Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 5
Atto 5, scena 1
Kobi ed Hermeppo
avevano potuto capire molte cose del loro comandante nel corso del loro duro
allenamento atto a farli diventare, usando una tipica espressione di Monkey D. Garp, dei veri uomini,
ed avevano imparato di conseguenza qualsiasi cosa lo infastidisse, nei minimi
dettagli. Avevano notato, spesso a loro spese, come ogni parola, gesto o
comportamento fuori luogo provocasse una reazione specifica in Garp, che aumentava di intensità e gravità, procedendo per
livelli.
Una parola
azzardata, per esempio, corrispondeva ad un sorriso ed ad una lieve punizione
corporale, che variava a seconda del soggetto. Hermeppo
ne sapeva qualcosa, Kobi un po’ meno.
Un gesto
sbagliato e lievemente offensivo nei confronti dei superiori o dei compagni
portava ad una punizione più pesante ed ad almeno una settimana o più di
digiuno, ma solo dopo aver assistito ad almeno un centinaio di vene gonfiarsi
sul pugno del vice ammiraglio. Hermeppo ne sapeva decisamente qualcosa, Kobi sicuramente
meno.
Un comportamento
decisamente poco rispettoso e menefreghista poteva portarti alla quasi morte,
dopo aver visto gli occhi del comandante oscurarsi di un’ira paragonabile solo
ad un uragano di proporzioni mastodontiche e le sue spalle tremare come scosse
da un forte terremoto. E qui Hermeppo avrebbe potuto
scriverci un libro sulle sue esperienze, Kobi,
fortunatamente, nemmeno una riga.
Tuttavia, quello
a cui le due promettenti reclute stavano assistendo, accostati come di consueto
al fianco del vice ammiraglio, usciva completamente dagli schemi da loro
creati.
Non c’era modo di
descrivere quello che stavano vedendo , anzi, forse c’era: un VULCANO prossimo
all’eruzione.
Come fosse
possibile che Shanks il Rosso avesse potuto ridurre
in quello stato il loro comandante dopo un semplice ed innocuo scambio di
battute era a dir poco incredibile, ma di certo sia Kobi
che Hermeppo avrebbero preferito che non accadesse.
“Tu…” sputò quasi tra i denti, che digrignavano rumorosamente,
Garp, puntando uno sguardo pieno di odio verso la
faccia sorridente del Rosso, ancora in piedi sul fianco della propria nave,
affrontando il vecchio da una distanza che, essendo scandita della presenza del
mare tra loro, poteva essere definita “di sicurezza.”
“TU…!!!” rincarò la dose il vice ammiraglio ricominciando a
tremare pericolosamente stringendo spasmodicamente i pugni, ormai gonfi e
pulsanti.
Dalla sua nave Shanks allargò il proprio sorriso, constatando quanto il
vecchio non fosse cambiato: sembrava ricordarsi bene di lui, anche se questo
pensiero non avrebbe dovuto rallegrarlo più di tanto.
“Lieto di vederti
ancora in forma, Garp.” Disse per nulla turbato dal
comportamento dell’alto.
Un ruggito simile
a quello di un leone proruppe dalla gola del marine, facendo finire Hermeppo direttamente tra le braccia di Kobi,
paralizzato anche lui per il terrore.
“FERMA LA TUA BAGNAROLA DANNATO MARMOCCHIO!!!”
Tutti sulla Red Force si portarono un dito alle orecchie, stappandosele,
sospirando. A volte si chiedevano se Shanks
nascondesse un lato masochista, specie Ben. Sapeva quanto il vecchio Garp fosse suscettibile e la scelta di non fermare la nave
e procedere comunque a vele spiegate, senza però calcare troppo sulla velocità
in modo tale da permettergli di scambiare qualche parola con il vice
ammiraglio, poteva essere definita in un solo modo: completamente folle.
Il Rosso
ridacchiò sotto i baffi, cercando in tutti i modi di trattenersi, anche se la
cosa gli pareva piuttosto difficile, assistendo in prima fila alle espressioni
esilaranti i Garp, imbufalito in quel momento più che
mai.
“Mi piacerebbe
fermarmi a fare quattro chiacchiere, Garp, ma vedi …”
disse con tono innocente grattandosi il retro della propria chioma purpurea,
simulando un imbarazzo che Yasopp avrebbe potuto
scommetterci anche la vita, era fasullo come un pezzo d’alluminio dipinto di
giallo spacciato per oro.
“Io e i ragazzi
andiamo di fretta, sai, stiamo andando a fare una visitina al Vecchio Newgate.” Spiegò, aprendo poi gli occhi e sorridendo
irriverente, indicando poi con fare furbesco la propria nave con un pollice
della sua unica mano “Se vuoi puoi unirti a noi per il resto del viaggio.”
“GGGGGGGGHHHHHHNNNNFFFFF!!!!!”
Fu la risposta imbestialita e sbuffata fuori dal naso del marine.
Quel marmocchio
se la stava cercando: non solo si stava spudoratamente prendendo gioco di lui
davanti a tutti i suoi subordinati, ma lo aveva anche invitato tra le righe a
far parte della sua ciurma! LUI! Un MARINE!!
“MOCCIOSO
SFRONTATO!!!! FERMA QUEL DANNATISSIMO PEZZO DI LEGNO
E VEDRAI COME TI INSEGNERÒ COS’È LA DISCIPLINA!!!!”
A quelle parole
tutta quanta l’adulta compostezza di Shanks si
dissolse come una bolla di sapone e, come d’abitudine, la sua lingua fece
capolino mostrandosi in una rumorosa smorfia infantile in direzione del più
anziano.
“Bleeeh! La disciplina e io non siamo mai andati d’accordo,
nonnino. Ti conviene arrenderti.”
Per poco Ben non
si piegò in due dalle risate come già stavano facendo Lucky
e Yasopp sotto l’ombrellone, al riparo dal forte
caldo al quale solo il loro capitano pareva resistere, mentre accanto a loro,
ad occhi stralunati, Roid Brinata guardava
completamente incredulo il modo di fare infantile del suo nuovo capitano.
“Ma… ma come…?” balbettò allibito senza
però riuscire a dare voce alle proprie parole, attirando su di sé non poche occhiataccie da parte degli altri pirati dell’equipaggio,
che avrebbero preferito non dover percepire la sua presenza.
“Ehm… ” mugugnò imbarazzato ed incerto sulla propria sorte
l’ex-schiavista, decidendo di non esporsi troppo per tenere cara la pelle.
“La prego, signore si calmi!” implorò Kobi al fianco del più anziano, non volendo neppure
immaginare come il signor Garp avrebbe scaricato la
rabbia non potendo mettere le mani sul diretto responsabile.
Hermeppo invece, vuoi per il caldo, vuoi per la
fifa, si era premurato di dileguarsi zitto zitto il
più lontano possibile dal vice ammiraglio.
Un ghigno intanto
si era formato sotto i baffi grigi del marine, provocando nei suoi sottoposti
un brivido lungo la schiena: conoscevano quell’espressione. Significava una
cosa sola.
“Ehi, Shanks. Non credi di aver esagerato?” si fece avanti il
vice capitano della Red Force, sotto lo sguardo
attento di Roid, che non si perdeva silenziosamente
nemmeno una battuta di quella strana conversazione.
“Naaah. Va tutto secondo i miei piani, tranquillo.” Fece
l’imperatore senza mai smettere di sorridere.
Ben inarcò un
sopracciglio, dubbioso delle sue parole.
“Tu, un piano?”
Neanche quando
una palla di cannone si diresse fischiando direttamente verso di lui, Shanks smise di ridacchiare, scaricando prontamente una
fitta quantità di haki sufficiente a far esplodere in
aria il meteorite di metallo lanciato proprio dalle possenti mani di Garp.
“Visto? Niente di
cui preoccuparsi.” Rincarò la dose il bel rosso visibilmente a cuor leggero.
“Vedo.” Rispose
con non molto entusiasmo Ben, togliendosi dalla bocca la sigaretta non ancora
accesa “E in che cosa consisterebbe questo tuo brillante piano?”
A rispondergli
bastò un ghigno furbesco da parte del suo capitano, voltatosi verso di lui
proprio mentre il suo haki faceva esplodere un altro
paio di bombe scagliate da poco.
“Andiamo da Newgate, mi sembra ovvio.” Disse Shanks,
assottigliando poi gli occhi in un sorriso “E il nonnetto
ci viene dietro.”
Poco dopo, Ben
diede l’ordine a mezzo equipaggio di mettersi ai remi, pregando tutte le
divinità marine a lui conosciute che Shanks non
finisse per esagerare come suo solito.
Atto 5, scena 2, Moby Dick
Una luce di pura
determinazione passò sugli occhiali scuri di Betty, per un breve istante prima
che, con gesto elegante e teatrale, allungasse una mano in avanti in segno di
comando, elargendo un unico e semplice ordine che mandò nel panico Momo,
nonostante non capisse il preciso significato di quelle parole.
“Prendetela!!”
esclamò la donna.
Momo sbarrò gli
occhi, nel vedersi in pochi secondi circondare da almeno una dozzina di
infermiere che scattarono immediatamente su di lei, allungando le proprie mani
smaltate (che a lei parvero più simile a zampe artigliate) nel tentativo di
afferrarla.
La ragazza riuscì
a sgusciare miracolosamente via dalle grinfie di tutte quelle donne,
indubbiamente agili come delle leonesse, facendosi disperatamente strada sotto
i tavoli della mensa, ormai quasi completamente vuoti.
I pochi presenti,
tra cui proprio il capitano e i suoi cinque fidati comandanti, guardarono con
malcelato divertimento quella specie di corsa ad ostacoli nella quale Momo si
era buttata di sua spontanea volontà.
Ace si piegò
all’indietro sullo schienale, mettendosi una mano sugli occhi per via del
troppo ridere, tenendosi nel frattempo la pancia, ormai dolorante, mentre al
suo fianco Satch, Marco, Jaws
e Vista si appoggiavano con ben poca dignità sul ripiano del tavolo, soffocando
come meglio potevano il divertimento ormai palese sui loro volti.
“Oddio! Non ce la
faccio- ahah- no davvero, ditemi che non è vero!”
biascicò senza ritegno il comandante della seconda flotta, passandosi una mano
sulla fronte, lasciata scoperta dal cappello penzolante dietro la propria
schiena.
Accanto a lui Satch tentò di rispondergli, ma dovette rinunciare non
appena, con la coda dell’occhio intravide lo scricciolo sfuggire nuovamente
alla presa di Carol, decisa più che mai come le altre a farle indossare quella
divisa da infermiera che, con passaggi ben studiati, finiva nelle mani di chi
si trovava più vicina alla naufraga, dando vita ad una specie di gioco della
palla avvelenata dalla quale però Momo pareva non aver alcuna intenzione di
partecipare, visto come scappava non appena si ritrovava di nuovo quel vestito
rosa scollato e fatto su misura per lei.
I pirati di Barbabianca sapevano bene quanto Mindy,
la più brava nei rammendi e negli aggiusti da sarta tra le infermiere, avesse
speso su quella divisa, oggetto che riponeva tutte le loro speranze di vedere
la piccola dispersa far parte del loro reparto.
“Eeek!!”
Peccato che Momo
non pareva essere della stessa opinione, a giudicare da come frenava ogni volta
alla vista di quell’indumento.
Accanto a loro
Edward Newgate faceva di tutto per non cacciare una
delle sue colossali risate, ma sembrava ormai al limite della sopportazione.
Le loro
sofferenze furono fortunatamente interrotte tuttavia da quella che pareva essere,
finalmente, una conclusione a quella corsa sfrenata che aveva fatto da
spettacolo a buona parte di loro: la naufraga si era improvvisamente
accerchiata da tutti i lati, senza
possibilità di scampo e, per quanto facesse scattare febbrilmente gli occhi
sotto tutti i tavoli a lei prossimi, finiva sempre per notare un paio di
stivaletti leopardati ben piantati a terra.
Dall’angolo
dell’occhio sinistro della ragazza fece capolino una lacrimuccia.
“Insomma!” scoppiò inaspettatamente, scuotendo le braccia
con fare impaziente, parlando nella sua incomprensibile lingua, lasciando di
stucco le infermiere “Non la voglio
mettere quella roba! Capito?! No! No e ancora no!!”
“Povero
scricciolo.” Su si sentì in dovere di dire Satch,
ghignando con il suo tipico modo di fare scherzoso ed ottimista, attirando su
di sé un’occhiataccia molto eloquente da parte di Ace. Sembrava che di recente
il moro non gradisse quel nomignolo. Eppure non era da poco che aveva
cominciato ad usarlo.
Azzardò ad un
sorriso nei confronti del fratellino, ricevendo però in risposta solo un
ringhio sommesso.
Il comandante in
quarta sospirò a quella reazione, alzando le mani e lo sguardo verso l’alto per
sott’intendere con non aveva detto nulla di male, continuando tuttavia a
sorridere imperterrito, mentre con la coda dell’occhio vide Vista alzarsi per
soccorrere la ragazza, da bravo gentiluomo.
Il comandante dai
lunghi baffi non fece però in tempo a compiere due passi, che già Momo sbalordì
sia loro che il resto della ciurma, aggirando con un paio di mosse l’attacco
simultaneo di due donne più grandi per poi salire il più in fretta possibile su
un tavolo e scavalcarlo, uscendo così dall’accerchiamento nel quale era caduta
pochi istanti prima.
All’inaspettato
risvolto della situazione alcuni fischi di incoraggiamento si levarono dai
tavoli, diretti alla ragazza che stava dando il meglio di sé nonostante i
larghi e scomodi vestiti di Marco le impacciassero in modo considerevole i
movimenti.
“Vai Momo!
Seminale!! Coraggio!!” scattò in avanti Ace con un braccio, esaltato manco
stesse assistendo ad una corsa di cavalli. Accanto a lui Marco lo guardò
sorridendo, tornando successivamente ad osservare la corsa sfrenata della
naufraga.
Erano passati
pochi minuti da quando avevano accompagnato Momo nella deserta sala mensa,
essendo ormai l’ora di pranzo passata da un pezzo, eppure, nonostante la
situazione pareva essersi alleggerita di parecchio, non riusciva a non pensare
a quella stranissima luce che aveva visto pulsare sotto la pelle della ragazza.
Poi il suo nome
urlato come una nota musicale neanche ventiquattr’ore
prima, l’apparizione di un Re dei mari fuori dal proprio territorio … Tutti
quegli episodi fuori dall’ordinario, anche per una ciurma come la loro,
sembravano collegarsi ad una sola persona: Momo.
Il biondo poggiò
il mento sulla mano, strofinandoselo appena con il palmo, avvertendo appena lo
strato di ruvida barbetta che lo ricopriva. Ai suoi occhi, quella ragazza, che
correva a perdifiato evitando ad ogni passo di incappare in un assalto delle
infermiere, non sembrava nulla di speciale. Il suo aspetto era assolutamente
normale, tuttavia…
I suoi occhi
azzurri si assottigliarono impercettibilmente.
C’era qualcosa
che lo lasciava perplesso.
Era stato un bene
che lui ed Ace si fossero premurati poco prima di informare il babbo di quello
che le avevano visto fare davanti all’infermeria. Si poteva dire che quella
notizia aveva risollevato il buonumore dell’imperatore, facendogli pregustare
non solo una nuova avventura, ma anche un nuovo componente da aggiungere alla
famiglia.
Già, perché che
Edward Newgate finisse sempre per adottare qualunque
individuo gli ispirasse simpatia e forza di volontà non era affatto un mistero
e quella ragazzina, per quanto indifesa e debole all’apparenza non faceva eccezione.
“Ehi, Marco. Tu
che fai? Non tifi per la tua pupilla?”
La voce di Ace lo
riscosse, facendolo sbuffare da una parte. Era mai possibile che non riuscisse
a fare il serio per più di dieci minuti?
“Aaah.” Aggiunse subito dopo il moro, sorridendo malizioso,
facendo scintillare i proprio occhi neri con malizia “Ho capito!”
Un braccio
muscoloso dell’altro gli circondò le spalle, scrollandolo con non molta
delicatezza.
“Tu speri nella
vittoria delle infermiere! Eh, sporcaccione?”
La Fenice avrebbe
ben volentieri sferrato una gomitata nello stomaco del fratellino in risposta,
ma si ritrovò a prestare nuovamente attenzione al centro della stanza, dove
Momo si stava dirigendo a grande velocità in direzione del babbo, sempre
seguita dalla mandria inferocita di infermiere.
Atto 5, scena 3, Arioso dello scricciolo contro i gatti
Mi gettai a
capofitto tra i piedi del capitano, aggrappandomi con disperazione ai suoi
pantaloni, respirando pesantemente per la lunga corsa.
Poco importava
che fino a poche ora prima non mi sarei neppure lontanamente sognata di fare
una cosa del genere. Cavoli, c’era la mia dignità in ballo! Di certo sapevo
poco su di me, ma di una cosa era certa:
non mi sarei mai messa negli stessi succinti panni delle infermiere!
Mai e poi mai!
Cercai di riprendere
fiato, notando con mia immensa gioia che le infermiere si erano fermate,
stupite del mio gesto, mentre le mie mani afferravano con più convinzione
l’enorme caviglia del capitano.
Quella che mi
aveva spinto a cercare rifugio proprio dall’ultima persona che mi sarei mai
immaginata era stata un’idea dettata dalla disperazione, ma infinitamente
sensata in fin dei conti.
Del resto quel gigantone non mi aveva mai fatto nulla di male e, essendo
fino a prova contraria la persona con più autorità sulla nave, avrebbe potuto
in qualche modo sbrogliarmi da quella situazione di stallo.
Alzai gli occhi,
assumendo la faccia più disperata e supplichevole che riuscii a racimolare dal
più profondo del cuore, incontrando così gli occhi stupiti ed ancora un poco sbigottiti
dell’enorme uomo dagli strani baffi.
“Signor capitano…!” esclamai
interrompendomi a causa del fiatone che sembrava non volersi decidere ad
abbandonarmi “La prego,… mi aiuti!... Non ce la faccio più … a correre!”
conclusi, poggiando poi sfinita la fronte sul tessuto ruvido dei suoi
pantaloni, sperando in cuor mio che fosse riuscito a comprendere almeno a
grandi linee il senso delle mie parole.
Non avevo neppure
la forza di spaventarmi, nemmeno quando sentii la risata cavernosa del gigante
perforarmi da parte a parte come una lancia. Sentii altre voci, più vicine,
raggiungere le mie orecchie confuse, ma chiaramente divertite.
A quanto pareva
il mio comportamento era stato di loro gradimento, anche se io avrei volentieri
fatto a meno di assumere il ruolo di pagliaccio della nave.
Vidi con la coda
dell’occhio Penelope avvicinarsi quatta quatta
sorridendo angelica come suo solito e io di tutta risposta mi aggrappai ancor
di più alla caviglia del capitano, aderendo completamente con il corpo ai suoi
pantaloni e sorreggendomi sia con le braccia che con le gambe, gonfiando le
guance per farle capire che ero arrabbiata con lei. Non mi aspettavo che anche
lei si mettesse a rincorrermi per farmi mettere quel vestito osceno.
Un gocciolone
apparve sulla testa bionda dell’infermiera, seguita da un’espressione ferita.
Oh no, cavolo, no, la faccia da innocente pentita non riuscivo a reggerla!
Serrai gli occhi per non incontrare il volto supplicante di perdono di Penelope
ed evitare così il senso di colpa che minacciava di assalirmi lo stomaco da un
momento all’altro.
Poi sentii
qualcosa afferrarmi per la vita, tirandomi via dalla caviglia del capitano in
un attimo. Sbarrai gli occhi, voltandomi sorpresa, incontrando un viso
sorridente costellato di lentiggini e incorniciato da un chioma di capelli
ondulati e neri come gli occhi.
“Saa, Momo-chan. Watashi-tachi wa fune ni notte iku?” il sorriso di Ace mi lasciò alquanto
perplessa. Non sapevo che cosa mi avesse chiesto e per un attimo mi venne il
dubbio che mi stesse portando tra le braccia del nemico rosa, ma, quando mi
accorsi che mi stava trasportando in braccio verso l’uscita della mensa, mi
dovetti ricredere.
Mi voltai in
direzione di Marco, incontrando il suo sguardo, desiderando quasi di chiedergli
che cosa stesse succedendo.
Ma prima che
potessi anche solo cambiare idea sulle mie intenzioni uscimmo completamente
dalla mensa ed Ace mi posò nuovamente a terra, cominciando a camminare
incitandomi con una mano delicatamente poggiata sul mio braccio a seguirlo.
Dove stavamo
andando?
Atto 5, scena 4
Satch scoccò un’occhiatina divertita verso
Marco, improvvisamente rabbuiatosi in volto non appena Momo era scomparsa dalla
porta accompagnata da Ace. Il suo sorriso si allargò ancora di più, capendo
quello che si nascondeva dietro quell’espressione appena turbata da un’ombra di
delusione: il suo fratellino aveva una cotta.
Non era difficile capirlo: era da quando lo
scricciolo aveva spiccicato il suo primo ringraziamento nei suoi confronti che
Marco aveva cominciato a guardarla in maniera diversa. Se all’inizio il
comportamento della Fenice verso la naufraga era stato guidato da una
gentilezza di circostanza, in quel momento era più che mai evidente quanto
stesse velocemente diventando una gelosia di , per così dire, primo stadio,
talmente leggera da passare inosservata anche dallo stesso biondo .
Il comandante in
quarta sospirò: era certo che Marco non si fosse ancora accorto di tutto quello
che invece lui era riuscito a cogliere nei suoi gesti più recenti, e anche se
avesse tentato di farglielo notare non avrebbe ottenuto granché. Marco era
certamente il più ragionevole tra i suoi fratelli, ma sapeva anche essere più
cocciuto di un mulo, quando ci si metteva.
Tanto valeva punzecchiarlo e lasciare che gli
eventi si sviluppassero da soli, tuttavia… Nella
mente di Satch tornò alla mente l’occhiataccia che
Ace gli aveva rivolto quando aveva chiamato Momo “scricciolo” e il solo ricordo
fece sfumare un po’ il sorriso che si era stampato in faccia poco prima.
“Cavoli.”
Sussurrò, accorgendosi che la situazione era più complicata del previsto.
“Uhm? Hai detto
qualcosa Satch?” gli chiese Vista, sedutosi
nuovamente alla sua sinistra dopo essere ritornato dal suo tentativo a vuoto di
salvare la piccola Momo.
Lui non reagì
subito, osservando prima il vuoto davanti a sé, poi, scoccando un’occhiata
fugace a Marco, ancora perso nelle proprie pene d’amore, ritornò a sorridere
come nulla fosse successo.
“Niente, niente.
Stavo solo pensando che presto avremo qualcosa di cui parlare, fratellini.”
Concluse, lasciando di stucco sia Jaws che Vista.
Atto 5, scena 5
“Allora…” mormorò Ace, grattandosi la testa da sotto il
cappello con fare pensieroso, mentre con una mano accompagnava Momo sul ponte
della nave “… da dove cominciamo?” disse infine lanciando un’occhiatina alla
ragazza che, ancora confusa da quella situazione, lo guardava ad occhioni spalancati, cercando di capire cosa mai avesse
intenzione di fare.
Alla vista di
quel faccino, il volto di Ace si aprì istintivamente in un ghigno birichino che
fece preoccupare un poco Momo, indecisa se darsela a gambe o meno.
Non le andava
proprio di venire strapazzata un’altra volta da quel moro e l’idea di andarsi a
rifugiare nuovamente accanto all’imponente figura del capitano era sempre più
allettante man mano che il volto di Ace si…
avvicinava al suo?!
Il naso di Ace
arrivò a stuzzicare con la propria punta quello di Momo, rossa in viso come un
pomodoro e rigida come un pezzo di legno, fermandosi lì per un attimo per poi
ritrarsi di scatto, lasciando che il moro potesse godersi la vista della
ragazza completamente persa nel più completo imbarazzo.
Ace guardò Momo
balbettare qualcosa a mezza voce con labbra tremanti, ridacchiando poi a quella
scena mentre si abbassava appena il cappello sul viso. Sembrava una fragolina
tanto era arrossita.
Il comandante in
seconda serrò le labbra, cercando di non scoppiare in una risatina che sarebbe
potuta apparire offensiva all’altra, anche se la tentazione era molto forte.
Ma, d’altra parte non era per prendere in giro Momo che si era offerto di farle
compagnia per il resto della giornata: dovevano ancora fare il giro turistico a
cui Betty lo aveva costretto, anche se in quel momento non ne era affatto
dispiaciuto.
Avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per rimediare alle
sue ultime gaffe con la piccola, specie quella derivata dal loro primo faccia a
faccia, date le proporzioni della nave. D’altra parte però la scelta da dove
cominciare il giro era ardua: avrebbe rischiato di farla annoiare se avesse
cominciato a mostrarle le cose più interessanti e poi i ponti che stavano più
in basso.
Ci ragionò un po’
su: la stiva era completamente fuori discussione, troppo in basso e troppo
fredda (per non parlare di troppo vicina all’acqua); gli alloggi dei più bassi
di grado nemmeno, quegli allupati erano messi peggio di lui in fatto di
astinenza ed era già tanto che riuscissero ad annusare anche solo da lontano le
infermiere del babbo; la mensa già la conosceva; l’infermeria pure, mmmh, magari…
D’improvviso
un’idea gli balenò in testa, facendolo di nuovo sorridere sornione.
Trovato.
“Ok, Momo.
Andiamo.” Disse dirigendosi verso un punto preciso della grande imbarcazione,
spingendo in avanti il più delicatamente possibile la ragazza che ancora lo
guardava dubbiosa.
Atto 5, scena 6
Negli immensi ed
intricati corridoi della Moby Dick, studiati e costruiti appositamente per
consentire il passaggio della mastodontica presenza del capitano Edward Newgate, Marshall D. Teach
marciava a passo spedito, ridacchiando a mascelle serrate, facendo mostra della
sua putrida ed irregolare dentatura con più convinzione del solito, facendo
rabbrividire non di poco i più giovani membri dell’equipaggio che notarono
quell’inquietante ed appena percettibile cambiamento.
Tutti sulla nave
rispettavano Teach, non solo per l’età e per la
distinta abilità con la quale si muoveva in battaglia, simile a quello di un
serpente che evita gli ostacoli più piccoli per poi puntare dritto sulla preda
nel modo più sicuro possibile, ma anche per il modo in cui era in grado di
cambiare radicalmente umore da un secondo all’altro. Molte volte, all’insaputa
del babbo, Teach Barbanera non aveva esitato a dar
sfoggio della parte peggiore di sé ai membri più inesperti dell’equipaggio,
finendo per mandare tra le braccia di Betty e Penelope gran parte dei suoi
fratelli con un braccio spezzato a causa di una parolina di troppo.
L’uomo in fondo
non si preoccupava di questi piccoli incidenti che il suo carattere a volte
provocava. Non era poi tanto strano che qualcuno della ciurma si recasse
piagnucolante dalle infermiere e poi nessuno di loro si era mai lamentato dopo
essere usciti da quella piccola fetta di paradiso che prendeva il nome di
“Reparto Ricovero”.
Si poteva anche
dire che la sua era una buona azione, no?
In ogni caso,
quello che faceva sorridere in modo così sguaiato Teach
non aveva nulla a che vedere con uno dei suoi temibili sbalzi di umore, né
tantomeno con l’equipe infermieristica del babbo, bensì con qualcosa di più
succulento ed allettante.
La porta della
sua piccola cabina gli si richiuse alle spalle con un cigolio appena
pronunciato, mentre con ben poca eleganza si lasciava cadere sulla branda,
afferrando al volo un piccolo volumetto seminascosto tra i pochi e grossi libri
che occupavano disordinatamente lo scaffale a muro mal sistemato sulla parete
in legno.
Era un taccuino
rosso e pieno di fogli volanti che sporgevano fuori, minacciando di svolazzare
allegramente per la stanza da un momento all’altro.
La mano tozza e
scura del pirata spalancò con gesto secco il povero libricino proprio dove la
sua mente aveva puntato con il pensiero ed i suoi occhi stralunati
lampeggiarono di una strana luce mentre scorrevano su quelle parole confuse e
veloci scritte di propria mano tempo addietro.
Una risata
scivolò sommessa tra i denti, riempiendo la stanza con quel suono minaccioso
che prometteva tutto fuorché qualcosa di buono.
Finalmente ne
aveva trovata una. Non avrebbe mai creduto di incappare in una di quelle
creature in modo così semplice e dire che l’isola dove risiedevano era
sconosciuta persino alla Marina. Osservò con fare maniacale ancora un paio di
volte gli appunti che era riuscito a su rischio e pericolo a raccogliere su
quelle straordinarie creature che aveva cercato più e più volte nel corso della
sua vita, ma solo per rinunciarvi dopo aver puntato sul frutto del diavolo da
lui cercato.
Il suo ghigno si
allargò se possibile ancor più di prima.
No. A questo
punto non avrebbe avuto senso cercare un frutto del diavolo. Non con quella
piccola fortuna capitata a bordo. Quasi gli scappò da ridere ancora più forte
al pensiero che nessuno a parte lui era a conoscenza delle vere capacità di
quella ragazzina dall’aria sperduta coccolata dalle infermiere.
Nemmeno quello
stupido di Newgate era riuscito a capire la sua vera
natura, nemmeno dopo gli ultimi avvenimenti. Ma lui sì.
Gli indizi
fin’ora raccolti erano inequivocabili e non lasciavano alcun dubbio.
Ora non gli
serviva altro che acchiapparla e procedere con il suo piano. Rilesse ancora una
volta le ultime tre righe dei suoi appunti.
“ … Notturne. Vivono di notte al centro dell’isola. Piante come difesa
(??). Di giorno se sveglie non escono mai allo scoperto a causa della forte
luce del sole e dei predatori.
Linguaggio sconosciuto. Basato su suoni polifonici melodici. Amano la
musica. La notte dà loro sollievo fisico e mentale. Sono attirate dalle stelle.
…”
Alcune parti di
quelle informazioni non gli erano mai state chiare, ma una cosa la capiva:
doveva agire di notte.
Ridacchiò ancora
una volta, leccandosi oscenamente le labbra
al pensiero dell’immenso potere che si sarebbe presto procurato. Nessuno
lo avrebbe sconfitto, né deriso. Nessuno.
Nemmeno Barbabianca.
Sarebbe stato
temuto dal mondo intero.
Atto 5, scena 7, Arioso al tramonto
Ero sollevata che
Ace mi stesse solamente facendo vedere la nave, ma questo non toglieva il fatto
che ero arrabbiata. Le mie guance erano gonfie già da un po’ a causa della
stizza che il ricordo del suo comportamento di poco prima mi provocava.
Pazzesco. Aveva
strofinato il suo naso con il mio! E io come una scema ero rimasta immobile
come un pesce lesso! Mi veniva quasi da piangere. Possibile che quel ragazzo
non facesse altro che farmi accumulare figuracce su figuracce?
Però, pensai
sentendomi la punta del naso prudere dolcemente e io me la strofinai,
sentendolo leggermente caldo. E di nuovo mi sentii intorpidita. Che cosa mi
succedeva?
Mi riscossi solo
dopo che il mio viso scontrò la schiena tatuata di Ace, fermatosi
all’improvviso davanti a me, facendomi lanciare un grugnito di disappunto.
“Perché ti sei
fermato?” dissi inutilmente, vedendolo solo voltarsi sorridendo come suo
solito.
No, no. Niente
sorrisetti.
Per favore. L’ultimo sorrisino che mi aveva
fatto era stato succeduto da uno scherzo di pessimo gusto in lavanderia. Al
solo ripensarci mi veniva la pelle d’oca. Ma che senso aveva sventolarmi sotto
il naso i calzoni sporchi di almeno mezzo equipaggio?!
Soltanto il ricordo di tutto quel fetore mi
faceva venire la nausea.
Purtroppo però la
sua espressione ebete non sparì, anzi, si accentuò mentre io indietreggiavo
intimorita.
“Ima, sugu hairaito wa
shite imasu!” Lo seniti dire
per poi scattare in un istante su di me circondandomi con un braccio la vita.
Arrossii violentemente mentre mi sentii tirare contro il suo petto. “Koko ni kite.”
“M-ma… che fai?” balbettai cercando di ribellarmi alla sua
presa, ma fu tutto inutile e poco dopo mi ritrovai appesa al suo braccio,
mentre lui si arrampicava sulle sartie della nave.
Mi veniva da
piangere doppiamente. Pregai che Marco o Penelope venissero a salvarmi,
altrimenti sarei morta d’infarto con quello scemo che faceva finta di farmi
cadere ad ogni metro, ridendo di gusto alle mie esclamazioni terrorizzate.
“Giuro che se mai
imparerò la tua lingua ti farò rimpiangere questi momenti!” borbottai
sentendomi stranamente incline alla vendetta.
Già, imparare la
lingua. Di colpo mi rabbuiai, imbronciandomi. Come avrei fatto ad imparare la
lingua se non parlavo con Marco? Non potevo certo cambiare insegnante, si
sarebbe offeso, ma il pensiero di lasciar uscire ancora una volta quegli strani
suoni dalla gola mi mettevano una strana ansia addosso. Avevo il presentimento
che non sarebbe stata una buona cosa lasciarmi sfuggire un altro i quei versi,
almeno non ancora.
Mi mordicchiai il
labbro inferiore, presa da una strana, stranissima urgenza che mi puntellava il
petto: volevo parlare con Marco, lo volevo davvero.
“Saa tsui ta zo.”
Sentii Ace
appoggiarmi delicatamente su qualcosa di solido. Finalmente, pensai, non ce la
facevo più a penzolare con braccia e gambe sospese nel vuoto.
Sospirai
sollevata come non mai per poi scoccare un’occhiataccia significativa ad Ace
che, intuito quello che gli avrei tanto voluto dire, sorrise nervosamente
strofinandosi il retro del collo, mentre biascicava qualcosa che sperai, per il
suo bene, fossero delle parole di scusa.
“De, akachan kite! Watashi wa
koko o motarashi ta riyū ima watashi wa anata
o shōkai shimasu.Saa.”
Mi posò una mano
sulla spalla spingendomi da una parte e fu in quel momento che mi accorsi di
dove ci trovavamo: eravamo sulla vedetta più alta della nave. Non appena il mio
cervello riuscì a realizzare la situazione, mi voltai verso di lui a bocca
spalancata, cominciando seriamente a temere il peggio.
Che voleva fare?
Prendermi in braccio e buttarsi insieme a me nel vuoto, giusto per farmi tirare
definitivamente le cuoia. Sapevo che non ci saremmo fatti male, visto che,
durante la fuga dall’enorme serpentone nero dell’altro giorno, Ace mi aveva
dimostrato di avere un’agilità fuori dal comune.
Ma questo non
toglieva il fatto che avevo una paura tremenda!
Mi misi subito
sulla difensiva, guardandolo sospettosa, mentre con le mani mi assicuravo
all’albero maestro dietro di me, ma lui non fece altro che ridacchiare e, dopo
essersi seduto tranquillamente accanto a me, mi indicò con una mano un punto
imprecisato all’orizzonte.
Ancora un po’
indecisa se fidarmi o meno, lo studiai ancora per qualche istante per poi
finalmente seguire la direzione indicatami.
Rimasi di sasso e
di getto dalla mia bocca socchiusa proruppe un ‘esclamazione di puro stupore
che fece sorridere ancora di più Ace.
Davanti a me il
cielo era completamente ricoperto di rosso. Non mi ero accorta che fosse
arrivata la sera e vedere il cielo così colorato e ricco di sfumature mi lasciò
completamente sbalordita.
Non avevo mai
visto uno spettacolo simile. Ne ero certa. In tutta la mia vita, anche se non
me ne ricordavo, non mi era mai capitato di assistere ad una cosa tanto bella.
Il sole brillava all’orizzonte diviso a metà dalla linea del mare e la volta
celeste si era tinta di rosso, arancione rosa, giallo viola e blu, sfumandosi
in colorazioni sempre più fredde man mano che si allontanava da quel cerchio
luminoso.
Non mi accorsi di
essermi seduta anche io accanto ad Ace, né del fatto che mi stesse osservando.
In quel momento per me esisteva solamente il rumore delle onde che si
abbattevano lontane contro la chiglia della nave, le voci melodiche ed
echeggianti dei gabbiani in lontananza, il flebile ondeggiare
dell’imbarcazione, la sensazione del vento serale che mi accarezzava dolcemente
le guance, rinfrescandole appena.
Mi sembrava un
miracolo poter assistere una cosa simile e avrei tanto voluto che non finisse
mai.
Fu però la mano di
Ace a rompere quell’incantesimo, scuotendomi leggermente la spalla per farmi
svegliare dal mio stato di contemplazione.
Lo vidi
osservarmi con un sorriso intenerito, prima che mi scompigliasse delicatamente
i capelli, scendendo poi ad asciugarmi le guance.
Solo allora mi
accorsi di essermi messa a piangere senza rendermene conto.
Mi voltai da una
parte di scatto, pulendomi da sola il viso dalle ultime tracce del mio pianto.
Che figuraccia. Oltretutto, là dove Ace aveva passato le dita accarezzandomi appena
le guance, era rimasta una strana scia, una sensazione di calore che mi
solleticava ancora il viso, facendolo arrossire appena.
“Ma perché sono
sempre così scema?” sussurrai tra me e me, per poi sentirmi sollevare e
trasportare accanto a basso parapetto della vedetta.
“Ok, ima wareware ga iku!” disse
con il solito sorrisetto malandrino ricomparso sul suo viso per poi lasciarsi
cadere nel vuoto insieme a me. Feci uno sforzo a dir poco sovrumano per non
urlare, mentre mi aggrappavo con forza al suo collo.
Una cosa era
certa: quella era l’ultima volta che mi fidavo di Ace! L’ultima!
Atto 5, scena 8
Marco non era mai
stato un tipo apprensivo.
Era più che altro
uno di quei ragazzi calmi che vivono e lasciano vivere, senza mai mettersi ad
assillare i compagni di viaggio a meno che la situazione non fosse tanto
insostenibile da richiedere un minimo di disciplina. Erano in molti sulla nave
a tessere le sue lodi, sottolineando l’assoluta calma ed imparzialità che
adottava in ogni situazione, senza mai fare né preferenze né scenate di alcun
genere.
Non per nulla era
il comandante della prima flotta. In sostanza era un tipo riflessivo, dedito
più ai libri ed agli scacchi che alle scaramucce controproducenti nelle quali
alcuni della sua ciurma si gettavano a capofitto come dei bambini ansiosi di portare a casa qualche livido o cicatrice come trofeo.
Eppure in quel
momento, Marco, si sentiva in dovere di fare tutto fuorché riflettere. Specie
dopo aver visto Ace atterrare incolume sul ponte della nave con una Momo
tremante e spaventatissima tra le braccia.
Gli ci volle non
poca parte del suo encomiabile autocontrollo per sopprimere l’istinto di
prendere il fratellino per la calotta ed appenderlo alle sartie della nave.
Possibile che
quel Portuguese non ne combinasse una giusta?!
E dire che era
semplicemente venuto a controllare se il giro della nave fosse terminato!
Invece che cosa si ritrovava?
Momo spaventata e
tremante come un gattino a cui avevano pestato ingiustamente la coda, tenuta
stretta da Ace con un bel ghigno malandrino stampato in faccia.
Il biondo sospirò
esasperato, massaggiandosi gli occhi con due dita: aveva deciso di cercare di
parlare con Momo prima di cena, ma, date le circostanze, l’impresa si sarebbe
dimostrata più ardua del previsto.
E chi doveva
ringraziare? Ace, ovviamente.
Si avvicinò a
passo calmo verso i due, attirando così l’attenzione del fratellino che, appena
lo vide, sbiancò letteralmente, bloccando i suoi tentativi di calmare la
ragazza, ancora stretta al suo collo.
“Oh…” disse, cominciando a sudare freddo “… ciao, Marco.”
Quelle parole
fecero smettere istantaneamente di tremare Momo, che, al suono del nome del
biondo, si era voltata ad occhi spalancati, oltre la spalla del moro.
La Fenice inarcò
un sopracciglio, facendogli intendere che non se la sarebbe cavata così a buon
mercato.
“Posso spiegare.”
Fu la debole giustificazione di Pugno di fuoco, mentre la naufraga scivolava
via da lui.
Di nuovo Marco
gli lanciò un’occhiata sbieca, mentre si premurava di controllare con la coda
dell’occhio le mosse di Momo, ora voltata di spalle rispetto a lui. Quella
vista gli diede una brutta fitta allo stomaco che si costrinse a non ascoltare,
continuando a tenere sotto torchio Ace.
“E che cosa, c’è
da spiegare?” chiese ironicamente alzando gli occhi al cielo che si stava
imbrunendo sopra le loro teste “Io ti ho semplicemente visto scendere dalla vedetta
dell’albero maestro con il preciso intento di far spaventare Momo.”
“Ma no! No! Che
dici!” scosse vigorosamente la testa Ace, agitando le mani in avanti “Io volevo
solo farla divertire! Non credevo che si sarebbe spaventata così tanto da- …”
“Avvinghiarsi a
te come una piovra?” terminò con tono quasi acido il biondo, sfidandolo con gli
occhi a smentire.
A rispondergli
bastò il sorriso imbarazzato del moro, colto in fallo. Eh, poteva farla a
chiunque, ma non a Marco.
“E poi sarei io lo
sporcaccione.” Aggiunse con uno sbuffo Marco, riferendosi alla battuta
rivoltagli poche ore prima dal fratello. I suoi occhi azzurri si posarono sulla
schiena di Momo, ancora rivolta verso di lui.
La osservò
tristemente, indeciso se tentare o meno di parlarle, ma alla fine decise che
tanto valeva provarci, almeno per capire che cosa mai spingesse la ragazza ad
evitarlo.
Incrociò gli
occhi color onice di Ace.
“Vorrei provare a
parlare con Momo, ti dispiace?” chiese, ottenendo, dopo un paio di lunghissimi secondi,
un segno di assenso da parte del moro.
Quando Ace fu
scomparso dalla porta che conduceva alla sottocoperta, Marco si rivolse verso
la ragazza, ora intenta ad osservarla confusa dalla nuova situazione creatasi.
Sospirò chiudendo
gli occhi, evitando così di incrociare direttamente lo sguardo di Momo.
“Stai bene?”
cominciò, avvicinandosi di un passo a lei, constatando con suo grande sollievo,
che non cercò di allontanarsi in alcun modo, nonostante pareva più che decisa a
non rispondergli: non era spaventata da lui dunque.
Bene, pensò
sorridendo appena a quella constatazione, almeno non era lui il motivo di
quell’improvviso mutismo nei suoi confronti.
Momo intanto si
era ormai completamente girata verso di lui, scrutandolo in aspettativa, mentre
si torturava con le mani l’orlo dell’enorme camicia che le aveva prestato.
Doveva ammettere
che non le stava male, anche se era decisamente troppo larga rispetto al suo
corpicino esile e non ancora ripresosi dal digiuno del suo naufragio.
In effetti
mangiava davvero poco.
Un’idea lo
sorprese di punto in bianco.
“Aspetta qui.”
Disse indicandole il ponte con un dito per farle capire di aspettarlo e lei
parve capire, vistosil segno di assenso che gli
rivolse con la testa.
Dopo essersi
lasciato alle spalle la porta del ponte, Marco affrettò il passo, dirigendosi
verso la mensa della nave. Avrebbe usato il cibo per passare un po’ di tempo
con lei, così da riuscire a capire quello che stava succedendo e magari anche
scoprire qualcosa di più sulle sue strane capacità che avevano tanto esaltato
il babbo, quanto preoccupato lui.
Fine Atto Quinto.
Eccomi qua! Mi dispiace per il leggero ritardo =3 sono stata un po’
impegnata di recente che sto cercando di dare una spintarella anche a Nanaban Hana che proprio non
riesco a continuare se non a pezzi piccolissimi. Aaargh.
Sto impazzendo. Dopo questo capitolo mi metterò sopra NH e cercherò di
pubblicare i capitoli di entrambe le ff in
alternanza. E non si può continuare così!
Oook. Finito lo sclero. Ora
passiamo a KnA! Rispondo ad una domandina che mi è
stata posta da una di voi. Io conosco giusto un po’ di giapponese e lo studio
da autodidatta, quindi si può dire che conosco discretamente la lingua, almeno
le frasi più comuni, per le altre a volte mi devo aiutare con traduttori automatici
e il libro di grammatica.
Spero che abbiate gradito l’inserimento delle Note di Libretto! ^^
L’ho inserito anche alla fine dei capitoli precedenti! Sempre per
servirvi (inchino).
Allora. Parlando dell’atto: che dite sono riuscita a non essere monotona?
Nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle! Infatti vi anticipo un incontro
tra Momo e lo schiavista str- Roid.
E qui si incentra la prossima domanda!
Momo
come reagirà alla vista di Roid? (ricorderà?
Non ricorderà? Scapperà? Altro?)
E dopo questo aggiungo un’altra domandina meno importante (>_> see come no, sono sicura mi lincerete):
Marco ruscirà a parlare con la piccola o finirà con un nulla di
fatto?
E qui vi lascio alle vostre recensioni costruttive!
Popolo! Votate! XD
Kiss kiss.
Note di LIBRETTO: Jap > Ita
Saa, Momo-chan. Watashi-tachi wa fune ni notte iku? > Allora
Momo. Andiamo a fare un giretto per la nave?
Ima, sugu hairaito wa
shite imasu. > Ed
ora il pezzo forte.
Koko ni kite. >
Su vieni qui.
Saa tsui ta zo >
Eccoci qua.
De, akachan
kite! Watashi wa koko o motarashi
ta riyū ima watashi wa anata
o shōkai shimasu.Saa. > Eddai, piccola. Ora ti faccio vedere perchè
ti ho portato qui.
Ok, ima wareware ga iku! > Ok, adesso scendiamo!