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Autore: Ely79    05/06/2010    4 recensioni
Harry è Auror e vive a Grimmauld Place con la sua famiglia, ma il palazzo cade a pezzi e le memorie dei Black ingombrano ancora le stanze. Ginny, preoccupata per James e Albus e per la figlioletta in arrivo, decide di rivolgersi a chi può dar loro una mano.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James Sirius Potter, Nuovo personaggio | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Tavola 4 - Progetto preliminare
La sequela d’insulti attaccò puntuale all’apertura della tenda.
«Abominio! Orrore! Chi osa insozzare la mia gloriosa magione? Biechi Mezzosangue! Macchiare il mio antico blasone con la vostra sporca imperfezione! Ignominia! Indecenza della magia!»
Tutt’altro che impressionata, la donna schiarì educatamente la voce.
«Perdonatemi, milady. Sono dolente d’arrecare disturbo a vostra illustre signoria, che certamente anela solo un poco di meritata quiete»
Walburga le rifilò una delle occhiate assassine che un tempo era solita infliggere ai servi ed al maggiore dei suoi figli.
«Chi siete? Cosa fate nella mia dimora?»
«Permettete che mi presenti, o nobilissima. Mi chiamo Goldstein e sono un’Archimaga» rispose inchinandosi con eleganza.
«Archimaga?!? Sangue di Salazar! Da quando in qua alle streghe è fatto obbligo d’adempiere a simili basse occupazioni? Infamie da mentecatti maghinò!» strillò disgustata.
«Da quando i maghi calpestano ed usurpano impunemente il più alto dei discernimenti, mia signora: quello femminile. Ci costringono a levare la voce per essere udite, a metterci in mostra. Atto spregevole che in altri giorni non sarebbe stato tollerato. Suppongo comprendiate a cosa mi riferisco»
Si era documentata. L’altrettanto defunto marito era stato una figura di poco spessore, mero esecutore degli ordini impartiti dalla risoluta consorte. Donna di grande carisma ed alta istruzione, era sempre stata lei a gestire gli affari di famiglia, muovendosi nell’ombra del fantoccio Orion Black. Aveva sempre agito protetta da uno scudo invisibile, che la metteva al riparo dalle dicerie ed al tempo stesso la esponeva alle lodi della società. Far leva sul lato tradizionalista avrebbe potuto rivelarsi un asso nella manica.
«Non cerchi di blandirmi, non sono una sprovveduta. Non mi lascio incantare da chicchessia» ringhiò la matrona, dissimulando magistralmente quanto apprezzasse quelle velate lusinghe. «Goldstein, avete detto?»
«Sì, signora. Per servirvi»
«Voi non siete di Londra»
A quell’affermazione, gli occhi scuri della strega brillarono.
«No, madam, dite bene. Né londinese, né tantomeno britannica. La mia famiglia proviene da Hannover, in Germania» mentì spudoratamente. «Mi sono trasferita in Inghilterra solo alcuni anni fa»
In un vecchio carteggio aveva scoperto che quell’arrogante crosta di vernice aveva sempre avuto grande considerazione per le influenti stirpi magiche teutoniche. Un’omonimia provvidenziale quanto casuale le era venuta in aiuto, a sostegno delle sue frottole.
«Dunque, dovrei credere siate Purosangue
«Assolutamente, madam Black!» finse ancora, apparendo più sdegnata possibile dall’insinuazione. «Ardirei forse parlarvi, se non lo fossi? Sarei tanto villana da rivolgermi a chi mi sarebbe indubbiamente superiore?»
A Ginny scappò da ridere. Nascosta nelle scale che portavano alla cucina, ascoltava la strega venire a patti con la megera che per anni era stata l’incubo di tutti i visitatori. Era riuscita a convincere la Goldstein ad intervenire al più presto su quella scomoda presenza, spostandola in cima alla lista degli interventi. In realtà aveva dovuto attendere tre settimane per gustare quel momento: l’Archimaga aveva voluto predisporre un piano d’attacco che non lasciasse scampo al dipinto. Ginny non immaginava che per rimuovere in sicurezza un Adesivo Permanente occorresse l’assenso di chi l’aveva scagliato. Anche se questo era ridotto ad una pellicola pittorica zeppa di crepe. Senza quello, nessuna fattura avrebbe avuto effetto o peggio, ne avrebbe avuti di devastanti sul resto dell’abitazione.
Un ruolo importante lo giocò Kreacher, il quale si offrì di badare alla padrona per il resto dei suoi giorni. E dire che Hermione si batteva perché gli elfi non dovessero essere asserviti ad alcun padrone…
Finalmente, con un sinistro crepitio, la cornice si allontanò dalla parete lasciando scoperta un’ampia porzione di intonaco rosa antico, fresca come appena dipinta. La prospettiva di una crescente presenza di indegni Mezzosangue o peggio, di NatiBabbani, entro quelle nobili mura, aveva convinto la provata lady Black a spostarsi altrove: la camera dell’amato figlio Regulus. Per quanto battagliera e impavida, avrebbe potuto fare ben poco contro una massiccia occupazione. Gli urli da Banshee indiavolata non avrebbero respinto gli invasori. Nessuno la temeva e la rispettava come in passato. La promessa d’essere accudita dal suo eterno valletto, pronto a sorbirsi ogni genere di invettiva e di sopruso verbale, aveva fatto il resto.
Sostenuto dal domestico perché non urtasse, il dipinto imboccò le scale. Raggirata con le sue stesse armi, Walburga Black s’apprestava a sparire per sempre dall’atrio di quella casa.
«Allora?» domandò Ginevra, abbandonando il nascondiglio.
«Trovo inconcepibile vogliate destinarle un’intera stanza, quando un qualunque ripostiglio ben insonorizzato sarebbe stato sufficiente allo scopo» rispose Camille, togliendo della polvere dalla gonna.
«Ripostiglio? Se esistesse un modo per farla stare zitta e immobile l’avrei regalata a qualche museo anni fa!» ribatté stizzita.
«Destinazione appropriata» convenne perfida l’Archimaga. «Di certo qualcuno l’avrebbe scambiato per un eccelso esempio di ritrattistica di fine Settecento, magari della scuola di Anthony van Dyck. Immagino la dicitura: “Autore ignoto, Ritratto di nobildonna, olio su tela, 1780 circa”. Cielo, quanto sanno essere ciecamente entusiasti i Babbani per non accorgersi della magia…»

***

Bussarono e subito dopo, il volto sorridente di Francis apparve dietro la porta.
«Mi cercavi, capo?»
Harry detestava sentirsi chiamare a quel modo. Dai membri della sua squadra in particolar modo, perché tra di loro c’erano al massimo due o tre anni di differenza, in più o in meno. Non era il capo proprio di nessuno. Solo perché il gruppo seguiva le sue direttive ciò non significava che avesse un grado superiore. O meglio, era stato eletto Capitano, ma disapprovava le gerarchie. Erano appellativi inutili quanto i soprannomi affibbiatigli negli anni. Bambino Sopravvissuto, Eroe di Hogwarts, Salvatore del mondo magico, Capo. Assurdi.
Potter sollevò la testa dal documento che stava tentando di completare tra sforzi disumani. La burocrazia era la parte peggiore del lavoro di un Auror, e dire che Tonks l’aveva messo in guardia anni prima.
«Vieni, Lawson. Siediti» e indicò la poltroncina davanti alla scrivania.
«Ahi, brutta storia…» mormorò il collega, abbandonandosi con un tonfo sgraziato sul cuoio.
«Perché?»
«Mi chiami per cognome quando devi farmi una ramanzina, ma giuro che non centro niente» si schermì, levando in alto le mani.
«Con cosa non centri niente?» s’informò, temendo la risposta.
«Con qualunque cosa ti abbia raccontato Conway del suo… ritrovamento» disse, trattenendo un risolino.
«Quale… ah, lasciamo stare. Sbrigatevela tra di voi! Non voglio sapere che scherzi vi state facendo tu e quell’altro piantagrane»
«Piantagrane? Ma David è così simpatico! Come puoi…»
«Smettila adesso. Non è per fare spettacolo che ti ho chiesto di venire. Devo redigere la valutazione annuale del team»
Era ora di abbandonare la faccia dell’amico e indossare la maschera più odiosa del caposquadra. Detestava quella parte, ma rientrava nei suoi compiti.
«Mi devo preoccupare?» domandò Francis accigliandosi.
Quell’espressione severa lasciava presagire un discorso poco piacevole.
«No, non direi. Ma ci sono alcune cose di cui vorrei discutere con te»
«Mi devo preoccupare» sentenziò.
«No, Francis. Sono cose banali, niente di che»
«Allora perché vuoi parlarne?»
«Perché non vorrei peggiorassero, obbligandomi a licenziarti»
La frase, detta a bruciapelo per non essere trattenuta e addolcita, lasciò a bocca aperta l’altro, che rimase a dondolare sulla poltroncina per qualche istante prima di rispondere.
«Vedi che avevo ragione, capo? Mi devo preoccupare» ribadì, sfoderando un ghigno irriverente.
Spazientito dalla troppa leggerezza, Harry lo minacciò con la bacchetta.
«Preoccupati invece se questa sera andrai a casa camminando con le mani al posto dei piedi o peggio» lo avvisò. «Una delle cose di cui dobbiamo discutere è proprio questa tua… ehm… come posso dire?»
«Ilarità?» suggerì.
«Esatto. Non che ci sia qualcosa di male nel prendere le cose con un sorriso, anzi, è ottimo. Aiuta a non farsi trascinare troppo dalla serietà e dalla pericolosità di quel che facciamo. Spesso le tue spiritosaggini servono ad allentare il nervosismo mentre siamo in missione, sono una benedizione da quel punto di vista. Ma ultimamente la tua ilarità è peggiorata e parecchio. E non solo nel senso che le tue battute fanno schifo»
All’improvviso Francis divenne serio, cosa che Harry non s’aspettava. Era un cambiamento troppo repentino per uno come lui, sempre pronto a scherzare.
«Ritieni che possa influire negativamente sulle prestazioni mie e del gruppo?»
«Con l’andar del tempo, sì» ammise.
Perché diamine toccavano a lui quelle rampogne? Le odiava. Trovava insopportabile intimidire una persona, anche quando meritava una strigliata. I suoi obblighi verso il Dipartimento però lo spingevano a tenere quella linea: tutti credevano molto in lui e nei suoi colleghi, erano la miglior squadra del Ministero. Non avevano la possibilità di sgarrare come gli altri.
L’Auror si limitò ad annuire pensieroso, lasciando il suo superiore ancor più confuso. Di solito aveva una faccia da mascalzone impunito quando taceva, chiunque avrebbe capito che rimuginava qualcosa, ma in quel momento era esattamente l’opposto. Era solo un uomo che rifletteva sulla remota possibilità di perdere il lavoro. Un lavoro per cui si era impegnato a fondo.
«Okay. Prendiamo il Graphorn per le corna» sospirò, lo sguardo azzurro insolitamente torvo. «Se stai dicendo che devo darmi una regolata e devo stare al mio posto…»
«Calmati, Francis. Non dobbiamo discuterne ora» lo fermò, prima che partisse con un monologo.
Era già abbastanza indispettito dagli interminabili resoconti sulla fuga di Dimitri Miles che gli avevano consegnato. Libbre di inutili incartamenti che non avrebbero riportato in cella il criminale. Un’altra fiumana di parole l’avrebbe fatto impazzire del tutto.
«Ah, no?»
«No. Ne parleremo a cena, da me»
«Da te?»
Francis esitava. Quell’invito giungeva imprevisto.
«Esatto. L’ho fatto anche con gli altri quando ci sono stati problemi»
«Harry, hai la casa sottosopra per i lavori e vuoi organizzare una cena per me? Guarda che basta una Burrobirra al pub… Anzi, dovrei essere io ad invitarti a cena, per dimostrare la mia buona volontà, non credi?»
La proposta era gentile e sincera, ma colma di pericolose insidie.
«So da fonti certe che la tua cucina fa pena, per essere buoni»
Francis fu costretto ad annuire a denti stretti. Aveva toccato un tasto dolente e la cosa buffa era che lui gli aveva offerto lo spunto per arrivarci.
«Nigel, eh?»
«Già. Ha raccontato a tutti di quando l’hai ospitato dopo il litigio con Corinne e che l’hai quasi spedito al San Mungo per intossicazione alimentare. Preferirei evitare questa fine, sai, ho una famiglia da mantenere. Una moglie, dei figli, un elfo domestico…» considerò, sentendosi molto simile al suocero mentre lo diceva. «E comunque, ci sono sere in cui la cucina di Ginny ricorda da vicino quella di un pub»
«E se la trovo in serata giusta?»
«Quelle sono le serate giuste»
Non le faceva una colpa se era poco versata nelle arti gastronomiche. Appena terminata Hogwarts, sua moglie era stata ingaggiata dalle Holyhead Harpies, che aveva lasciato poco meno di tre anni prima, quando era rimasta incinta. Poi era nato James, e nel giro di pochi mesi si erano succedute la gravidanza di Albus e quella in corso. Con una coppia di bambini piccoli a cui badare, di cui uno fin troppo vispo, era già un miracolo che ricordasse quale stanza associare alla parola cucina.
«Quindi…»
«Spera che cucini Kreacher» concluse Harry, laconico.
Un quarto d’ora più tardi, Francis attraversò Long Lane, giungendo illeso sul marciapiede opposto. A quell’ora il traffico del rientro era denso come una pozione impazzita. Entrò sotto le arcate metalliche e variopinte dello Smithfield Market, s’infilò in una delle tradizionali cabine telefoniche scarlatte e raggiunse L’Unicorno Ubriaco. Il pub era semideserto: pochi maghi e streghe lo frequentavano a quell’ora.
«Egnogni, gnignagnàgno!» tuonò una sgradevole voce nasale.
Ad uno dei tavoli sedevano Marvin Truman e David Conway, suoi colleghi e migliori amici. Il secondo portava ancora i segni dell’improvvido ritrovamento di un Boletus Mollifer, meglio noto come Porcino Afflosciante. Lawson gliene aveva messo un pezzo nella giacca. Quando David aveva ritratto la mano dalla tasca, annusando la traccia bruna sulle dita, orecchie e naso avevano raggiunto all’istante le clavicole. Ora le orecchie erano quasi normali, mentre il naso, di tanto in tanto, si allungava di nuovo fino al mento, ciondolando da ogni lato.
«Ti ha dato del disgraziato» ridacchiò Marvin.
Dopo quasi due ore aveva imparato ad afferrare il senso delle frasi strampalate dell’altro.
«Immaginavo» abbozzò, accennando l’ordine all’inserviente.
Una bottiglia di Burrobirra ben fredda lo raggiunse rapido come un Boccino. I primi due ripresero a discutere della partita tra i Grodzisk Goblins e gli Appleby Arrows per la coppa europea di Quidditch, mentre un taciturno Francis beveva dalla bottiglia.
«Mi dispiace Dave, ho un po’ esagerato questa volta» si scusò ad un tratto. «Spero che Emily non se la prenda troppo se ti vede arrivare conciato come un Erkling»
I due lo guardarono stupiti.
«Che ti prende Law? Non gli hai mai chiesto scusa in cinque anni che stai con noi! E nemmeno a sua moglie, tra l’altro»
Lui non era in vena di parlare e si limitò a far spallucce, sorseggiando la Burrobirra.
«Ehi, gno gnono migna mogno» insisté l’altro.
Potevano anche scornarsi da mattina a sera sui suoi stupidi scherzi, mandarsi a quel paese ogni dieci minuti, ma Lawson era un buon Orco, difficilmente gli aveva portato rancore per più di un week-end.
«Dice che non è mica morto» ma Francis era troppo abbattuto per sostenere le sue tesi.
Restarono senza parlare per alcuni minuti, durante i quali Marvin e David seguitarono a lanciarsi sguardi interrogativi.
«Ghe voneva Bodder?» riuscì a domandare Conway, in un momento in cui il naso sembrò abbastanza stabile.
Si sentiva come se tutti i raffreddori del mondo fossero concentrati nella sua testa.
«Mi ha invitato a cena, mercoledì prossimo»
Truman si morse le labbra.
«Ahi, brutta storia»
«È quel che ho detto io» confessò Francis, totalmente depresso.
«Quante volte ti ho detto di andarci piano a fare il gretigno… oh, gno! Agnoa!»
Marvin scoppiò a ridere, vedendo il naso dell’amico tuffarsi precipitosamente nel boccale, interrompendo con eccezionale tempismo la ramanzina.
«Non ha detto nulla del fatto che sei distratto?»
«No, niente. Davvero vi sembro distratto?» nicchiò.
«Trovati una donna, imbecille!» sibilò rapido David, premendo le narici contro la faccia in un disperato tentativo di apparire normale. «Non hai una donna fissa da quando ti conosciamo. Quante ne hai cambiate? Una quindicina? Hai ventotto anni e sei uccel di bosco, ma almeno non vai a pagamento…» lo prese in giro il Serpeverde.
«Non mi serve una donna» obbiettò amaro.
«Giusto! Sei puro e casto come i gargoyle di Hogwarts… Ehi, quando mercoledì vai da Harry, potresti farti presentare quella tipa che gli sta sistemando casa!» propose Marvin.
Al giovane andò di traverso una sorsata.
«L… l’Archichimaga?» sputacchiò mezzo soffocato.
«Per favore, Marv, non dire cretinate» sbottò David. «È una importante, gira con quelli che contano. Mirerà a gente più altolocata di uno come noi! Magari se ha un’assistente, una segretaria, una galoppina… ma la Goldstein? Andiamo, sii realista! E poi in dieci giorni non c’è incantesimo che possa dare un aspetto decente a Francis!»
«E perché non dovrebbe interessarle Lawson? Spalle solide, gran lavoratore, vestito da pinguino dovrebbe fare la sua figura. E poi è uno stallone in astinenza… le donne farebbero la fila per un partito come lui» insisté Truman, dandogli una scarica di vigorose pacche sulle spalle che gli fece aumentare la tosse.
«Sì, partito. Nel senso “via di testa”!»
«Finiscila Dave! Potrebbe essere la donna della sua vita. Non mi ricordo che faccia ha, ma… »
«No!» tossicchiò ancora Francis, paonazzo. «Non se ne parla e comunque, il capo ha detto che se ne va sempre alle sei del pomeriggio, io devo essere là per le sette meno venti»

***

Sedeva sul pavimento da una decina di minuti. Accanto, un’ordinata pila di doghe di legno appena ritornate alle loro dimensioni originali. L’Encanto Ianus* stava agendo sull’orrenda boiserie tarlata, staccandola dalle pareti senza tanti complimenti. Una volta terminata anche la pulizia delle superfici soprastanti, avrebbe dato un autentico colpo di spugna alla camera padronale. Sarebbe stata un capolavoro: le due grandi finestre ad arco avrebbero illuminato il nuovo pavimento di quercia rossa, lustro come il ponte di una nave. La volta a specchio, con cui contava di sostituire entro sera il pesante soffitto a cassettoni con l’insegna dei Black, avrebbe alleggerito l’immagine d’insieme della stanza. Le pareti avrebbero riprodotto un paesaggio incantato di colline provenzali (scelto dalla signora Potter per fare un regalo al marito che tanto agognava un po’ di verde), mascherando l’ingresso della grande cabina armadio, illuminata da lampade stregate che avrebbero cambiato colore a seconda dell’umore di chi vi avesse messo piede.
A terra, sparpagliati al suo fianco, cataloghi, campionari e schizzi. L’arredo sarebbe stato fondamentale per il completamento dell’opera. Mobili dal design essenziale, pulito, contemporaneo. Niente fronzoli, volute barocche, putti e gnomi sparsi qua e là, come aveva suggerito quella campagnola della suocera. Camille riteneva impensabile che, nel Ventunesimo secolo, qualcuno appezzasse ancora quelle cianfrusaglie antidiluviane.
Si allungò, lasciando cadere la testa all’indietro. Gli occhiali le scesero un poco, così che sulle prime non riuscì a mettere a fuoco la sagoma variopinta che si stagliava contro la porta. Lo riconobbe un attimo dopo, quando l’inconfondibile scricchiolio di carta indicò l’ora della merenda.
Cercò di ricomporsi, pronta a scacciare per l’ennesima volta l’intruso. Perché nessuno capiva quanto il suo lavoro fosse complicato e delicato? E richiedesse calma e concentrazione anche quando era seduta immobile sul pavimento a riprendere fiato? Perché doveva sempre ribadire che voleva essere lasciata in pace? Dopo tutto le idee della signora Black non parevano prive di fondamento.
«Vattene» sibilò.
Avrebbe dovuto sentirsi spazientita dall’ennesima interruzione, in realtà era imbarazzata. Quando operava, Camille smetteva gli abiti raffinati con cui si presentava ai clienti in favore di altri più comodi e decisamente poco eleganti. Vecchi vestiti logori ed impiastricciati di avanzi di pozioni, pieni di strappi e troppo larghi per la sua figura esile. L’unica eccezione era stato per il distacco della matrona dell’ingresso: non poteva presentarsi da lei in tenuta da lavoro. Ma in quel momento, farsi vedere in quello stato con i capelli arruffati e le lenti degli occhiali piene di polvere, la metteva a disagio. Anche se a guardarla era un lattante.
James si limitava a fissarla, tenendo un grosso sacchetto sotto il braccio mentre nascondeva il suo sorrisetto da topolino dietro la merenda. Sembrava cosciente di quanto le sue apparizioni la innervosissero.
«Bitotto»
«Eh?»
«Bitotto!» e James allungò un pasticcino, conciliante.
Era perplessa a dir poco. Anche perché quello che le mostrava era uno scone**, non un biscotto come asseriva.
«P-per… me?»
Lui le andò vicino, il pacchetto sottobraccio mentre tendeva l’altra manina.
«Non l’hai leccato, vero?» indagò sospettosa.
Non si fidava di quel nanerottolo che sbucava da tutti gli angoli, peggio d’un fantasma indiscreto. Quando lo vide negare con decisione ed infilarsi in bocca un altro dolcetto, decise che poteva concedergli il beneficio del dubbio. E quella merendina, punteggiata di gocce di cioccolato, aveva un aspetto troppo invitante per essere ignorata. Specie considerando che aveva saltato il pranzo per convincere il quadro di quell’ottusa megera a levarsi dall’ingresso.
Mangiarono in silenzio, tenendosi d’occhio a vicenda.
«Ci vorrebbe qualcosa da bere» meditò Camille tra sé.
Stava per addentare l’ultimo boccone di scone, quando James, che l’aveva sentita, trillò a squarciagola:
«Chiiiccè! Chiiiccèèè!»
Con un flebile crack, l’elfo si Materializzò nella stanza.
«Il padroncino chiama Kreacher?» domandò stancamente la creatura.
Era la quintessenza della svogliatezza.
«Ittè! Pemmè e peattega» chiese altezzoso.
Voleva del the per entrambi. Recitava la parte del bravo padrone di casa, ospitale e premuroso. Chissà da chi l’aveva visto fare.
«Sì» sospirò affranto l’elfo, scomparendo.
«Lo tieni in riga, eh?»
«Io paddone! Chiccè fa»
Un’osservazione degna di un nobilissimo Purosangue. Strano che Walburga Black non avesse notato quanto quel bimbo corrispondesse ai suoi canoni di perfezione, dose di sangue misto a parte. Sicuramente l’avrebbe resa più malleabile.
«Non ricordo il tuo nome»
«Jeccijut» ciancicò con la bocca piena.
«Jec… oh, sì. James Sirius» ricordò, aggiustando una ciocca che le ricadeva sulla fronte.
«Ettu?» chiese.
«Cosa?»
«Ettu ti chiama ttega?»
Le occorsero un paio di secondi per tradurre la richiesta da quella lingua misconosciuta ad un idioma comprensibile.
«Se mi chiamo strega? No, non mi chiamo strega. Strega è un titolo, uno status, ed io sono una strega, casomai. Come tua madre» lo corresse. «Mi chiamo… Camille»
Se c’era qualcosa che la faceva sentire più imbarazzata che i suoi abiti da lavoro, era il suo nome. Le ricordava un’orrenda storia d’amore che sua nonna l’aveva obbligata a vedere quand’era bambina. La protagonista era una sua omonima, ma l’aveva sempre trovata una stupida oca incapace e svenevole. Non si assomigliavano affatto.
«Ca-mi-lllll» ripeté lentamente, riuscendo nell’impresa di non coniare una parola nuova.
«Splendido» pensò sarcastica. «Il mio nome lo sanno pronunciare persino i bambini!»

*Encanto Ianus: per la mitologia romana, Giano era un essere bifronte, simbolo della dualità.
**Scone: piccoli panini dolci.


Ben arrivata a Jaslyn e a tutti i lettori ancora anonimi! Coraggio, non siate timidi! Se state leggendo, un'idea ve la sarete fatta, no?

Per Circe: non importa se la recensione è breve! Mi fa piacere riceverla, per sapere cosa ne pensate di quel che leggete. Penso che i nostri eroi si siano cresciuti pur mantenendo i loro tratti caratteristici, così Hermione è sempre la saccente, Ron quello un po’ casinista… La mitologia e la storia trovo siano la giusta base per questa fic (e a quelle a sfondo magico ingenerale), visto che sono legati agli edifici cultuali più antichi e mistici.
Per Foolfetta: grazie per i complimenti. Gli Auror vivono per gran parte della giornata fianco a fianco, quindi la reazione da amiconi è in qualche modo inevitabile. Quanto alla Goldstein, pur essendo stata informata della storia del palazzo, lei cerca di trarne il massimo. E James Sirius… credo che in questo capitolo non si sia smentito! Ah, dimenticavo. Grazie per la recensione della one-shot!
   
 
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