
Coraggio, mordilo! – gli sibilò con voce ghiaccia, dopo un lasso di tempo che
gli parve eterno.
Gli
premette le dita sulle labbra incontaminate.
Ridacchiò
fra sé, quando avvertì le piccole zanne penetrare nel polpastrello con un impeto
collerico che lo fece sussultare.
Ce
l’hai ancora con me, piccolo? Non avevamo altra scelta: lo
sapevi.
-
Osserva – proseguì – Un piccolo… accorgimento, se così vorrai chiamarlo.
Stavolta non lascerò niente al caso. Promesso. Niente errori… da principianti!
Potevamo mandare tutto in fumo, capisci? Scatenare il panico. Stavolta, invece,
starò attento a non lasciare tracce.
Un
piacere sadico gli annacquò i sensi, quando vide i lineamenti scolpiti sulla
carnagione di marmo della sua creatura contrarsi in uno spasmo inorridito.
Metodico, attese che qualche goccia di sangue di vampiro dalle sue dita colasse
sui piccoli fori sul collo di Dorian.
Lui aveva
distolto lo sguardo, quando i margini delle minuscole ferite si riaccostarono
l’un l’altro, celando ogni segno visibile. Sorrise.
-
Un piccolo trucco per amici sospettosi dalla vista acuta –
concluse.
-
E… adesso? – il volto della sua creatura era il ritratto del
terrore.
Indugiava.
-
Adesso cìbati di lui, se lo desideri. Ma fallo con garbo, mon ami.
-
Sei un bastardo. Vuoi esasperarmi.
-
E tu cerca di muoverti! – lo redarguì, spazientito, allungando il passo lungo la
strada, i suoi rimbrotti a rimestargli nella testa, ossessivi, come una
cantilena inquietante.
-
Tu sei pazzo! Qualcuno… Ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. Non
risponde più, dannazione…! Cosa gli hai fatto?
Qualcosa
gli folgorò nella mente. Tornò sui suoi passi, le labbra increspate in un mezzo
sorriso accondiscendente. Non aveva mai avuto l’intenzione di abbandonarlo lì,
al centro della città, giovane e inesperto, con il corpo del reato stretto fra
le mani. Ma voleva misurare le sue reazioni, la sua paura, saggiarlo
lentamente.
Era vicino, adesso. E Dorian,
esanime tra le sue braccia, un cumulo di stracci estremamente prezioso. I
capelli biondi, ributtati disordinatamente all’indietro, rilucevano sotto il
pallido chiarore lunare.
-
Dorian, mi senti? – seguitava quell’altro, indefesso, un fastidioso miagolio che
gli pungeva le orecchie.
Povero
piccolo sciocco! Sei quasi peggio di me.
-
Dobbiamo… portarlo via.
-
Taci una volta per tutte, incosciente! – lui stesso trasalì al sibilo metallico
che gli aveva spezzato la voce – Ci mancherebbe che non fosse svenuto! Che ci
vedesse in faccia.
Dorian…!
Contrasse
le palpebre, un accesso di dolore inchiodato al petto.
Fingi
che non sia accaduto nulla.
-
Dove l’hai perso, stavolta, il tuo unico barlume di umanità? – gli insinuò il
vampiro giovane, beffardo – L’ultima volta era sotto il tuo
letto…
E
lui si sforzò ancora una volta di rimanere calmo, un sorriso esasperato sulle
labbra scarlatte.
-
Parli di… umanità? La tua è
avventatezza, la forma peggiore di stupidità che potessi cacciare fuori –
veloce, accennò con il mento alla bassa costruzione in fondo alla strada, al
crocevia – Per di là. È tutto sotto controllo, e la locanda dei viscidissimi
Lambert farà al caso nostro. Ci sono le lenzuola pulite e le puttane ad
allietare la compagnia: cosa pretendi di più?
Si
fissarono per lunghi istanti, in attesa.
Sciocco
principiante!
L’avrebbe
rispedito a casa a suon di calci e l’avrebbe tenuto lì fino a che non fosse
stato di nuovo in grado di mettere il cervello all’opera. Se solo la sua
presenza non fosse così dannatamente utile.
Lentamente,
volse la testa verso di lui con un sorriso carico
d’indulgenza.
-
Avvicinati… – gli sussurrò – E promettimi che non farai nulla. Nessuna
iniziativa da incoscienti.
Veloce,
sollevò la manica fino al gomito; strinse le palpebre, nell’attimo in cui le sue
stesse unghie si conficcarono nella pelle candida del polso, e il disegno
violaceo delle vene in rilievo fu infranto dalla furia dell’artiglio acuminato
che penetrava a fondo. Dal sangue che sprizzò tutt’intorno, frantumando davanti
ai suoi occhi quella visione eburnea.
Barcollò
sotto la cappa torbida di un orgasmo. In un ultimo guizzo di lucidità, afferrò
il compagno per la nuca e gli premette la faccia sulla ferita pulsante. Come un
cucciolo a cui insegnare come bere il latte dal piatto.
E
poi fu solo la pace, una carezza liquida che gli sfiorò il viso, catalizzando di
prepotenza ogni altra percezione. Si sentì venir meno, la mano libera premuta
sul volto a soffocare un grido devastante, i cuori che acceleravano
all’unisono.
Bevi
da me, piccolo disgraziato! Sei un bambino che abbisogna di essere
imboccato.
-
Può bastare – gli ingiunse, categorico, respingendolo con un gesto che non
ammetteva reazioni.
Si
pulì con noncuranza e gli allungò una carezza sui capelli.
Lui aveva
mutato espressione, le labbra deliziose bagnate di rosso come un ragazzino
ingordo che si imbratta la faccia avventandosi sul cibo con voracità – e il
pensiero lo nauseò. I suoi capelli erano morbidi, le iridi vibranti di
sensazioni taciute sotto le sue dita, la bocca un frutto delicato. Era
bellissimo.
La
malinconia che gli serrava il respiro negli attimi immediatamente successivi al
forzato banchetto, incalzò su di lui come una brezza gelida, una carezza
beffarda prossima a diventare bufera. La magia sarebbe svanita, e un altro pezzo
di sé stesso perduto, una scommessa azzardata al tavolo dei
bari.
-
Voglio andare via… – era la propria voce, ed era cambiata: la sentì scorrere
nella gola, leggera, smarrita.
Lui gli
si stagliò davanti agli occhi, visione prepotente come un agglomerato di
contrasti abbaglianti – il volto di candida biacca, le labbra cremisi
voluttuose. L’indecisione crescente e la consapevolezza del cambiamento
impallidivano in un’impronta severa, risoluta.
-
Prima dovrai… rimediare a questo – gli rammentò, accennando con occhi fugaci
alla figura arruffata di Dorian accoccolata ai suoi piedi, il respiro
leggero.
E
lui annuì scuotendo il capo, e il corpo di Dorian fu di nuovo tra le sue
braccia.
-
Resta qui. Lo porterò alla locanda.
-
Non così.
Immobile
al centro della via, per poco non scoppiò in lacrime. Il suo granitico
autocontrollo cedeva sotto i colpi serrati di un disperato estraniamento; e
stavolta era stato lui, il suo giovanissimo novizio, la sua creatura, a porre
rimedio alla sua avventatezza. Soffiò, infastidito. E poi osservò il fardello
che reggeva tra le braccia con disinvoltura, e provò a considerare fra sé dove
stesse l’inganno, stavolta.
Dorian
aveva una statura notevole, e l’ampiezza generosa delle spalle lasciava intuire
un corpo asciutto e muscoloso. Avrebbe suscitato curiosità, là dentro, il fatto
che lui lo sollevasse come un gatto senza tracce di fatica sul
volto.
La
sua creatura aveva l’occhio lungo. Sarebbe stato perfetto. Un perfetto
intrigante.
Svelto,
lasciò tintinnare fra le dita un pugno di monete.
-
Sistemerò tutto: non devi preoccuparti.
-
Come sta Dorian? – seguitò l’altro, imperterrito, con l’insistenza di un ossesso
– Gli hai fatto… male?
Sospirò.
Sarebbe divenuta la nuova monomania, se non avesse provveduto a fugare quanto
prima quel suo dubbio ancestrale. Lo fissò con occhi beffardi. Lui e la sua bocca impiastricciata di
sangue.
-
Ti risulta che io ti abbia fatto del
male?
Lo
soppesò di capo a piedi, il sopracciglio impercettibilmente
inarcato.
-
Non… non ricordo – le palpebre gli si assottigliarono
nell’incertezza.
Se
non altro, è sincero.
Distolse
lo sguardo. Restavano due opzioni: troncare là il discorso, oppure chiudergli
una volta per tutte quella bocca che sapeva di sangue con qualcosa davvero in
grado di destabilizzarlo. Ghignò, mentre sceglieva le pedine da scagliare sul
tavolo da gioco, un sorriso insinuante ad increspargli il
volto.
-
Allora… Prova a immaginare l’orgasmo di un uomo. Ecco… Pensa ora di travalicare
il limite fisico. Qualcosa che sia fisicamente impossibile, come… Un orgasmo di
seguito all’altro, senza sosta, potenziato fino all’estremo, nel giro di pochi
secondi. Fisicamente insopportabile e meravigliosamente devastante per queste
membra ancora tenere e cedevoli. Ecco, qualcosa di simile – cinguettò,
accennando maliziosamente a Dorian.
Piccolo,
sensuale Dorian…!
Se
qualcuno – l’oste, magari – gli avesse chiesto spiegazioni sul momento, gli
avrebbe raccontato del suo amico dai lunghi capelli biondi, della sua sbronza
colossale e dell’assoluto bisogno di una dormita.
La
tua ubriachezza non sarebbe fuori luogo, se qualcuno dei tuoi amici apprendesse
la tua destinazione per questa notte, mio caro Dorian. Noi sappiamo entrambi il
perché, ed entrambi sapremo fornire – quanto meno a noi stessi – una spiegazione
passabile per vera.
I
soldi sono al sicuro dentro il tuo mantello. Paga la notte e vattene a
casa.
Ho
pensato a tutto.
Indugiò
con lo sguardo sul suo volto privo di espressione, immobile in una specie di
trance indotta, mentre si premurava di infilarlo sotto coltri candide,
rimboccate fin sotto il mento.
Per
un attimo assaporò il desiderio di sfiorargli la fronte con un bacio,
impalpabile come un ansito leggero. La sua pelle calda palpitò sotto le sue
labbra, veicolo inconsapevole per sondarlo impunemente nella notte, i suoi
pensieri come sogni confusi che si sovrapponevano l’uno sull’altro, come un
tenero calore capace di immergerlo totalmente nella visione, di accoglierlo in
sé.
Perdonami…
Dorian.
*
* *
La
sera di Auguste fu un torpore febbricitante venato di incubi sconnessi e pieni
d’angoscia; il suo unico, debole frangente di lucidità gli rammentò soltanto di
Raphäel Lemoine, il volto pallido serrato in un’espressione rasserenante,
nell’atto di somministrargli qualcosa.
Tutti
cominciano a temere per la mia incolumità fisica. Credono che il mio sia un
suicidio distillato nella danza crudele dei giorni e dei mesi, ben occultato fra
essi. Una morte annunciata e consumata con comodo, un lungo stillicidio. Gettare
la spugna e smettere di mantenersi in vita.
Da
quando non mandavi giù un pasto decente, Auguste? Da quando non trascorrevi una
notte di vero riposo?
È
come giacere su un letto di spine la sera e ingoiare vetro nell’arco della
giornata.
No,
non lasciarti morire: lo avevi promesso. Tutto, ricordi? Tutto, ma non la resa
ultima. Non la fuga, il nulla da cui non si torna indietro, l’insulto estremo
alla sua memoria.
Qualunque
altra cosa, Auguste.
Anche
se ti sembra che il tuo stesso corpo rifiuti di mantenerti in vita, e ogni
respiro è una boccata di fiele.
Sto
bene. Non mi lascerò andare: promesso.
E
poi, il delirio. Un lungo incubo privo di immagini che non lascia tracce al
risveglio: neppure il ricordo, solo il sudore sulla fronte e il respiro come un
torchio impazzito.
Quel…
quell’incosciente, maledetto Raphäel Lemoine: deve avermi drogato senza farne
parola con nessuno. Accidenti a lui, dannato moccioso intrigante, e al suo
stupido intruglio.
Strizzando
le palpebre nella spessa coltre di nebbia che gli incatenava i sensi, avvertì
per un istante un bagliore luminoso dinnanzi a sé, una lama di luce che
comunicava con il mondo esterno. O forse con lo stesso limbo in cui era
precipitato.
D’istinto,
piantò le unghie sulle lenzuola sfatte, artigliandole, sopraffatto da un
capogiro nel faticoso tentativo di sollevare il capo.
L’unica
sensazione fu un lungo brivido, come un battito mancato. E poi un volto che, in
un lampo, mise a fuoco.
Un
viso che no, non era quello di Raphäel Lemoine, sedicente cerusico da quattro
soldi.
Era
un volto di ragazzo, incorniciato da lunghi capelli ondulati, con occhi come
tizzoni ardenti piantati nella neve e un sorriso sarcastico, l’immagine distorta
da una sensazione fissa, persistente.
Auguste
sbatté le palpebre e si costrinse ad incatenare lo sguardo sulla sua visione
estatica. La morbidezza di tratti peccaminosamente androgini. Non ricordava cosa
fosse accaduto in capo a qualche ora prima. C’era lui e c’era il caos, la
caligine che ottunde le percezioni.
Fernand.
È
restato a vegliare in silenzio, dopo che gli ho detto di tutto. Dev’essere
impazzito.
Forse
ho davvero oltrepassato il limite.
Perché
ricordo la quiete dopo la tempesta, la droga che entra sfacciatamente in circolo
senza che me ne renda conto, la pelliccia serica di un gatto accoccolato accanto
a me, il corpo che vibra contro la mia mano aperta.
E
poi lui che irrompe dinnanzi a me, il volto congestionato che si sforza di
apparire indifferente. Gli occhi scintillanti, la smania di chiudere al più
presto una maledetta questione, prima di impazzire persi in fondo alla strada
sbagliata.
E
poi, lottando contro il tremito che fino a pochi istanti prima gli impacciava le
membra, cerca di ingannare l’insopprimibile cappa d’imbarazzo allungando una
carezza al mio gatto, prima di ritagliarsi un proprio angolo all’estremo opposto
del letto e sedere in disparte, raccolto su se stesso. Lui e il
gatto.
Ricordo
il fremente nervosismo con cui si ravviava i capelli dietro la nuca. Sulle
spine, indeciso su quale fosse il filo più inoffensivo da cui iniziare a
sbrogliare il sermone della pace.
Ricordo
di averlo odiato, almeno per un istante. Per un attimo avrei preferito lasciarlo
marcire nella sua angoscia, nel suo dolore.
Solo
perché è lui, Fernand Laroche.
E,
se fossi abbastanza malvagio, forse riuscirei a detestarlo almeno un po’, per il
fatto di esistere e di essere foschia inafferrabile.
Per
tutto ciò che è e rappresenta. Perché esiste, respira a pochi centimetri dalla
mia faccia e osa presentarsi davanti a me con il suo dannato
bagaglio.
Perché
non è altro che un fatale conglomerato di tutto ciò che non sono e non potrò mai
essere.
È
gelo negli occhi, è istinto di fiamma. È coraggio, volontà indefessa e
incorrotta. È l’animo fiero che ruggisce in faccia all’ingiustizia, e non lo
farebbe, no, se non per un moto sincero del cuore.
È
il corollario di tutto ciò di cui difetto tragicamente. È lo slancio e la
purezza. È un piccolo angelo appena nato, e la luce implacabile che lo
avvolge.
Perdonami
se ti ho fatto del male, Fernand. Se l’unica impressione che ti ho lasciato
addosso, incollata alle ossa, è di averti preso e stracciato in due, per poi
lasciarti lì, col cuore agonizzante.
Ma
tu sei… meraviglioso, anche se dalla mia bocca non le sentirai mai, queste
parole. Perché, se anche è vero che ti ho lasciato un’eredità scomoda, non devi
ringraziarmi mai, ma sputarmi in faccia, perché ti sto cacciando nel profondo
inferno, e credimi, è il male minore.
È
il tuo odioso momento di gloria, mio Fernand.
Lui
se ne stava lì di fronte a me, senza muoversi. Potevo intuire la linea delicata
del suo volto, l’ovale pallido come una visione nella nebbia, nel brusio che
offuscava ogni percezione.
Sei
tu, Fernand? A inchiodarmi dolorosamente a terra, impotente e sconfitto, o sono
i tuoi occhi, la piega vagamente diabolica delle tue labbra?
Lui
socchiudeva le palpebre.
Non
parlare, Fernand. Ecco, non ora. Perché sentirei e ascolterei soltanto ciò che
la mente seleziona sulla base di criteri oscuri. Sentirei la conferma dei miei
timori.
E
la tua sola vista, le labbra che smaniano per parlare, è sufficiente a far
defluire il sangue dal mio viso.
Il
suo volto è un velo di verità intrinseca, di chi ha deciso di denudarsi senza
rimpianti. È un’artistica macchia di sangue su un drappo di
seta.
Si
tormenta una ciocca di capelli con dita rapide, tremanti. E poi si decide a
parlare.
Quindi
sarei io, la soluzione di tutto?
Preferisci
tagliare corto, Auguste, puntare dritto alla soluzione che ti sembra più facile:
lasciare tutto in sospeso e convincere la tua mente che sì, che non potevi più
accollarti le tue responsabilità e continuare a lottare con noi?
Cosa
sono io, Auguste, in tutto questo?
Sono
la scelta di comodo, il male minore, l’insulto ben dissimulato, l’occasione di
ripiombarmi addosso nel momento meno opportuno, di sviscerare i miei errori e
dire “sì, Fernand, avevo ragione; te l’avevo detto, Fernand, ora levati dai
piedi e lascia stare”?
Ma
tu sei la giovinezza e il coraggio che non ho, Fernand. Io… sono stanco. Non
sono la persona che credevi. Perché grido e giro attorno al dramma senza
approdare a nulla, nell’ipotesi buona. Moltiplicando la portata del danno,
nell’ipotesi peggiore. E questo è quanto.
Non
puoi dire che non sia stato un buon “capo”, da questo punto di vista: non posso
dire di aver scelto male i collaboratori. Ti sembra poco?
Non
puoi dire che non abbia l’onestà di tirarmi fuori dalla questione, quando la mia
presenza è di troppo, un cattivo burattinaio che non riesce più a tirare le
fila.
È
davvero così… detestabile, piena di interpretazioni distorte, la mia decisione?
Se è così, incasserò il tuo parere e andrò per la mia strada. Perché non
rimpiango ciò che ho fatto.
Il
resto sarà carta bianca, nei limiti della vostra incolumità.
Lui
impallidiva sotto il chiarore smorto di una luce stentata, malaticcia. Diceva
che ero un dannatissimo testardo – ancora una volta. Che ero completamente
pazzo, se pensavo davvero certe cose. O che baravo in modo così spudorato da non
lasciare un margine d’errore. In tal caso, avrebbe provveduto personalmente a
prendermi a calci fino a convincermi a riprendere in mano quello che secondo lui
sarebbe stato il mio preciso dovere.
Non
chiedo la luna, Auguste. Chiedo di recuperare il recuperabile. Non gettare tutto
sul banco delle scommesse, alla rinfusa, il Caso unico giudice dagli occhi
velati.
Ma
io voglio andare via, Fernand. Vorrei solo specchiarmi in questi occhi di
prezioso cobalto e dire che la mia vita inizia e finisce qua.
Cos’è
questa… storia, Auguste? Hai forse paura? Illuminami.
La
paura non è cosa di cui vergognarsi, Fernand. E stavolta non ho peccato di
incoerenza.
È
una soluzione stronza, Auguste. E… sbagliata. Vuoi sbarazzarti di te stesso. Di
noi. Di tutto ciò in cui credevi.
Non
è così, Fernand.
Decidi
almeno tu che cosa fare: vattene oppure resta.
Non
ricordo cosa sia accaduto dopo, perché i contorni si confondevano sull’orlo del
precipizio. Credo di aver perduto il filo.
Ti
stai uccidendo con le tue mani.
Diceva.
Può
darsi. Perché neppure il duca, neppure il fatto di non vivere in una città
libera, può togliermi l’ultima libertà. Ma non è il mio caso.
Tu
hai bisogno di… qualcosa che ti faccia di nuovo vedere quel maledetto spiraglio,
Auguste. Hai bisogno di qualcosa da amare davvero.
Amare
può diventare il tuo supplizio permanente, Fernand, e mi meraviglio che proprio
tu non te ne sia reso conto.
Non
si può amare un cumulo di polvere che ti schiaffeggia in viso durante il
sonno.
Per
quanto mi riguarda, non ho bisogno di nulla, e questa è già una proiezione
eccessiva, se ci pensi, un ragionamento troppo alto, prematuro. Possibile non te
ne sia ancora reso conto, Ferdinand? È così… elementare.
Ho
solo bisogno di seguire ancora un po’ con lo sguardo il gioco di luci sulle
pareti in penombra, un bagliore improvviso a rischiarare le mie impalcature. E
di osservare le farfalle al di là della mia finestra. Chiedo davvero
troppo?
Ricordo
che ad un certo punto abbiamo riso entrambi. A lungo, in un modo quasi…
isterico. Liberatorio.
Prima
che il suo volto d’aria impalpabile e sottile non si confondesse in un delirio
di lava incandescente; qualcosa di tremendamente imprevisto, come l’innocenza
stessa, che si posava a sfiorarmi le labbra.
E
poi, giuro, è stato solo un subisso di brividi sotto la pelle, un’allucinazione
più tangibile delle altre, un lento precipitare in un mosaico di follia, dove
ogni singolo tassello si confondeva sotto il mio tocco.
Le
labbra che scorrevano le une sulle altre come un incastro
perfetto.
Sì,
questo siamo noi, Ferdinand.
Ed
ecco: morire adesso, per la seconda volta, non è una scelta da scartare a
priori.
*
* *
Fernand
sorrideva dall’angolo opposto della stanza. In maniche di camicia, le braccia
strette contro il petto, in attesa. Il sorriso che emergeva con
strafottenza.
Che
diavolo è successo, stanotte?
Aveva
un nonsoché di beffardo, il modo in cui si avvicinava, i capelli scomposti
intorno al volto di ghiaccio sottile.
Che.
Diavolo. È. Successo. Stanotte.
-
Cosa ci fai qui?
Fernand
si limitò a ravviarsi in un gesto civettuolo, divertito, i capelli che gli erano
ricaduti sulla faccia.
-
Nulla. Dormivi. Come ti senti?
Auguste
si tirò su a sedere, constatando con sorpresa quanto, in capo a… qualche ora?
Qualche minuto? Non avrebbe saputo stabilirlo. Quanto ogni traccia di malessere
fosse scomparsa in lui. L’incubo che gradualmente si era dissolto davanti ai
suoi occhi, a parte quel sibillino sentore di stanchezza accumulato sulle ossa,
reduce da un sonno scomposto che non ha apportato il sollievo
dovuto.
-
Meglio…
Distolse
lo sguardo. Era stato ingannato, la sua razionalità strappata via, presa in
prestito per una manciata di ore.
Si
strofinò la faccia. Perché voleva ricordare. Lo voleva
disperatamente.
Fernand
sollevò gli occhi al cielo come se attendesse una risposta. Scosse il
capo.
-
Perché… proprio io, Auguste?
Te
l’ho spiegato. Dannato ragazzino.
-
Fingerò di non aver sentito, Fernand… – sogghignò: voleva godersi le scintille
di rabbia che presto avrebbero increspato quel volticino senza
tempo.
-
Non ho intenzione di ripetermi – rimarcò.
-
Non stiamo giocando, Auguste.
-
Lo dico per questo.
Silenzio.
Fernand
si lasciò scivolare sul pavimento, il mento sulle ginocchia, in attesa che gli
spigoli vivi del sospetto più cocente scemassero
nell’aria.
Auguste
distolse lo sguardo. La nebbia che continuava a oscillare davanti ai suoi
occhi.
C’è
un altro motivo cruciale, anche se sarebbe meglio che non lo sapessi. E no:
scordatelo che venga a dirti a viso aperto che sono un vigliacco. Ciò che tu,
nella tua posizione mentale, chiameresti vigliaccheria.
Si
tirò su in piedi, si diede un’occhiata sommaria. Aveva gli abiti stazzonati, ma,
per il resto, non sembrava reduce da un torpore delirante. Non sentiva più la
testa pulsare.
-
Avvicinati, Fernand.
Lo
osservò da vicino. Aveva gli occhi arrossati dal dubbio, le sopracciglia
delicate modellate in un’espressione serena. Solo le labbra tradivano un che
d’infantile e di sfrontato: il modo in cui le arricciava
impercettibilmente.
Per
un attimo, si ritrovò a distogliere il viso dal suo. Aveva maturato l’occasione,
ed erano labbra che conosceva, tiepide contro le sue.
Era
soltanto questo.
Ed
era dannatamente diverso, ora, come una sensazione amplificata, assaporare la
sua bocca senza che la visuale fosse offuscata da filtri come la disperazione o
come l’intruglio che dona l’oblio che Raphäel gli aveva somministrato a
tradimento.
Fermami
adesso, Fernand. Te ne prego. Perché è così… dannatamente sbagliato, imprevisto.
Non sono ciò che tu pensi.
Fernand
non parlava. Non accennava a respingerlo. Dischiudeva le labbra, e in lui non vi
era il gelo del rifiuto né uno sguardo d’accusa. Esplodeva contro di lui, la sua
stessa presenza come un’esplosione di colore; era il sangue che correva ad
incendiargli le gote, il respiro che vibrava sotto il guscio sottile della
gola.
Era
la voluttà aggressiva, costellata di deboli sprazzi di controllo, con cui
lasciava scivolare le labbra sulle sue.
Era
la frenesia con cui gli prendeva le mani e se le portava intorno ai fianchi,
Fernand, le spalle scosse da un fremito profondo.
Erano
mille tasselli che collimavano sul suo viso, che stravolgevano il suo
ritratto.
È
atrocemente… sbagliato, Fernand. Non è giusto. Non siamo nel
giusto.
Abbiamo
fatto l’amore, stanotte, Fernand?
Non
farebbe una gran differenza dissipare la tenebra del sospetto. Non è cambiato
nulla.
Lui
premeva il proprio corpo contro il suo e con il respiro gli sussurrava che lo
voleva, che voleva essere suo, una lacrima capricciosa a tracciare un languido
ricamo sul suo volto.
Auguste
serrò le palpebre, assaporando il suo profumo. Perché dopo, dopo nulla sarebbe
stato come prima, e non sarebbero tornati indietro.
Vieni,
mio Fernand. Sali su quest’altare e chiudi gli occhi, e non pensare neanche per
sbaglio che qualcosa non ti sia dovuto.
Era
una tela bianca da dipingere, Fernand. Da orlare di rosso e di lacrime
roventi.
Era
il colletto arioso della camicia troppo grande che gli oscillava intorno ai
fianchi, mentre il corpo emergeva dall’intrico dei vestiti, fine alabastro
culminante in un paio di spalle squadrate.
Era
quella decina di dita sottili che gli insinuava alla base della nuca,
spingendolo verso di lui, sempre più giù.
Era
il ricciolo scomposto che gli ondeggiava candidamente sulla spalla, mentre, in
silenzio, lasciava che due labbra sconosciute disegnassero una rete di vibrante
estenuazione intorno alle clavicole.
Era
il calore che lo assaliva all’inguine, mentre si lasciava trascinare schiena
contro il tavolo.
Era
il gemito che incideva l’aria intorno a lui, il respiro come una rapida carezza,
Fernand. Il profumo in cui si sarebbe cullato in eterno.
Stava
lì, chino tra le gambe di Fernand voluttuosamente distese, a modellare il suo
corpo in una fitta d’impaziente desiderio. A scavargli addosso le voragini di
una bramosia dirompente.
Sapeva
di miele, Fernand, di una smania oscura e prepotente. Auguste lo osservava,
beveva la sua lenta deriva della coscienza, il suo crescente
smarrirsi.
I
suoi fianchi dicevano sì.
Che lui, Fernand, voleva fare l’amore con lui, e non sarebbe tornato indietro.
Era pallido e grondava d’impazienza, le labbra socchiuse in un lungo sospiro, il
corpo che ondeggiava lento contro il suo, il piacere convulso tradotto in uno
strofinio ipnotico.
Auguste
l’aveva accarezzato a lungo, mentre lo esplorava con impellente accanimento,
assaporandolo lentamente e ascoltando il vibrare sotto la
pelle.
Aveva
un’enfasi quasi… sofferta, Fernand, abbandonato su se stesso, furioso
nell’accogliere ogni fitta di piacere che gli veniva donata. Come se il languore
di una sensazione protratta a lungo fosse semplicemente… troppo. Troppo per lui.
Di un’intensità dolorosa, prossima a sprofondarlo nel
delirio.
Era
nudo, desiderio privo di filtri. Era ghiaccio reso ardente da qualche strano
gioco di luci; era bellezza e piacere incontaminato.
Auguste
tremò, nell’istante in cui penetrò in lui, e Fernand lo accolse con un morbido
assenso, la mente ottenebrata dal deliquio. Si contorse in uno spasimo, la
schiena inarcata.
Fu
un istante. Fernand gemette, un sospiro roco, spezzato, pulsante. Si tirò su
facendo leva sui gomiti, i muscoli contratti. Strizzò le palpebre come sotto una
raffica violenta, il corpo che si distendeva sotto il suo, quasi a volerlo
accogliere dentro di sé con ogni singola cellula. Le sue membra si serrarono su
di lui come un guscio, il volto acceso di una sensazione sconosciuta; e per un
attimo Auguste ebbe l’impulso di piangere, di interrompere quel folle volo e
deporre Fernand su un letto di piume, nudo e intatto nel marmo pregiato della
sua pelle. Così come l’aveva trovato.
Perdonami,
piccolo…
Solo
che poi sentì i suoi fianchi cedere, avanzare lentamente, attorcigliarsi a lui e
mulinare dolcemente, in attesa. Era un fascio di nervi guizzanti. Lui. Fernand.
Distratto,
Auguste gli disegnò una carezza lungo il petto, e indugiò ancora una volta, a
lungo, sul suo sesso, pressato nello strofinio crudele di due epidermidi di
diversa gradazione.
Fernand
si sarebbe lasciato morire, fuso in quell’abbraccio famelico, un oceano di lava
in punta di dita, e poi sarebbe caduto in deliquio, il battito
sconnesso.
Lui
invece preferì celare il proprio volto nell’incavo della sua spalla, immergersi
nel labirinto dei suoi capelli e baciarlo, ripagarlo del dolore che gli aveva
arrecato da sempre, dal giorno in cui, per un caso fortuito, si erano trovati
nella stessa stanza a dividersi la stessa manciata d’ossigeno, in un luogo e in
un tempo qualunque.
Aveva
voglia di piangere. Di lasciar collassare ogni frustrante malinteso nel grido di
un orgasmo; orgasmo che gli avrebbe offerto a piene mani.
A
lui, il suo bellissimo Fernand che cercava le sue
labbra e lo teneva stretto a sé.
Al suo Fernand che si lasciava annegare in
un’ampolla d’etere dolcissimo, un guizzo d’incoscienza nelle iridi d’inchiostro
liquido, mentre scivolava contro la superficie del tavolo, il cuore leggero e il
volto assente, scavato nella nebbia.
Auguste
udì soltanto un mugolio incomprensibile; osservò la propria mano, bagnata del
seme di Fernand, rilucere lievemente nella penombra, e per un istante avvertì un
moto di tenerezza, un senso profondo di appartenenza.
Poi
Fernand si abbatté su di lui, la cute solcata da brividi.
E
chissà, chissà quali frammenti di pensiero fluttuavano in quell’istante nella
sua mente scollegata da tutto il resto, velata. Frammenti che sarebbero restati
così. Incontaminati, raccolti sotto la barriera delle palpebre
socchiuse.