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Autore: Cassandra Morgana    08/05/2010    2 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Capitolo 26

La sete

 

 

Capovolto. Il mondo capovolto dinnanzi ai suoi occhi, vivo, pulsante di suggestioni inafferrabili, la linea spezzata di un pensiero che, stravolgendo l’ordine logico delle cose, annacquava e plasmava senza criterio ogni singolo oggetto.

Una pressione crescente gli pungeva il cranio, come se perfino i suoi capelli fossero divenuti un peso insopportabile che lo attirava dolorosamente in basso. Tante minuscole trafitture di spillo sotto la cute, come se il suo corpo fosse stato tramutato in fragile vetro.

E forse a quella cosa non importava granché, se le sue giunture cominciavano a dolere, a bruciare sotto la pelle tesa.

 

Piangevo… per Fernand. È tutto ciò che riesco a ricordare, a convogliare in una successione coerente; l’unica sensazione viva, come un ferro rovente incuneato a forza dentro la ferita.

E no, non rimuoverlo, ti prego: farà male. So che ne morirò, ma ti prego, lascia tutto così. Scorrerà meno sangue.

 

E poi… Tutto in fumo. Ogni impianto scompaginato da uno sbuffo d’aria nella notte; la variazione impercettibile di un istante in cui nulla, nulla rappresenta più un legame con quella realtà che pesa come piombo.

Il buio.

 

I suoi sensi riuscivano solo a frantumare le percezioni in un groviglio in cui tutto era stravolto, trasfigurato, precipitato nel caos, in un inestricabile tumulto fra realtà e immaginazione, annegato in un intrico di percezioni sconnesse che la sua sensibilità cutanea sintetizzava a fatica, che la mente si rifiutava di raccogliere. Una nenia ipnotica nella testa a far da cornice, da sottofondo illusorio della sua discesa vertiginosa nell’incoscienza.

Eppure faceva caldo tra le sue braccia, nonostante il suo respiro così freddo, un’unica nota carezzevole che ne stemperava l’impatto metallico, innaturale sul suo viso.

Attendeva, Dorian, sulla pelle i brividi di un desiderio improvviso, inconsulto. Qualcosa di conosciuto, un alienante déjà-vu che gli serpeggiava nelle carni. Tutto amplificato intorno a lui, nebuloso, distorto. Strizzò le palpebre. Tutto così… assurdo!

Vieni, avrebbe voluto ingiungergli con voce soffice. Alla creatura che lo teneva sotto il proprio imperio insindacabile. Ti desidero. Non indugiare ancora, metti fine all’agonia di un’attesa snervante.

 

Sei bellissimo, Dorian.

 

Solo un sibilo confuso nella sua mente, un debole miraggio. E il suo corpo scosso da un moto convulso, quando un formicolio intenso gli si addensò alla base del collo e risalì sottopelle con un moto circolare, ipnotico. Tanto da ritrovarsi inarcato verso la creatura che lo teneva avvinto a sé. Come la falena attratta dalla fiamma, oscillava verso di lui a chiedergli di più. Desiderio dirompente e sconosciuto, eco remota dall’intensità tremenda.

Ogni percezione giaceva capovolta davanti ai suoi occhi. E tutto sfumava, diventava vivo, divampava di mille luccichii confusi, il battito del cuore un rombo martellante che gli esplodeva nelle tempie, un intenso languore che gli mordeva il petto, sovrapponendosi ad ogni altra facoltà sensoriale.

E poi, di nuovo, il buio. L’insondabile buio.

 

* * *

 

Era stato poco più che un istante. La presa del suo compagno salda su di lui, quasi dolorosa. Lui. Il vampiro giovane. L’aveva ghermito alle spalle di sorpresa, unghie di diamante a perforargli la carne, e l’aveva scagliato lontano.

Niente male, per un novizio, avrebbe detto in un’altra occasione. Davvero niente male. Ora invece sentì la pelle del volto tendersi in uno spasimo d’ira, le labbra contratte in un soffio, come una fiera a cui è stato strappato il cibo di bocca.

Lui. La sua creatura torreggiava su di lui, le dita frementi di rabbia. L’aveva afferrato come uno straccio e strappato via, lontano da Dorian, per poi scaraventarlo contro il muro. Lontano da lui.

Digrignò i denti, un lampo di frustrazione a contrargli le viscere. Poi, lentamente, la rabbia scivolò via come gocce di pioggia, e un guizzo di razionalità riaffiorò sul suo volto livido, modellandolo in un’espressione meno ferina.

Sospirò: un secondo soltanto, e avrebbe potuto annientarlo. La sua creatura. L’aveva tradito.

Distratto, si portò una mano alle labbra, nettandole dal sangue rappreso.

 

Come stille di veleno. Veleno che torna a perseguitarmi, puntuale, appena le stelle tramontano sulla volta del cielo.

 

E per un istante riuscì persino a non curarsi di lui né di quel tremito oscuro in punta di labbra, come il battito di un cuore impazzito: c’era solo l’istante in cui lui e Dorian erano stati una sola cosa che respirava, una sola sorgente di sangue e spirito dirompente. Poi due mani l’avevano strappato via di lì, infrangendo la sua estasi.

Il suo compagno immortale gli volgeva le spalle, chino sul corpo privo di sensi di Dorian. Veloce, se lo strinse al petto come un fagotto, appena si avvide di quanto fosse vicino. I suoi occhi serpeggiarono di collera.

- Dannazione! – gli parve di sentirlo soffiare tra i denti.

Quei piccoli, adorabili canini vergini. Bianchi e incontaminati come il suo volto, come il manto di tristezza che gli aveva gettato addosso.

- Dio, è… È Dorian! – il suo sguardo scorse su di lui, in attesa; poi una specie di ringhio basso, gutturale – Che cosa gli hai fatto?

E lui, in tutta risposta, lo fissò con rabbia. Come se, di colpo, la sola vista gli desse la nausea. E il desiderio di schiaffeggiarlo.

- Avanti… – lo incalzò con un sussurro gelido, buttando le sue rimostranze nel dimenticatoio – Forza. Fammi vedere se hai imparato la lezione.

- Rispondi alla mia domanda.

- La mia era una risposta. Pensi che per te sarà… diverso? Migliore? Pensi di resistere ancora a lungo alla sete? Hai le labbra livide. Hai bisogno di sangue.

Il suo sguardo scivolò sul volto di Dorian. Il colore gli era già fuggito dalle guance. Avrebbe resistito ancora un po’. All’assalto della seconda delle belve affamate che avevano fatto di lui il loro singolare banchetto.

Ignorando le proteste del suo compagno che cercava di sottrarglielo, accostò il viso alla gola di Dorian e lo ripulì del filo di sangue che colava dalla piccola ferita. Un attimo prima di riporre lo sguardo su di lui e affrontarlo.

- Coraggio, mordilo! – gli sibilò con voce ghiaccia, dopo un lasso di tempo che gli parve eterno.

Gli premette le dita sulle labbra incontaminate.

Ridacchiò fra sé, quando avvertì le piccole zanne penetrare nel polpastrello con un impeto collerico che lo fece sussultare.

Ce l’hai ancora con me, piccolo? Non avevamo altra scelta: lo sapevi.

- Osserva – proseguì – Un piccolo… accorgimento, se così vorrai chiamarlo. Stavolta non lascerò niente al caso. Promesso. Niente errori… da principianti! Potevamo mandare tutto in fumo, capisci? Scatenare il panico. Stavolta, invece, starò attento a non lasciare tracce.

Un piacere sadico gli annacquò i sensi, quando vide i lineamenti scolpiti sulla carnagione di marmo della sua creatura contrarsi in uno spasmo inorridito. Metodico, attese che qualche goccia di sangue di vampiro dalle sue dita colasse sui piccoli fori sul collo di Dorian.

Lui aveva distolto lo sguardo, quando i margini delle minuscole ferite si riaccostarono l’un l’altro, celando ogni segno visibile. Sorrise.

- Un piccolo trucco per amici sospettosi dalla vista acuta – concluse.

- E… adesso? – il volto della sua creatura era il ritratto del terrore.

Indugiava.

- Adesso cìbati di lui, se lo desideri. Ma fallo con garbo, mon ami.

- Sei un bastardo. Vuoi esasperarmi.

- E tu cerca di muoverti! – lo redarguì, spazientito, allungando il passo lungo la strada, i suoi rimbrotti a rimestargli nella testa, ossessivi, come una cantilena inquietante.

- Tu sei pazzo! Qualcuno… Ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. Non risponde più, dannazione…! Cosa gli hai fatto?

Qualcosa gli folgorò nella mente. Tornò sui suoi passi, le labbra increspate in un mezzo sorriso accondiscendente. Non aveva mai avuto l’intenzione di abbandonarlo lì, al centro della città, giovane e inesperto, con il corpo del reato stretto fra le mani. Ma voleva misurare le sue reazioni, la sua paura, saggiarlo lentamente.

Era vicino, adesso. E Dorian, esanime tra le sue braccia, un cumulo di stracci estremamente prezioso. I capelli biondi, ributtati disordinatamente all’indietro, rilucevano sotto il pallido chiarore lunare.

- Dorian, mi senti? – seguitava quell’altro, indefesso, un fastidioso miagolio che gli pungeva le orecchie.

Povero piccolo sciocco! Sei quasi peggio di me.

- Dobbiamo… portarlo via.

- Taci una volta per tutte, incosciente! – lui stesso trasalì al sibilo metallico che gli aveva spezzato la voce – Ci mancherebbe che non fosse svenuto! Che ci vedesse in faccia.

 

Dorian…!

 

Contrasse le palpebre, un accesso di dolore inchiodato al petto.

 

Fingi che non sia accaduto nulla.

 

- Dove l’hai perso, stavolta, il tuo unico barlume di umanità? – gli insinuò il vampiro giovane, beffardo – L’ultima volta era sotto il tuo letto…

E lui si sforzò ancora una volta di rimanere calmo, un sorriso esasperato sulle labbra scarlatte.

- Parli di… umanità? La tua è avventatezza, la forma peggiore di stupidità che potessi cacciare fuori – veloce, accennò con il mento alla bassa costruzione in fondo alla strada, al crocevia – Per di là. È tutto sotto controllo, e la locanda dei viscidissimi Lambert farà al caso nostro. Ci sono le lenzuola pulite e le puttane ad allietare la compagnia: cosa pretendi di più?

Si fissarono per lunghi istanti, in attesa.

Sciocco principiante!

L’avrebbe rispedito a casa a suon di calci e l’avrebbe tenuto lì fino a che non fosse stato di nuovo in grado di mettere il cervello all’opera. Se solo la sua presenza non fosse così dannatamente utile.

Lentamente, volse la testa verso di lui con un sorriso carico d’indulgenza.

- Avvicinati… – gli sussurrò – E promettimi che non farai nulla. Nessuna iniziativa da incoscienti.

Veloce, sollevò la manica fino al gomito; strinse le palpebre, nell’attimo in cui le sue stesse unghie si conficcarono nella pelle candida del polso, e il disegno violaceo delle vene in rilievo fu infranto dalla furia dell’artiglio acuminato che penetrava a fondo. Dal sangue che sprizzò tutt’intorno, frantumando davanti ai suoi occhi quella visione eburnea.

Barcollò sotto la cappa torbida di un orgasmo. In un ultimo guizzo di lucidità, afferrò il compagno per la nuca e gli premette la faccia sulla ferita pulsante. Come un cucciolo a cui insegnare come bere il latte dal piatto.

E poi fu solo la pace, una carezza liquida che gli sfiorò il viso, catalizzando di prepotenza ogni altra percezione. Si sentì venir meno, la mano libera premuta sul volto a soffocare un grido devastante, i cuori che acceleravano all’unisono.

 

Bevi da me, piccolo disgraziato! Sei un bambino che abbisogna di essere imboccato.

 

- Può bastare – gli ingiunse, categorico, respingendolo con un gesto che non ammetteva reazioni.

Si pulì con noncuranza e gli allungò una carezza sui capelli.

Lui aveva mutato espressione, le labbra deliziose bagnate di rosso come un ragazzino ingordo che si imbratta la faccia avventandosi sul cibo con voracità – e il pensiero lo nauseò. I suoi capelli erano morbidi, le iridi vibranti di sensazioni taciute sotto le sue dita, la bocca un frutto delicato. Era bellissimo.

La malinconia che gli serrava il respiro negli attimi immediatamente successivi al forzato banchetto, incalzò su di lui come una brezza gelida, una carezza beffarda prossima a diventare bufera. La magia sarebbe svanita, e un altro pezzo di sé stesso perduto, una scommessa azzardata al tavolo dei bari.

- Voglio andare via… – era la propria voce, ed era cambiata: la sentì scorrere nella gola, leggera, smarrita.

Lui gli si stagliò davanti agli occhi, visione prepotente come un agglomerato di contrasti abbaglianti – il volto di candida biacca, le labbra cremisi voluttuose. L’indecisione crescente e la consapevolezza del cambiamento impallidivano in un’impronta severa, risoluta.

- Prima dovrai… rimediare a questo – gli rammentò, accennando con occhi fugaci alla figura arruffata di Dorian accoccolata ai suoi piedi, il respiro leggero.

E lui annuì scuotendo il capo, e il corpo di Dorian fu di nuovo tra le sue braccia.

- Resta qui. Lo porterò alla locanda.

- Non così.

Immobile al centro della via, per poco non scoppiò in lacrime. Il suo granitico autocontrollo cedeva sotto i colpi serrati di un disperato estraniamento; e stavolta era stato lui, il suo giovanissimo novizio, la sua creatura, a porre rimedio alla sua avventatezza. Soffiò, infastidito. E poi osservò il fardello che reggeva tra le braccia con disinvoltura, e provò a considerare fra sé dove stesse l’inganno, stavolta.

Dorian aveva una statura notevole, e l’ampiezza generosa delle spalle lasciava intuire un corpo asciutto e muscoloso. Avrebbe suscitato curiosità, là dentro, il fatto che lui lo sollevasse come un gatto senza tracce di fatica sul volto.

La sua creatura aveva l’occhio lungo. Sarebbe stato perfetto. Un perfetto intrigante.

Svelto, lasciò tintinnare fra le dita un pugno di monete.

- Sistemerò tutto: non devi preoccuparti.

- Come sta Dorian? – seguitò l’altro, imperterrito, con l’insistenza di un ossesso – Gli hai fatto… male?

Sospirò. Sarebbe divenuta la nuova monomania, se non avesse provveduto a fugare quanto prima quel suo dubbio ancestrale. Lo fissò con occhi beffardi. Lui e la sua bocca impiastricciata di sangue.

- Ti risulta che io ti abbia fatto del male?

Lo soppesò di capo a piedi, il sopracciglio impercettibilmente inarcato.

- Non… non ricordo – le palpebre gli si assottigliarono nell’incertezza.

Se non altro, è sincero.

Distolse lo sguardo. Restavano due opzioni: troncare là il discorso, oppure chiudergli una volta per tutte quella bocca che sapeva di sangue con qualcosa davvero in grado di destabilizzarlo. Ghignò, mentre sceglieva le pedine da scagliare sul tavolo da gioco, un sorriso insinuante ad increspargli il volto.

- Allora… Prova a immaginare l’orgasmo di un uomo. Ecco… Pensa ora di travalicare il limite fisico. Qualcosa che sia fisicamente impossibile, come… Un orgasmo di seguito all’altro, senza sosta, potenziato fino all’estremo, nel giro di pochi secondi. Fisicamente insopportabile e meravigliosamente devastante per queste membra ancora tenere e cedevoli. Ecco, qualcosa di simile – cinguettò, accennando maliziosamente a Dorian.

 

Piccolo, sensuale Dorian…!

 

Se qualcuno – l’oste, magari – gli avesse chiesto spiegazioni sul momento, gli avrebbe raccontato del suo amico dai lunghi capelli biondi, della sua sbronza colossale e dell’assoluto bisogno di una dormita.

 

La tua ubriachezza non sarebbe fuori luogo, se qualcuno dei tuoi amici apprendesse la tua destinazione per questa notte, mio caro Dorian. Noi sappiamo entrambi il perché, ed entrambi sapremo fornire – quanto meno a noi stessi – una spiegazione passabile per vera.

I soldi sono al sicuro dentro il tuo mantello. Paga la notte e vattene a casa.

Ho pensato a tutto.

 

Indugiò con lo sguardo sul suo volto privo di espressione, immobile in una specie di trance indotta, mentre si premurava di infilarlo sotto coltri candide, rimboccate fin sotto il mento.

Per un attimo assaporò il desiderio di sfiorargli la fronte con un bacio, impalpabile come un ansito leggero. La sua pelle calda palpitò sotto le sue labbra, veicolo inconsapevole per sondarlo impunemente nella notte, i suoi pensieri come sogni confusi che si sovrapponevano l’uno sull’altro, come un tenero calore capace di immergerlo totalmente nella visione, di accoglierlo in sé.

 

Perdonami… Dorian.

 

* * *

 

La sera di Auguste fu un torpore febbricitante venato di incubi sconnessi e pieni d’angoscia; il suo unico, debole frangente di lucidità gli rammentò soltanto di Raphäel Lemoine, il volto pallido serrato in un’espressione rasserenante, nell’atto di somministrargli qualcosa.

 

Tutti cominciano a temere per la mia incolumità fisica. Credono che il mio sia un suicidio distillato nella danza crudele dei giorni e dei mesi, ben occultato fra essi. Una morte annunciata e consumata con comodo, un lungo stillicidio. Gettare la spugna e smettere di mantenersi in vita.

 

Da quando non mandavi giù un pasto decente, Auguste? Da quando non trascorrevi una notte di vero riposo?

È come giacere su un letto di spine la sera e ingoiare vetro nell’arco della giornata.

No, non lasciarti morire: lo avevi promesso. Tutto, ricordi? Tutto, ma non la resa ultima. Non la fuga, il nulla da cui non si torna indietro, l’insulto estremo alla sua memoria.

Qualunque altra cosa, Auguste.

Anche se ti sembra che il tuo stesso corpo rifiuti di mantenerti in vita, e ogni respiro è una boccata di fiele.

 

Sto bene. Non mi lascerò andare: promesso.

 

E poi, il delirio. Un lungo incubo privo di immagini che non lascia tracce al risveglio: neppure il ricordo, solo il sudore sulla fronte e il respiro come un torchio impazzito.

 

Quel… quell’incosciente, maledetto Raphäel Lemoine: deve avermi drogato senza farne parola con nessuno. Accidenti a lui, dannato moccioso intrigante, e al suo stupido intruglio.

 

Strizzando le palpebre nella spessa coltre di nebbia che gli incatenava i sensi, avvertì per un istante un bagliore luminoso dinnanzi a sé, una lama di luce che comunicava con il mondo esterno. O forse con lo stesso limbo in cui era precipitato.

D’istinto, piantò le unghie sulle lenzuola sfatte, artigliandole, sopraffatto da un capogiro nel faticoso tentativo di sollevare il capo.

L’unica sensazione fu un lungo brivido, come un battito mancato. E poi un volto che, in un lampo, mise a fuoco.

Un viso che no, non era quello di Raphäel Lemoine, sedicente cerusico da quattro soldi.

Era un volto di ragazzo, incorniciato da lunghi capelli ondulati, con occhi come tizzoni ardenti piantati nella neve e un sorriso sarcastico, l’immagine distorta da una sensazione fissa, persistente.

Auguste sbatté le palpebre e si costrinse ad incatenare lo sguardo sulla sua visione estatica. La morbidezza di tratti peccaminosamente androgini. Non ricordava cosa fosse accaduto in capo a qualche ora prima. C’era lui e c’era il caos, la caligine che ottunde le percezioni.

Fernand.

È restato a vegliare in silenzio, dopo che gli ho detto di tutto. Dev’essere impazzito.

Forse ho davvero oltrepassato il limite.

 

Perché ricordo la quiete dopo la tempesta, la droga che entra sfacciatamente in circolo senza che me ne renda conto, la pelliccia serica di un gatto accoccolato accanto a me, il corpo che vibra contro la mia mano aperta.

E poi lui che irrompe dinnanzi a me, il volto congestionato che si sforza di apparire indifferente. Gli occhi scintillanti, la smania di chiudere al più presto una maledetta questione, prima di impazzire persi in fondo alla strada sbagliata.

E poi, lottando contro il tremito che fino a pochi istanti prima gli impacciava le membra, cerca di ingannare l’insopprimibile cappa d’imbarazzo allungando una carezza al mio gatto, prima di ritagliarsi un proprio angolo all’estremo opposto del letto e sedere in disparte, raccolto su se stesso. Lui e il gatto.

 

Ricordo il fremente nervosismo con cui si ravviava i capelli dietro la nuca. Sulle spine, indeciso su quale fosse il filo più inoffensivo da cui iniziare a sbrogliare il sermone della pace.

Ricordo di averlo odiato, almeno per un istante. Per un attimo avrei preferito lasciarlo marcire nella sua angoscia, nel suo dolore.

Solo perché è lui, Fernand Laroche.

E, se fossi abbastanza malvagio, forse riuscirei a detestarlo almeno un po’, per il fatto di esistere e di essere foschia inafferrabile.

Per tutto ciò che è e rappresenta. Perché esiste, respira a pochi centimetri dalla mia faccia e osa presentarsi davanti a me con il suo dannato bagaglio.

Perché non è altro che un fatale conglomerato di tutto ciò che non sono e non potrò mai essere.

È gelo negli occhi, è istinto di fiamma. È coraggio, volontà indefessa e incorrotta. È l’animo fiero che ruggisce in faccia all’ingiustizia, e non lo farebbe, no, se non per un moto sincero del cuore.

È il corollario di tutto ciò di cui difetto tragicamente. È lo slancio e la purezza. È un piccolo angelo appena nato, e la luce implacabile che lo avvolge.

 

Perdonami se ti ho fatto del male, Fernand. Se l’unica impressione che ti ho lasciato addosso, incollata alle ossa, è di averti preso e stracciato in due, per poi lasciarti lì, col cuore agonizzante.

Ma tu sei… meraviglioso, anche se dalla mia bocca non le sentirai mai, queste parole. Perché, se anche è vero che ti ho lasciato un’eredità scomoda, non devi ringraziarmi mai, ma sputarmi in faccia, perché ti sto cacciando nel profondo inferno, e credimi, è il male minore.

È il tuo odioso momento di gloria, mio Fernand.

 

Lui se ne stava lì di fronte a me, senza muoversi. Potevo intuire la linea delicata del suo volto, l’ovale pallido come una visione nella nebbia, nel brusio che offuscava ogni percezione.

 

Sei tu, Fernand? A inchiodarmi dolorosamente a terra, impotente e sconfitto, o sono i tuoi occhi, la piega vagamente diabolica delle tue labbra?

 

Lui socchiudeva le palpebre.

 

Non parlare, Fernand. Ecco, non ora. Perché sentirei e ascolterei soltanto ciò che la mente seleziona sulla base di criteri oscuri. Sentirei la conferma dei miei timori.

E la tua sola vista, le labbra che smaniano per parlare, è sufficiente a far defluire il sangue dal mio viso.

 

Il suo volto è un velo di verità intrinseca, di chi ha deciso di denudarsi senza rimpianti. È un’artistica macchia di sangue su un drappo di seta.

Si tormenta una ciocca di capelli con dita rapide, tremanti. E poi si decide a parlare.

 

Quindi sarei io, la soluzione di tutto?

Preferisci tagliare corto, Auguste, puntare dritto alla soluzione che ti sembra più facile: lasciare tutto in sospeso e convincere la tua mente che sì, che non potevi più accollarti le tue responsabilità e continuare a lottare con noi?

Cosa sono io, Auguste, in tutto questo?

Sono la scelta di comodo, il male minore, l’insulto ben dissimulato, l’occasione di ripiombarmi addosso nel momento meno opportuno, di sviscerare i miei errori e dire “sì, Fernand, avevo ragione; te l’avevo detto, Fernand, ora levati dai piedi e lascia stare”?

 

Ma tu sei la giovinezza e il coraggio che non ho, Fernand. Io… sono stanco. Non sono la persona che credevi. Perché grido e giro attorno al dramma senza approdare a nulla, nell’ipotesi buona. Moltiplicando la portata del danno, nell’ipotesi peggiore. E questo è quanto.

Non puoi dire che non sia stato un buon “capo”, da questo punto di vista: non posso dire di aver scelto male i collaboratori. Ti sembra poco?

Non puoi dire che non abbia l’onestà di tirarmi fuori dalla questione, quando la mia presenza è di troppo, un cattivo burattinaio che non riesce più a tirare le fila.

È davvero così… detestabile, piena di interpretazioni distorte, la mia decisione? Se è così, incasserò il tuo parere e andrò per la mia strada. Perché non rimpiango ciò che ho fatto.

Il resto sarà carta bianca, nei limiti della vostra incolumità.

 

Lui impallidiva sotto il chiarore smorto di una luce stentata, malaticcia. Diceva che ero un dannatissimo testardo – ancora una volta. Che ero completamente pazzo, se pensavo davvero certe cose. O che baravo in modo così spudorato da non lasciare un margine d’errore. In tal caso, avrebbe provveduto personalmente a prendermi a calci fino a convincermi a riprendere in mano quello che secondo lui sarebbe stato il mio preciso dovere.

 

Non chiedo la luna, Auguste. Chiedo di recuperare il recuperabile. Non gettare tutto sul banco delle scommesse, alla rinfusa, il Caso unico giudice dagli occhi velati.

 

Ma io voglio andare via, Fernand. Vorrei solo specchiarmi in questi occhi di prezioso cobalto e dire che la mia vita inizia e finisce qua.

 

Cos’è questa… storia, Auguste? Hai forse paura? Illuminami.

 

La paura non è cosa di cui vergognarsi, Fernand. E stavolta non ho peccato di incoerenza.

 

È una soluzione stronza, Auguste. E… sbagliata. Vuoi sbarazzarti di te stesso. Di noi. Di tutto ciò in cui credevi.

 

Non è così, Fernand.

Decidi almeno tu che cosa fare: vattene oppure resta.

 

Non ricordo cosa sia accaduto dopo, perché i contorni si confondevano sull’orlo del precipizio. Credo di aver perduto il filo.

 

Ti stai uccidendo con le tue mani.

Diceva.

 

Può darsi. Perché neppure il duca, neppure il fatto di non vivere in una città libera, può togliermi l’ultima libertà. Ma non è il mio caso.

 

Tu hai bisogno di… qualcosa che ti faccia di nuovo vedere quel maledetto spiraglio, Auguste. Hai bisogno di qualcosa da amare davvero.

 

Amare può diventare il tuo supplizio permanente, Fernand, e mi meraviglio che proprio tu non te ne sia reso conto.

Non si può amare un cumulo di polvere che ti schiaffeggia in viso durante il sonno.

Per quanto mi riguarda, non ho bisogno di nulla, e questa è già una proiezione eccessiva, se ci pensi, un ragionamento troppo alto, prematuro. Possibile non te ne sia ancora reso conto, Ferdinand? È così… elementare.

Ho solo bisogno di seguire ancora un po’ con lo sguardo il gioco di luci sulle pareti in penombra, un bagliore improvviso a rischiarare le mie impalcature. E di osservare le farfalle al di là della mia finestra. Chiedo davvero troppo?

 

Ricordo che ad un certo punto abbiamo riso entrambi. A lungo, in un modo quasi… isterico. Liberatorio.

Prima che il suo volto d’aria impalpabile e sottile non si confondesse in un delirio di lava incandescente; qualcosa di tremendamente imprevisto, come l’innocenza stessa, che si posava a sfiorarmi le labbra.

E poi, giuro, è stato solo un subisso di brividi sotto la pelle, un’allucinazione più tangibile delle altre, un lento precipitare in un mosaico di follia, dove ogni singolo tassello si confondeva sotto il mio tocco.

Le labbra che scorrevano le une sulle altre come un incastro perfetto.

Sì, questo siamo noi, Ferdinand.

 

Ed ecco: morire adesso, per la seconda volta, non è una scelta da scartare a priori.

 

* * *

 

Fernand sorrideva dall’angolo opposto della stanza. In maniche di camicia, le braccia strette contro il petto, in attesa. Il sorriso che emergeva con strafottenza.

 

Che diavolo è successo, stanotte?

 

Aveva un nonsoché di beffardo, il modo in cui si avvicinava, i capelli scomposti intorno al volto di ghiaccio sottile.

 

Che. Diavolo. È. Successo. Stanotte.

 

- Cosa ci fai qui?

Fernand si limitò a ravviarsi in un gesto civettuolo, divertito, i capelli che gli erano ricaduti sulla faccia.

- Nulla. Dormivi. Come ti senti?

Auguste si tirò su a sedere, constatando con sorpresa quanto, in capo a… qualche ora? Qualche minuto? Non avrebbe saputo stabilirlo. Quanto ogni traccia di malessere fosse scomparsa in lui. L’incubo che gradualmente si era dissolto davanti ai suoi occhi, a parte quel sibillino sentore di stanchezza accumulato sulle ossa, reduce da un sonno scomposto che non ha apportato il sollievo dovuto.

- Meglio…

Distolse lo sguardo. Era stato ingannato, la sua razionalità strappata via, presa in prestito per una manciata di ore.

Si strofinò la faccia. Perché voleva ricordare. Lo voleva disperatamente.

Fernand sollevò gli occhi al cielo come se attendesse una risposta. Scosse il capo.

- Perché… proprio io, Auguste?

 

Te l’ho spiegato. Dannato ragazzino.

 

- Fingerò di non aver sentito, Fernand… – sogghignò: voleva godersi le scintille di rabbia che presto avrebbero increspato quel volticino senza tempo.

- Non ho intenzione di ripetermi – rimarcò.

- Non stiamo giocando, Auguste.

- Lo dico per questo.

Silenzio.

Fernand si lasciò scivolare sul pavimento, il mento sulle ginocchia, in attesa che gli spigoli vivi del sospetto più cocente scemassero nell’aria.

Auguste distolse lo sguardo. La nebbia che continuava a oscillare davanti ai suoi occhi.

 

C’è un altro motivo cruciale, anche se sarebbe meglio che non lo sapessi. E no: scordatelo che venga a dirti a viso aperto che sono un vigliacco. Ciò che tu, nella tua posizione mentale, chiameresti vigliaccheria.

 

Si tirò su in piedi, si diede un’occhiata sommaria. Aveva gli abiti stazzonati, ma, per il resto, non sembrava reduce da un torpore delirante. Non sentiva più la testa pulsare.

- Avvicinati, Fernand.

Lo osservò da vicino. Aveva gli occhi arrossati dal dubbio, le sopracciglia delicate modellate in un’espressione serena. Solo le labbra tradivano un che d’infantile e di sfrontato: il modo in cui le arricciava impercettibilmente.

Per un attimo, si ritrovò a distogliere il viso dal suo. Aveva maturato l’occasione, ed erano labbra che conosceva, tiepide contro le sue.

Era soltanto questo.

Ed era dannatamente diverso, ora, come una sensazione amplificata, assaporare la sua bocca senza che la visuale fosse offuscata da filtri come la disperazione o come l’intruglio che dona l’oblio che Raphäel gli aveva somministrato a tradimento.

 

Fermami adesso, Fernand. Te ne prego. Perché è così… dannatamente sbagliato, imprevisto. Non sono ciò che tu pensi.

 

Fernand non parlava. Non accennava a respingerlo. Dischiudeva le labbra, e in lui non vi era il gelo del rifiuto né uno sguardo d’accusa. Esplodeva contro di lui, la sua stessa presenza come un’esplosione di colore; era il sangue che correva ad incendiargli le gote, il respiro che vibrava sotto il guscio sottile della gola.

Era la voluttà aggressiva, costellata di deboli sprazzi di controllo, con cui lasciava scivolare le labbra sulle sue.

Era la frenesia con cui gli prendeva le mani e se le portava intorno ai fianchi, Fernand, le spalle scosse da un fremito profondo.

Erano mille tasselli che collimavano sul suo viso, che stravolgevano il suo ritratto.

 

È atrocemente… sbagliato, Fernand. Non è giusto. Non siamo nel giusto.

Abbiamo fatto l’amore, stanotte, Fernand?

Non farebbe una gran differenza dissipare la tenebra del sospetto. Non è cambiato nulla.

 

Lui premeva il proprio corpo contro il suo e con il respiro gli sussurrava che lo voleva, che voleva essere suo, una lacrima capricciosa a tracciare un languido ricamo sul suo volto.

Auguste serrò le palpebre, assaporando il suo profumo. Perché dopo, dopo nulla sarebbe stato come prima, e non sarebbero tornati indietro.

 

Vieni, mio Fernand. Sali su quest’altare e chiudi gli occhi, e non pensare neanche per sbaglio che qualcosa non ti sia dovuto.

 

Era una tela bianca da dipingere, Fernand. Da orlare di rosso e di lacrime roventi.

Era il colletto arioso della camicia troppo grande che gli oscillava intorno ai fianchi, mentre il corpo emergeva dall’intrico dei vestiti, fine alabastro culminante in un paio di spalle squadrate.

Era quella decina di dita sottili che gli insinuava alla base della nuca, spingendolo verso di lui, sempre più giù.

Era il ricciolo scomposto che gli ondeggiava candidamente sulla spalla, mentre, in silenzio, lasciava che due labbra sconosciute disegnassero una rete di vibrante estenuazione intorno alle clavicole.

Era il calore che lo assaliva all’inguine, mentre si lasciava trascinare schiena contro il tavolo.

Era il gemito che incideva l’aria intorno a lui, il respiro come una rapida carezza, Fernand. Il profumo in cui si sarebbe cullato in eterno.

Stava lì, chino tra le gambe di Fernand voluttuosamente distese, a modellare il suo corpo in una fitta d’impaziente desiderio. A scavargli addosso le voragini di una bramosia dirompente.

Sapeva di miele, Fernand, di una smania oscura e prepotente. Auguste lo osservava, beveva la sua lenta deriva della coscienza, il suo crescente smarrirsi.

I suoi fianchi dicevano . Che lui, Fernand, voleva fare l’amore con lui, e non sarebbe tornato indietro. Era pallido e grondava d’impazienza, le labbra socchiuse in un lungo sospiro, il corpo che ondeggiava lento contro il suo, il piacere convulso tradotto in uno strofinio ipnotico.

Auguste l’aveva accarezzato a lungo, mentre lo esplorava con impellente accanimento, assaporandolo lentamente e ascoltando il vibrare sotto la pelle.

Aveva un’enfasi quasi… sofferta, Fernand, abbandonato su se stesso, furioso nell’accogliere ogni fitta di piacere che gli veniva donata. Come se il languore di una sensazione protratta a lungo fosse semplicemente… troppo. Troppo per lui. Di un’intensità dolorosa, prossima a sprofondarlo nel delirio.

Era nudo, desiderio privo di filtri. Era ghiaccio reso ardente da qualche strano gioco di luci; era bellezza e piacere incontaminato.

Auguste tremò, nell’istante in cui penetrò in lui, e Fernand lo accolse con un morbido assenso, la mente ottenebrata dal deliquio. Si contorse in uno spasimo, la schiena inarcata.

Fu un istante. Fernand gemette, un sospiro roco, spezzato, pulsante. Si tirò su facendo leva sui gomiti, i muscoli contratti. Strizzò le palpebre come sotto una raffica violenta, il corpo che si distendeva sotto il suo, quasi a volerlo accogliere dentro di sé con ogni singola cellula. Le sue membra si serrarono su di lui come un guscio, il volto acceso di una sensazione sconosciuta; e per un attimo Auguste ebbe l’impulso di piangere, di interrompere quel folle volo e deporre Fernand su un letto di piume, nudo e intatto nel marmo pregiato della sua pelle. Così come l’aveva trovato.

 

Perdonami, piccolo…

 

Solo che poi sentì i suoi fianchi cedere, avanzare lentamente, attorcigliarsi a lui e mulinare dolcemente, in attesa. Era un fascio di nervi guizzanti. Lui. Fernand.

Distratto, Auguste gli disegnò una carezza lungo il petto, e indugiò ancora una volta, a lungo, sul suo sesso, pressato nello strofinio crudele di due epidermidi di diversa gradazione.

Fernand si sarebbe lasciato morire, fuso in quell’abbraccio famelico, un oceano di lava in punta di dita, e poi sarebbe caduto in deliquio, il battito sconnesso.

Lui invece preferì celare il proprio volto nell’incavo della sua spalla, immergersi nel labirinto dei suoi capelli e baciarlo, ripagarlo del dolore che gli aveva arrecato da sempre, dal giorno in cui, per un caso fortuito, si erano trovati nella stessa stanza a dividersi la stessa manciata d’ossigeno, in un luogo e in un tempo qualunque.

Aveva voglia di piangere. Di lasciar collassare ogni frustrante malinteso nel grido di un orgasmo; orgasmo che gli avrebbe offerto a piene mani.

A lui, il suo bellissimo Fernand che cercava le sue labbra e lo teneva stretto a sé.

Al suo Fernand che si lasciava annegare in un’ampolla d’etere dolcissimo, un guizzo d’incoscienza nelle iridi d’inchiostro liquido, mentre scivolava contro la superficie del tavolo, il cuore leggero e il volto assente, scavato nella nebbia.

Auguste udì soltanto un mugolio incomprensibile; osservò la propria mano, bagnata del seme di Fernand, rilucere lievemente nella penombra, e per un istante avvertì un moto di tenerezza, un senso profondo di appartenenza.

Poi Fernand si abbatté su di lui, la cute solcata da brividi.

E chissà, chissà quali frammenti di pensiero fluttuavano in quell’istante nella sua mente scollegata da tutto il resto, velata. Frammenti che sarebbero restati così. Incontaminati, raccolti sotto la barriera delle palpebre socchiuse.

 

   
 
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