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Autore: Gackt_Agito    02/06/2010    1 recensioni
« Questa che sto per raccontarti è una storia vera, nipotina mia. Ascoltami. » sussurrò il vecchio « Desidero che qualcuno la conosca, prima che io abbandoni questo mondo. E se ti piace, vorrei che un giorno tu la raccontassi ai tuoi figli, e loro ai propri figli e così via per generazioni. Perché finché ci sarà qualcuno a ricordarsi di Samuel e Zackarhia, allora non morirò. E neanche lui morirà. I nostri ricordi vivranno insieme per sempre… »
« Parli di te e di quel ragazzo che amavi in gioventù, nonno? »
« Sì, tesoro. Non ti ho mai raccontato la storia… Ma adesso voglio farlo. Ora ascoltami. »
« Racconta: io ti ascolto. » Poi si voltò verso Josh. « Tu sei troppo piccolo. Vai via, su. »
« Uffa! » Piagnucolò il bambino. Ma, da bravo, prese le sue cose e se n’andò ugualmente. Madeline volse il viso di nuovo verso il nonno, sorridendo. Con un gesto delle mani, lento, lo invitava a parlare. Il vecchio sorrise appena.
« Questa storia inizia come le favole, tesoro mio… » e respirò lentamente, come se gli facesse male.
La bimba annuì, silenziosa.
« Inizia con un C’erano una volta… un ragazzino, un bambino ed un husky. »
E le raccontò la storia della propria vita.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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P refazione______
Avviso importante e molto, molto veloce: ho rivisto i precedenti capitoli e li ho corretti tutti, perciò non dovrebbero esserci più errori, adesso. =] Questo capitolo è stato volontariamente lasciato in anonimo, non è un errore: è per non farvi troppo spoiler per quello che succederà in futuro e spero che non si capisca troppo, anche perché altrimenti non ci sarebbe più gusto a leggerne il seguito, vi pare? Bene, ora.. volevo passare ai ringraziamenti. Innanzitutto, volevo ringraziare RiflessoCondizionato: grazie per i tuoi commenti, mi fa certamente piacere riceverli, anche se non mi fido molto del tuo affermare che io scrivo bene, infondo c’è un abisso che separa il mio stile dal tuo, che reputo sicuramente migliore. Inoltre volevo rigirarti la frase, perché “sapere che la mia fiction piace ad una persona che scrive bene come te mi ha sorpreso e resa contenta”. :] Oltre a questo, volevo lasciare un grazie anche a lightnight, Pandemonium e sunlight che hanno messo la fiction fra i preferiti e alle diciannove persone che la seguono. Tutto questo mi fa arrossire per la contentezza, vi ringrazio tutti dal più profondo di me. Grazie!



C apitolo Q uinto
~don’t erase, just rewind



Avrei voluto staccare la spina molte volte.
Guardarlo lì, così spento e vuoto, causava in me un dolore così forte da farmi venire le lacrime agli occhi. Lui era immobile. Con l’elettrocardiogramma che scandiva i battiti del suo cuore secondo dopo secondo, io non potevo fare altro che rimanere immobile a guardarlo. Lui era così bello anche nel coma. Così silenzioso anche se dentro di lui, sicuramente mi stava ascoltando. Avrei dato la vita per sentire la sua voce rassicurarmi, sorridermi. Avrei dato l’anima per sentire le sue labbra sulle mie per un bacio. Avrei dato qualunque cosa per riavere lui, semplicemente. E piangevo: non potevo fare altro. Dimentico del fatto che il futuro lo stavo vivendo, passavo il tempo piegato su di lui, le braccia conserte e i singhiozzi a scandire il tempo. Tremavo perché non ero riuscito a fare niente per lui nemmeno questa volta.
Avrei voluto essere in un gioco per play station. Sarebbe stato tutto diverso, allora. Avrei potuto spegnere la console e ricominciare da capo il gioco. Avrei potuto non salvare e rifare tutto da capo. Avrei potuto cancellare tutto quello che era appena successo, ma mi rendevo conto che non ero in un fottutissimo gioco, ma nella realtà. Stringevo la sua mano e chiamavo il suo nome, lo invocavo e piangevo. Non potevo fare altro. Già altre volte avevano cercato di portarmi via dal suo giaciglio, spostarmi, ma era stato inutile. C’era voluto solo il cloroformio, per lasciarmi a dormire sulle sedie della sala d’attesa dell’ospedale, e neanche è durata tanto, poiché sono scappato: sì, sono tornato da lui di corsa, spalancando la porta e lanciandomi contro la sua mano per stringerla di nuovo, urlando frasi sconnesse.
« Sono qui! Sono qui: lo giuro! Hanno cercato di portarmi via, ma io sono qui… sono qui, sì, e adesso non me ne andrò più, te lo giuro, lasciami qui con te ancora un po’… Svegliati, ti scongiuro, mi manchi da morire. Svegliati, te ne prego, svegliati… ti prometto che non me ne vado, ti giuro che rimarrò con te per il resto della vita, ma tu non andartene, non morire, te ne prego, rimani vivo… svegliati, ti scongiuro, svegliati.. svegliati… »
E piangevo. L’elettrocardiogramma mi portava in un sonno spaventoso dal quale mi risvegliavo di soprassalto ogni momento. Erano due mesi che andavamo avanti così, neanche i sonniferi potevano niente. Perché io dovevo essere sveglio. Avrei aspettato il momento in cui l’avrei visto riaprire gli occhi, e lo avrei aspettato senza chiudere occhio. Non gli avrei permesso di svegliarsi mentre dormivo, non sarebbe stato giusto, io volevo… volevo soltanto… volevo soltanto lui, lui e basta, lui per tutta la vita. Mi sentivo così stupido, ma non riuscivo a fare nient’altro da quando l’avevo visto in piedi sul muro del ponte sopra il canale. Lo ricordo bene, si era voltato verso di me e mi aveva sorriso dolcemente, per poi lasciarsi scivolare indietro, nell’acqua. Nella caduta aveva urtato un battello, aveva battuto la testa e da allora non aveva più riaperto gli occhi. Ricordo le mie urla, il sorriso che aveva sulle labbra mentre cadeva e il sangue che usciva dalla ferita sulla testa e si disperdeva in acqua. Ricordo tutto perché dopo di lui, in acqua mi ci sono buttato io per riprenderlo. Sembrava così morto, molto più di come lo avevo davanti in quel momento. Spostai gli occhi verso l’elettrocardiogramma e tirai su col naso.
Tremilacinquecentoventidue. Tremilacinquecentoventitre. Tremilacinquecentoventiquattro.
E poi niente, il silenzio. Sgranai gli occhi: saltai in piedi di scatto e mi avvicinai al display dell’aggeggio, che con un “pi” troppo lungo segnava una linea verde prolungata. Iniziai a tremare, quando sentii correre fuori del corridoio, e voci allarmate. Tremai più forte, divisi le labbra fra loro e osservando il suo corpo morto urlai il suo nome così alto e forte da fare vibrare le pareti: lo urlai più volte, così follemente, e mi aggrappai al suo corpo spasmodicamente, invocando il suo nome e chiedendogli di non morire, era troppo presto. Ancora troppo presto…
« NO! NO! SVEGLIATI, TI PREGO, SVEGLIATI! »
Arrivarono i medici e mi separarono da lui a forza. Mi scaraventarono fuori della stanza mentre cercavano di farlo riprendere, di fargli riaprire gli occhi.
« NON MORIRE! NON MORIRE! » Lo urlavo, ero disperato. « NON FATELO MORIRE! NON FATELO MORIRE, VI PREGO, NON FATELO MORIRE! » Piangevo. Automaticamente le lacrime erano tornate a fare capolino sulle mie guance, e i miei occhi dolevano per quante lacrime avevano perso. Tremavo spaventato per quello che sarebbe potuto succedere di lì a pochi secondi, mentre il medico urlava “Libera!” e cercava di far tornare in vita lui, lui.. il mio lui.
Sbattevo i pugni contro la porta che mi separava dal ragazzo, il mio ragazzo, e mi feci male, così male che per un solo attimo pensai di poter archiviare il dolore che provavo al petto. Continuai con le ginocchiate, con tutta l’intenzione di sfondare la porta, ma non riuscii a farlo. Urlavo il suo nome: lo urlavo forte, fortissimo. Aveva sofferto tanto in vita, non poteva morire prima che io potessi riuscire a farlo felice, non… non poteva… era troppo presto per morire, troppo presto! Non poteva finire così, maledizione!
« APRI GLI OCCHI! TI PREGO! SVEGLIATI, VIVI! NON MORIRE, NON MORIRE, NON MO- » e qualcosa mi colpì alla nuca. Riuscii per un pelo a vedere l’infermiera reggermi, prima di perdere del tutto coscienza.
E in un attimo, non sapevo più chi ero, dove ero e che cosa stavo facendo.





   
 
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