Continuavo a correre, ma era come nei sogni: corri, corri e arrivi sempre troppo tardi.
Il treno andava troppo piano, le porte si aprivano troppo piano, le scale della stazione erano piene di gente nonostante fosse tardi.
Tutto sembrava muoversi contro di me.
 E io? Io non sapevo più cosa fare, arrancavo sulle scale, correndo e scivolando; dei ragazzi mi spinsero, urtandomi. Se solo avessero saputo si sarebbero scansati. C’era qualcosa dentro di me, qualcosa di importante, ma io non potevo gridare, non potevo.
Ancora pochi metri mi separavano da quella casa che avevo imparato a conoscere così bene ancora prima di scoprire la verità.
Con mano tremante infilai la chiave nella toppa del cancello. Inutile la sua imponenza, non sarebbe mai bastato a proteggerli contro quello da cui cercavo di metterli in guardia.
Il grande giardino che avevo imparato ad amare sembrava non avere mai fine, proprio in quel momento.
Li trovai in cucina, ridevano complici, come due fratelli, sorseggiando qualcosa.
Probabilmente gin, la loro bevanda preferita.
“Ce n’è un altro. Sa chi sono, voleva uccidermi”.
 I loro volti si fecero seri. Quando incontrai i suoi occhi marroni li trovai terrorizzati dalle mie parole.
La stanza cominciò a girare e le mie gambe eccessivamente molli per sostenermi.
Senza nemmeno accorgermene cominciai a scivolare per terra, ormai pronta allo scontro con il pavimento; ma un attimo prima qualcosa riuscì a prendermi, nell’ultimo barlume di coscienza fui in grado di vedere il colore degli occhi.
Azzurro.