- Muzukashii ketsudan to kimyōna hakken -
Casa.
Ero davvero a casa mia.
Non
credevo che avrei mai provato un affetto così smisurato nei
confronti del mio
inquinato e caotico ventunesimo secolo, ma non appena i miei piedi
sfiorarono nuovamente
il marciapiede, o l’asfalto della strada, provai una
nostalgia che non avevo
mai avuto modo di sentire.
Gli
alti grattacieli, le automobili che sfrecciavano a grandi
velocità, i gruppetti
di giovani studenti delle medie, rigorosamente in divisa, che ridevano
o si
lamentavano dei troppi compiti, non mi ero mai resa conto di quanto
tutto
questo avrebbe potuto mancarmi, un giorno. Potevo camminare in mezzo
alla gente
senza che questa mi fissasse con sguardi spaventati o con
l’intenzione di
aggredirmi per i miei caratteri stranieri e il mio accento ridicolo, e
soprattutto senza il timore che un demone alto tre metri potesse uscire
da
dietro un cespuglio con il desiderio di uccidermi.
In
fondo Kagome aveva visto giusto… Dubitavo che sarei tornata
dall’altra parte
del pozzo, ora che finalmente mi ero riappropriata del mio mondo.
Oh,
già. Il pensiero della mia nuova e strana amica –
di cui, tra l’altro,
indossavo gli abiti in quel preciso momento – mi fece per un
attimo fermare in
mezzo alla strada, pensierosa. Probabilmente non l’avrei mai
più rivista, dato
che la ragazza sembrava trascorrere molto più tempo
nell’epoca Sengoku che non
nella nostra; così come non avrei più visto
Inuyasha, Sango, Miroku, l’anziana
Kaede… La piccola Rin…
Accidenti!
Ero a casa da neppure due ore e già mi mancavano? Che
stupida… E cos’era quello
strano pizzicore agli occhi, poi? Coraggio, Nicole, riprenditi!
Dopo
aver preso due autobus e un treno, arrivai finalmente alla stazione del
mio
quartiere, e mi incamminai quasi ad occhi chiusi verso casa mia. Era un
edificio antico, di inizio Novecento, e si notava da lontano,
perciò non era
difficile da trovare: inoltre, percorrevo quella strada tutti i giorni
al
rientro da scuola e la conoscevo come le mie tasche, cosa che invece
non si
poteva dire dell’epoca medievale che mi aveva ospitato fino a
quella mattina.
Non
appena varcai l’imponente cancello in ferro battuto, mi
accorsi che la macchina
di mio padre non c’era, segno che doveva essere in giro
– forse a lavoro, molto
probabilmente. Non avevo le chiavi, ma sapevo che Hiromi-san ne
lasciava una
copia sotto il pesante vaso d’argilla accanto alla porta
d’ingresso, e dopo
averla presa riuscii ad entrare finalmente in casa.
Tuttavia
nessun rumore proveniva da dentro, come se non ci fosse nessuno.
Possibile? Io
ero dispersa da due giorni e loro non erano in casa? Piuttosto
perplessa mi
tolsi le scarpe e mi incamminai lungo il corridoio, decidendo di
raggiungere la
cucina che, fino a prova contraria, era il regno indiscusso della
nostra
governante giapponese.
La
porta scorrevole era aperta, così mi limitai ad
affacciarmici prudente. «C’è
nessuno? Hiromi-san?»
Nessuna
risposta. Sempre più strano…
Lanciai
di sfuggita uno sguardo alla porta della cantina, reprimendo un brivido
istintivo: non ci sarei scesa per parecchio tempo, questo era certo.
Richiusi la
fusuma e decisi di salire al piano superiore, sperando di trovare la
governante
almeno nella sua stanza. Assurdo, possibile che non ci fosse nessuno ad
attendermi? Raggiunsi il pianerettolo del secondo piano e mi diressi
verso la
camera di Hiromi-san, cercando di fare più rumore possibile
in modo che non si
spaventasse nel trovarsi all’improvviso di fronte a me; anche
se le sarebbe
venuto lo stesso un infarto, visto che mancavo da quasi tre giorni.
Bussai
alla porta e, visto che non mi rispose nessuno, la spalancai, avanzando
al suo
interno. Sembrava non esserci nessuno, neppure
lì…
«Oh,
per tutti i kami! Nicole-chan, sei davvero tu?» Una voce,
proveniente da dietro
le mie spalle, mi fece sobbalzare e voltare immediatamente, e prima che
potessi
dire o fare qualsiasi cosa mi ritrovai sepolta nell’abbraccio
frenetico di
Hiromi-san, che singhiozzava da spezzare il cuore.
«…così
preoccupati, eravamo così preoccupati!» La sentii
balbettare disperata, mentre
ricambiavo la sua stretta. «Sei sparita
all’improvviso, abbiamo addirittura
pensato che…! Ma ora sei qui, oh! Andare a pregare al tempio
è servito!»
Una
sua stretta più forte mi fece gemere, e il dolore mi fece
rammentare della
ferita che ancora avevo sulla schiena, e che di questo passo mi avrebbe
lasciato una bella cicatrice in ricordo. Mi divincolai gentilmente dal
suo
abbraccio e le sorrisi, indietreggiando.
«Hiromi-san,
vi dispiace prepararmi un thè caldo? Avei bisogno di
riposare un po’…» Chiesi,
sperando che non mi facesse domande imbarazzanti.
Lei
annuì, asciugandosi le lacrime ai lati degli occhi.
«Ma certo, certo. Vieni in
cucina, così poi mi racconti cosa ti è
successo…»
La
cucina? La porta dello scantinato, il pozzo… «Mmh
no, Hiromi-san, vado un attimo
a sdraiarmi in camera mia, potete portarmi il thè quando
è pronto?»
Se
anche sembrava sorpresa dal mio atteggiamento, non lo diede a vedere.
Annuì. «Si,
certo. Vai e riposati, io arrivo subito.»
La
ringraziai con un debole sorriso e raggiunsi la mia camera, desiderando
solo di
sdraiarmi nel mio comodo e morbido letto occidentale, che non aveva
nulla a che
vedere con gli scomodi futon giapponesi dell’epoca Sengoku.
Trovavo irritante
dormire per terra, era anche uno dei motivi per cui odiavo fare
campeggio. Ma
questo, ora non aveva importanza.
La
mia camera, a parte la classica fusuma, aveva un arredamento
tipicamente
europeo, al contrario del resto della casa. Il mio letto, posto sotto
la
finestra, era ricoperto da cuscini e da una trapunta in patchwork
appartenuta a
mia madre; un comodino alla sua destra, con sopra una lampada bianca, e
un
tappeto peloso che ricopriva il tatami ai piedi del letto. Nella parete
laterale troneggiava un enorme armadio con uno specchio a grandezza
naturale,
mentre dall’altra parte una libreria sovrastava la scrivania
nella quale
studiavo. La vista del portatile richiuso sopra il tavolo mi fece
capire di
essere veramente a casa, e con un
sospiro mi gettai sul letto a pancia in giù, per non
sottoporre la schiena ad
ulteriori sforzi. Non avevo voglia neppure di indossare qualche mio
vestito.
Quanto
tempo rimasi in quella posizione, ad annusare il profumo confortevole
della mia
trapunta? Non ne avevo idea, ma non mi ero addormentata; dopo un
po’ sentii un
discreto bussare e, certa che si trattasse di Hiromi-san, la invitai ad
entrare.
«Il
thè è pronto, cara.» Disse, posando il
vassoio sul comodino e sedendosi sul
letto accanto a me. «Non mi vuoi dire
cos’è successo? Perché sei sparita
all’improvviso?»
Sospirai
per l’ennesima volta, volgendo il viso dalla parte della
finestra per non
essere costretta a guardarla negli occhi. «Oh, Hiromi-san,
che senso ha
raccontare tutto? Tanto non ci credereste di
sicuro…»
«Ti
stupiresti nel sapere quello che io so, giovane miko.»
Poco
più di un sussurro, ma nel silenzio assoluto della stanza la
sentii ugualmente,
e ciò mi fece saltare a sedere sul letto, cercando con lo
sguardo gli occhi
persi nel vuoto della mia governate. Miko? Si era davvero rivolta a me
appellandomi con quel titolo?
La
donna non mi guardava, forse in cuor suo pentita di essersi lasciata
sfuggire
quella parola.
«Come…
Come fate a… Perché?» Balbettai,
incapace di celare la sorpresa.
La
mia reazione le strappò un piccolo sorriso. «Devi
farmi le domande giuste per
avere le risposte giuste.» Si limitò a dire,
sibillina.
Ma
cosa ne era stato della mia governante giapponese, che guardava le
telenovele e
spettegolava amabilmente con i vicini di casa? Perché la
donna che avevo di
fronte le assomigliava molto, certo, ma non poteva essere di certo la
stessa
persona…! Sbattei le palpebre, prendendo poi un profondo
respiro. Coraggio, non
era certo la cosa più spaventosa che mi era capitata, no?
Avevo affrontato di
peggio in quegli ultimi giorni.
Per
prendere tempo mi sporsi e presi la tazza del thè,
immergendovi tre cucchiaini
di zucchero e iniziando a scioglierli lentamente mentre pensavo a
qualcosa di
abbastanza sensato da dire.
«Anche
voi credete che io sia una sacerdotessa?» Domandai alla fine
con un sussurro,
non riuscendo a formulare una domanda migliore.
La
vidi scuotere la testa, prima che si alzasse e andasse a sedersi alla
sedia
della mia scrivania in modo da potermi essere di fronte. «Mia
cara, non è
certamente una credenza. Tu sei una
sacerdotessa. Emani potere spirituale come se stessi spargendo
profumo!»
Sgranai
impercettibilmente gli occhi, dopodichè portai alle labbra
il thè per sorbirne
un sorso. Il calore della bevanda mi aiutò a digerire anche
le parole
inquietanti della donna. «Io non sono giapponese. Come faccio
ad essere una
miko? E perché non me ne sono mai accorta?»
«Prima
di tutto, il fatto di essere una miko non ha nulla a che vedere con la
nazionalità: oh, questo è totalmente un fatto
irrisorio! Inoltre non è qualcosa
di cui ci si accorge, cara, non è come avere i capelli
bianchi o
l’abbronzatura.» Mi spiegò, paziente.
Poi il suo viso divenne improvvisamente
serio e contrariato, come se si fosse appena ricordata di una cosa.
«E poi non
sei certo una strega! Scordati quel genere di poteri, mia
cara.»
Lo
disse con un cipiglio così serio che fui costretta a
distogliere lo sguardo, imabarazzata,
dato che effettivamente avevo pensato di possedere, adesso, dei poteri
magici o
qualcosa del genere. A suo dire niente di più sbagliato,
comunque.
«Ma,
Hiromi-san…» Esordii, titubante. «Voi
avete una qualche idea di quello che mi è
accaduto?»
La
mia cara governante, che fino ad allora avevo creduto insensibile a
tutte
quelle sciocche superstizioni giapponesi e shintoisti a proposito delle
sacerdotesse e simili, mi lanciò uno sguardo che era tutto
un programma. Mi
bastò osservare attentamente quei profondi occhi neri per
capire che c’era
davvero qualcosa che mi stava tenendo nascosta. Ma cosa?
Le
sue labbra si schiusero in un sospiro. «Temo che abbia a che
vedere con il
pozzo, non è così?» Chiese, unendo le
mani in grembo e inarcando un
sopracciglio.
Non
riuscii ad evitare di trasalire, sorpresa; touchèe.
«Come
fate a sapere del pozzo? È una cosa così
assurda!» Esclamai, massaggiandomi le
tempie. «E, se lo sapevate… Perché non
mi avete impedito di scendere in quello
scantinato?»
Hiromi-san
scosse la testa, sconsolata. «Credimi, Nicole, se fossi stata
certa di essere
nel giusto te l’avrei proibito. Ma tutti hanno bisogno di
affrontare le loro
esperienze, e inoltre sfuggire al destino è
impossibile… Prima o poi sarebbe
successo comunque, con o senza i miei avvertimenti.»
Sollevò lo sguardo e lo
posò di nuovo su di me, risoluta. «È
stato il richiamo della Sfera a riaprire
il passaggio. Quando tuo padre te l’ha consegnata, il tuo
fato ha iniziato a
compiersi.»
Più
la ascoltavo, più cose mi diceva, più aumentava
la mia sete di conoscenza e la
mia voglia di porgerle tutte le domande che mi avevano perseguitato
lungo quei
giorni. Eppure avevo la sensazione che scoprire tutto così,
all’improvviso,
sarebbe stato impossibile, e anche inutile: forse alcune delle cose che
doveva
dirmi non le avrei nemmeno capite, e sarebbe stato un peccato.
Però, però… Io volevo
sapere!
Posai
la tazza di thè, ormai freddo, sopra il vassoio, e mi
dedicai interamente a
Hiromi-san. «Come fate a sapere della Sfera? Chi ve
l’ha detto?» Domandai, con
una punta di accusa nella voce.
Ma
lei non si scompose. «La Sfera è insieme una
leggenda ed una maledizione, mia
cara. Tutti ne sono a conoscenza.» Rispose pacatamente,
posando una sua mano
sulle mie. «In tanti hanno provato a distruggerla, ma essa
non si lasciava
annientare. Semplicemente, svaniva nei meandri del tempo, per apparire
ovunque
ci fosse un’anima tanto efferata da richiamarla.»
Questo
mi rammentò, in un certo qual senso, le parole
dell’hanyou Inuyasha. Anche lui
aveva detto qualcosa di simile, e cioè che la Sfera da loro
distrutta era
svanita dalla loro epoca per poi apparire nella mia, in un tempo e in
un luogo
completamente differenti. Sarebbe stato così per sempre?
«Però
non avete risposto alla mia domanda, Hiromi-san.» Replicai
dopo un po’. «Come
fate voi a sapere
dell’esistenza
della mia Sfera?»
La
vidi esitare, palesemente contrariata per la mia insistenza che,
probabilmente,
le avrebbe presto strappato alcuni dei suoi più grandi
segreti, ma nessun suono
fece mai in tempo ad uscire dalla sua bocca. Venimmo interrotte prima
che ciò
accadesse, da qualcuno che mi era ben familiare e che stava chiamando a
gran
voce la governante seduta accanto a me.
«Continueremo
in un altro momento questa discussione, Nicole-chan.» Disse,
alzandosi e
dirigendosi verso la porta. La spalancò, facendomi cenno di
raggiungerla, e una
volta sul pianerottolo iniziò a chiamare ad alta voce mio
padre, avvisandolo
del mio improvviso ritorno a casa.
Di
certo non mi aspettavo una simile accoglienza da parte di mio padre.
Non
dico che avrebbe dovuto corrermi incontro, felice e sollevato di
vedermi sana e
salva, viva perlomeno, e piangere
lacrime amare; ma sicuramente non credevo che si sarebbe infuriato,
arrivando
addirittura ad un passo dallo schiaffeggiarmi per avergli fatto
prendere un
colpo in quel modo.
«Mi
vuoi spiegare cosa diavolo ti è saltato in testa, eh,
signorina?» Sbraitò fitto
in francese, puntandomi il dito contro mentre mi sovrastava
dall’alto,
osservandomi con uno sguardo spaventoso che non gli avevo mai visto.
«Sei
sparita per tre giorni! Tre! Ti rendi conto di quello che hai fatto?
Credevo di
averti sempre dato tutta la libertà di cui necessitavi, ma
tu hai dovuto
abusarne! Cos’è, una nuova moda tra i giovani,
quella di scappare di casa?»
«Ma
papà, io…»
Non
voleva darmi retta. «Silenzio! E non hai pensato neppure a
come mi sarei
sentito, nel tornare a casa e scoprire che tu eri scomparsa nel nulla?
Le tue
amiche non sapevano niente! Ho chiamato la polizia, ho addirittura
telefonato a
tua nonna, a Parigi! Ma di te nessuna traccia, come se
fossi… Abbiamo temuto il
peggio! Hai la più pallida idea di quello che ci hai fatto
passare? Mi auguro
che tu abbia una buona storia da raccontare, perché questa
volta non te la
caverai con delle semplici scuse! Puoi considerarti in punizione per il
resto
della tua vita, spero che questo sia chiaro!»
Mio
padre, il mio tranquillo, pacato, stoico e freddo papà, che
raramente si
lasciava andare all’ira, era letteralmente un fiume in piena.
Vomitava frasi
sconnesse l’una dietro l’altra, rincorrendo tutti i
pensieri che dovevano
averlo assalito in quei giorni e cercando di mettermene a parte, e
soprattutto
senza avere la minima intenzione di ascoltare ciò che io
avevo da dire.
Approfittai
di un momento di silenzio in cui stava riprendendo fiato, per poter
avere la
possibilità di difendermi. «Je
t’en prie,
papà, siediti e lascia che ti spieghi ogni cosa.»
Lui
mi lanciò uno sguardo per nulla convinto, tuttavia si
sedette sul divano di
fronte a me, giungendo le mani davanti al viso come faceva di solito e
facendomi intendere di iniziare con le mie “scuse”.
Cosa che feci davvero: gli
raccontai ogni singola cosa che mi era capitata in quel breve lasso di
tempo, a
partire da quando ero stata trascinata all’interno del pozzo
del nostro
scantinato fino a quando ero stata quasi uccisa da un demone ragno, e
poi di
come ero stata curata e riportata a casa da una ragazza che aveva
condiviso
parte del mio stesso destino. Non tralasciai nulla, cercando di rendere
il più
realistico possibile quel racconto che, me ne accorgevo benissimo da
sola, non
stava né in cielo né in terra.
E,
effettivamente, questo doveva essere proprio quello che pensava anche
mio
padre.
Quando
tacqui, svuotata ormai da quelle terribili confessioni che non avevo
più voglia
di tenermi dentro in gran segreto, vidi che mi osservava di sbieco, con
un’espressione basita, come se non riuscisse a credere che
fossi stata capace
di inventarmi una simile storia per coprire la mia
“fuga”. Ciò che disse dopo,
infatti, non fece che confermare la mia supposizione: non mi aveva
creduta.
«Se
pensi che questa pazza storia possa esularti dalla tua punizione,
allora…»
Iniziò, ricominciando ad arrabbiarsi.
In
quel momento mi ricordai della mia ferita. Ma certo, quale altra prova
migliore
della cicatrice degli artigli lasciatimi da quel demone sulla schiena,
per
farlo ricredere su quanto appena detto? In silenzio mi alzai e, sotto
il suo
sguardo sorpreso, mi sfilai il maglione, rimanendo a torso nudo, con
l’unica
copertura della fascia fattami dall’anziana sacerdotessa
Kaede intorno al
petto.
«Pensi
ancora che mi sia inventata tutto, papà?»
Domandai, cercando di trattenere le
lacrime. Sapevo quanto potesse suonare assurda tutta la situazione, ma
era
terribilmente fastidioso e demoralizzante il fatto di non venire
creduta dal
proprio padre.
Si
alzò dal divano e, lentamente, mi raggiunse, facendomi
voltare in modo da
dargli le spalle; poi, con delicatezza, passò una mano sopra
la fasciatura,
tastando la ferita ancora fresca – con tutte le volte che si
era aperta, ormai
credevo non sarebbe più guarita del tutto – e
strappandomi un gemito. Allora si
allontanò da me come se si fosse scottato, e
indietreggiò nuovamente verso il
divano, crollando a sedere.
«Mio
Dio, Nicole… Quello che mi hai detto è
così… così…»
Mormorò, tenendosi la testa
con le mani.
Non
potei trattenere un sospiro. «Incredibile?»
Risposi, andando a sedermi accanto
a lui. Gli posai una mano sulla schiena e posai la fronte sulla sua
spalla,
come quando ero piccola. «Stai tranquillo,
papà… Tanto adesso è tutto finito,
non me ne andrò più.»
Lo
dissi per tranquillizzarlo; lo dissi perché avrei voluto
crederci; ma,
soprattutto, lo dissi perché volevo sforzarmi di non sentire
la strana fitta di
malessere e, forse, nostalgia, che mi assaliva non appena con la mente
tornavo
al villaggio Musashi e ai suoi abitanti, e il viso di una bambina si
faceva
largo a forza tra i miei ricordi… Lo dissi perché
desideravo fosse vero, perché
desideravo non far parte di quel mondo.
Ma,
purtroppo, ora me ne sentivo indissolubilmente legata.
***
Da
quel giorno, trascorsero ben due settimane.
Avevo
ripreso ad andare a scuola, com’era ovvio che fosse: le mie
compagne di classe,
palesemente preoccupate della mia sparizione improvvisa, mi
tempestarono di
domande per sapere cosa mi fosse successo e soprattutto dove fossi
stata, ma in
fondo conoscevano troppo bene il mio carattere riservato e discreto per
insistere una volta che avevo già detto loro di non volerne
parlare.
Ma
ormai mi ero accorta che vivevo per inerzia. Avevo smesso di uscire con
le mie
amiche, le uniche volte che varcavo il cancello di casa mia era per
andare a
scuola, e anche lì stavo più in disparte di
prima. Se all’inizio questo mio
comportamento poteva essere giustificato in quanto ero la
“ragazza nuova”, la
“straniera”, ora non faceva che rendermi
insopportabile a tutti coloro che
avevano l’ardire di rivolgermi la parola. Scattavo e mi
arrabbiavo per un
nonnulla, tanto sa risultare odiosa persino a me stessa. Ma non potevo
farci
nulla: la mia mente era costantemente altrove, e se qualcuno provava a
riportarmi alla realtà gli rispondevo male o lo fulminavo
con un’occhiataccia
gelida.
Come
se ciò non fosse abbastanza, la mia condotta era strana
persino a casa mia.
Trascorrevo serate intere nella cantina, raggomitolata per terra con le
gambe
strette al petto, senza distogliere lo sguardo dal pozzo che, adesso,
sembrava
del tutto innocuo. Portavo sempre con me una torcia, ma
l’accendevo di rado; in
quei momenti di insperata tranquillità riuscivo a pensare e
a riflettere,
incurante del freddo umido del vecchio scantinato.
La
mia mente combatteva contro una vera e propria fase amletica: tornare o non tornare? Al di
là del pozzo,
chiaramente. Nascondevo il viso nelle braccia incrociate sopra le gambe
e
prendevo dei profondi respiri, come se questo potesse in qualche modo
aiutarmi
a prendere una qualsiasi decisione. Era difficile, era tremendamente
difficile.
La mia casa non era lì, in fondo: non era quello il mio
mondo. Ma allora perché,
perché, maledizione, non
riuscivo a scostare
il pensiero da quel luogo? Che razza di incantesimo mi avevano fatto?
Si
trattava solo della Sfera? Era lei che mi stava richiamando indietro?
La prima
sera che l’avevo sfiorata avevo sentito una sorta di battito
al suo interno, ed
era calda, viva: possibile che
stesse
cercando di attirarmi di nuovo al di là del pozzo, in modo
da tornare ancora in
mio possesso?
Un’altra
cosa che non tolleravo era il silenzio di Hiromi-san. Dopo avermi
rivelato di
conoscere la mia natura di miko – per quanto io stessa non ne
comprendessi l’origine
– aveva cessato di rivolgermi la parola, se non per pura
educazione. Non mi
aveva più detto nulla al riguardo, lasciandomi libera di
rimuginare anche su
quello come se non avessi avuto abbastanza problemi. Alla fine avevo
deciso di
lasciar perdere: di qualunque cosa fosse a conoscenza non doveva essere
così
importante e fondamentale, se non me ne aveva parlato.
E
così adesso ero lì, gli occhi puntati sul pozzo
silenzioso. Le mie mani
tormentavano il bordo del mio maglione, la schiena ormai quasi
completamente
guarita che poggiava sul muro in pietra della cantina, e le labbra socchiuse in un
sospiro silenzioso.
Avevo promesso a mio padre che non sarei mai più scomparsa;
ma prima di lui
avevo fatto anche un’altra promessa… Avevo
assicurato ad una piccola bambina
dagli occhi castani e i capelli corvini che sarei tornata da lei, e che
non l’avrei
lasciata sola. E malgrado le minacce che mi aveva rivolto il suo
signore, alla
fine mi avevano permesso di tornare a casa con la convinzione che sarei
tornata
subito.
Cosa
che non era avvenuta…
Basta,
ero stufa. Non era da me stare in disparte ad attendere che il destino
facesse
il suo corso, ero più dell’idea che ciascuno fosse
artefice e responsabile del
proprio, di conseguenza era arrivato il momento di prendere in mano la
situazione e agire.
Ciò
che accadde dopo fu talmente frenetico che non non riesco a
ricostruirlo con
precisione. Rammento che saltai in piedi e che corsi in camera mia,
afferrando
un enorme borsone da viaggio dal mio armadio e infilandoci alla rinfusa
qualche
maglione, pantaloni, indumenti intimi e cose simili, insieme a una
torcia
elettrica e una buona dose di pile di ricambio, alcuni libri e degli
aciugamani. Dopodiché scesi frettolosamente al piano di
sotto, trascinandomi
appresso la borsa e raggiungendo la cucina, dalla quale presi un
coltello a serramanico
e un po’ di provviste, che non erano da dimenticare. Lasciai
il mio bagaglio
sul tavolo della cucina e andai in bagno, dove mi appropriai di un
baule del
pronto soccorso e di alcuni medicinali che avrebbero potuto servirmi
– la mia
ferita sulla schiena era guarita, certo, ma persisteva il ricordo.
Infilai il
giubbotto, i guanti e un cappellino, e prima di andarmene scrissi un
biglietto
che avrebbe trovato Hiromi-san sul tavolo da pranzo non appena fosse
tornata a
casa dalla sua passeggiata.
Ecco,
adesso potevo dirmi pronta. Afferrai un ombrello e lo gettai nella
borsa prima
di richiuderla con la zip, dopodiché me la caricai in spalla
e raggiunsi l’ingresso,
infilandomi impaziente le scarpe. Dovevo aproffittarne ora che ero da
sola in
casa, altrimenti non mi avrebbero permesso di fare una cosa simile.
Certo,
avrei potuto usare il mio pozzo, ma non mi fidavo: non sapevo dove
sarei
sbucata, e l’idea di incontrare qualche altro demone
intenzionato ad uccidermi
era tutto fuorchè invitante. Mi sembrava molto
più saggio andare al tempio
Higurashi e usufruire di quello, che se non altro era molto
più vicino al
villaggio Musashi.
Spalancai
la porta e corsi fuori, ignorando la pioggerellina che aveva iniziato a
cadere.
Iniziai a correre e non rallentai per nessuna ragione, cercando di
raggiungere
il tempio al più presto prima che la ragione si
reimpossessasse della mia mente
convincendomi dell’assurdità di quello che stavo
facendo.
Non
volevo tornare indietro; avevo preso la mia decisione.
Sarei
tornata.
Perdonami, papà.
Ma ho una missione
da compiere e devo tornare dall’altra parte del pozzo; non
tornerò fino a
quando non avrò ritrovato la Sfera della mamma. Spero che
questa volta
comprenderai le mie ragioni, e non ti preoccuperai. Stai tranquillo,
sarò in
buone mani. Lascia che Hiromi-san ti spieghi tutto, se vuoi. Ma devi
farle le
domande giuste.
Ti voglio bene,
Nicole.
________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Aggiornamento non proprio rapido, e capitolo appena più lungo dei precedenti. Ma volevo "liquidare" la faccenda di Nicole in un unico capitolo, spero comunque di non averlo reso troppo frettoloso e che si siano capiti i sentimenti di Nicole, che si trova divisa tra due mondi anche se ancora non in modo del tutto irreparabile... Spero di non avervi deluso, ad ogni modo ^^ E ora passo ai ringraziamenti!
AR - Angolo Ringraziamenti:
Ehm, okay, non ho il tempo di rispondere anche a quelle dello scorso capitolo (in teoria adesso dovrei essere immersa nello studio) ma voglio comunque ringraziare:
- Kobato: Anch'io penso che sarebbe pesante tutta la compagnia appassionatamente, sono più per il più intimo gruppo di Sesshomaru... Beh, vedremo come si evolverà la storia! ^^ Un bacione, a presto! =*
- Maya Deleon_Energy Alchemist: Grazie per la recensione, davvero noti un cambiamento in Sesshomaru? Mah, chissà cosa nasconde il bel tenebrone... Continua a seguirmi! ^^ Un bacio =*
- elenasama: Come vedi, Nicole è tornata nel Sengoku! ^^ Spero di non averti delusa con questo capitolo! Un bacio, a presto!
- Alebluerose91: Geme! Grazie per aver recensito, ti voglio bene =*
- Alebluerose91
- Arysan
- Cassandra_Wolf
- Eris_
- Kobato
- Maya Deleon_Energy Alchemist
- pamagra
- PhOeNiX_93
- renesmee92
- Riza Hawkeye
- velia1
- aquizziana
- artemis5
- Arysan
- A___A
- Cassandra_Wolf
- Delp
- emy91
- ireichy
- KiraKira90
- meris
- okutonoken
- Riza Hawkeye
- Saphiras
- velia1
- _NeMeSiS_
Un bacione, GiulyRedRose