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Autore: Melitot Proud Eye    06/09/2005    3 recensioni
[maxi-edit! 09/2011]
Post Bakuten Shoot Beyblade. I Demolition Boys sono pronti a ricominciare da zero grazie all'aiuto di Daitenji e della BBA; ma Vorkof e Hiwatari sono ancora liberi e il viaggio verso il Giappone finisce per trasformarsi in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. [Yuriy/OC]
Primi quattro capitoli classificatisi PRIMI al concorso STORIE IMCOMPIUTE indetto da Solly e giudicato da Kukiness.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Boris, Nuovo personaggio, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota: capitolo partecipante al concorso Storie Incompiute di Solly.






Capitolo II
Sulle silenziose ali della libertà





Salirono sull'aereo della nuova vita quattro giorni dopo; il maltempo s’era placato e nel cielo splendeva un sole acerbo come un limone. Per esser ormai svezzati dalle false speranze, trovarono quella partenza promettente. Era così facile ricominciare da capo?
«Siamo solo all'inizio» disse Sergej, entrando nel corridoio al seguito di Ivan. «C'è ancora molto da lavorare.»
Il ragazzetto grugnì, fermandosi a ispezionare l'area passeggeri. Il jet non era molto grande: si trattava di un mezzo privato della BBA, usato per gli spostamenti dei dirigenti e delle squadre; aveva però sedili spaziosi, di un pulito color crema, con tavolini di servizio a fronte. Quel giorno partiva a pieno carico.
«Una ventina di persone, hostess compresa» sentirono mormorare a Boris. «Facce note?»
«No.»
In quell'istante, dalle retrovie provenne una spinta d'incoraggiamento. Per poco Ivan non cadde, travolto dall'onda d'urto. «Hey!»
Sotto il bicipite di Sergej comparvero un occhio azzurro e un ciuffo rosso. ‹‹Ci muoviamo? Stanno aspettando noi.››
L'unica assistente di volo venne loro incontro, sorridendo. Parlava un russo passabile. «Benvenuti a bordo, ragazzi. Per di qua.»
Li condusse fin quasi in testa, fra sguardi curiosi, intimiditi od ostili, e indicò quattro poltroncine. Sul tavolino al centro del mini-compartimento c'erano altrettante buste bianche.
«Sono per voi. Il presidente avrebbe voluto accompagnarvi di persona, ma è stato trattenuto e si scusa; lo incontrerete a Tokyo: da lì sarete sotto la sua diretta supervisione.» Controllò l'orologio, facendo scivolare la coda di cavallo su una spalla. «Partiamo fra quindici minuti. Fate buon viaggio e, per qualsiasi cosa, chiedete pure.»
Yuriy annuì, restituendo la cortesia con un cenno del capo e sedendosi dalla parte del corridoio; poi vide che Ivan recuperava una busta servendosi dei piedi da papera e lo fulminò con gli occhi. Comportati in modo decente. Presa la propria busta, si rilassò contro lo schienale, quasi sprofondando.
«Visto? Siamo degli ospiti» disse, mentre il nanerottolo bofonchiava qualcosa «non degli infiltrati. Per cui, Boris, smetteresti di spiare dal bordo del poggiatesta? Devi cominciare a comportarti da persona normale. Rilassati, abbiamo preso la decisione giusta.»
Alla sua sinistra, il blader si voltò e lo fissò con espressione severa.
(Ironica. Era decisamente ironica.)
«C'è qualcosa che vuoi dirmi?»
«No, capitano.»
«Forse che sei già rilassato?»
«No, capitano.»
Forse che sei molto più normale di me? Storia vecchia.
«No, capitano.»
Inarcò le sopracciglia. Boris girò su se stesso e sedette, rispondendo con un sorriso invisibile. Yuriy strappò la busta di Daitenji, la capovolse e si fece cadere in mano un fascicoletto, soddisfatto.
«Saranno le istruzioni per l'uso del paradiso» commentò.

‹‹I signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture›› cinguettò un megafono. ‹‹L’aereo decollerà fra cinque minuti. Ripeto: i signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture…››
Le turbine accelerarono e il velivolo si spostò lentamente sulla pista di rollaggio. Yuriy gettò il fascicolo sul tavolino, pensieroso. Regole, orari, paletti; era inevitabile, ma sperava che il patto evolvesse in fretta. Voleva vivere, non prestare servizio. E non era sicuro di voler andare in una vera scuola.
‹‹Non male, comunque›› disse Sergej. ‹‹Sembra una cosa onesta.››
‹‹Sei matto?›› Ivan puntellò il piede contro una gamba del tavolino, storcendo il (grosso) naso. ‹‹Finiremo inscatolati come aringhe, fidatevi di me.››
‹‹Scommetto che tu sarai il primo›› disse Boris. «Il formato è quello.»
‹‹Hey, Mummia–››
Yuriy sospirò. ‹‹Smettetela e allacciate le cinture.››
‹‹Senti, Yuriy, non è colpa mia se–››
Per fortuna il jet accelerò, spiaccicandolo contro il sedile. A decollo avvenuto Ivan si era dimenticato litigio e preoccupazioni; come Sergej, scivolò presto in un sonno esausto, tutto contorto sul suo sedile. Yuriy poggiò la testa a una mano e il gomito al bracciolo, speranzoso.
Presto dovette aggiungere l’altra. Allungò le gambe. Chiuse gli occhi, sbatté le palpebre, le strizzò. Irrequieto, alla fine si tirò su e appiccicò la fronte alla piega laterale del poggiatesta, mentre un velo di sudore gli copriva la fronte. Si sorprese a spiare Boris, che fissava un punto indistinto della parete.
Se non altro aveva un compagno di sofferenze. All'insonnia cronica di Yuriy Ivanov – tutt'altro che un mistero, alla Borg – facevano buona compagnia le paranoie di Kuznetsov; l'amico non avrebbe chiuso occhio per tutto il viaggio, soprattutto se due di loro dormivano, impersonando la bella statuina finché non si fosse trovato in un luogo "sicuro". Per distrarsi, Yuriy si sporse sul corridoio e osservò gli altri passeggeri.
Grassi, magri, alti, bassi, un ragazzino, parecchi adulti; tecnici, ricercatori, in fondo al jet una ragazza coi capelli azzurri, che si chinava oltre il bracciolo per recuperare una rivista caduta. Un tipo cominciò a tossire, secco e fastidioso.
L'hostess gli chiese se voleva una tazza di tè.

Passarono sette ore.
Boris le contò a mente e, quando Ivan si svegliò con un grugnito, agitando le braccia, gli fece segno di star zitto. Dopo vari tentativi, la stanchezza aveva raggiunto anche Yuriy.
Il nanetto si osservò intorno, annoiato; recuperò un fazzoletto di carta e prese a tormentarlo, trastullandosi in modo inutile come al solito. Qualcuno discuteva, qualcuno tintinnava ridendo il cucchiaino nel caffè. Il primo vuoto d’aria fu improvviso.
Ivan gracidò e Sergej si svegliò di soprassalto. Quando guardarono Yuriy, i suoi occhi erano aperti. Si spostarono sull'oblò accanto a Boris, vigili, poi sull'assistente di volo. Senza una parola, il loro capitano si stirò e alzò.
‹‹Dove vai?›› chiese Ivan. «Potresti cadere e picchiare la testa! E non ti farebbe certo bene.»
Yuriy gli mostrò il medio al di sopra di una spalla; la pustola sghignazzò. Rise meno agli sballottamenti successivi.

"Senti"? "Ascolta"? "Mi scusi"?
«Signora?» disse, ricorrendo al suo giapponese.
In fondo al jet, vicino all'ingresso e ai servizi, c'era un piccolo atrio con banco, stipetti e telefono di servizio; la hostess era seduta su un seggiolino e si versava un bicchiere di aranciata. Quando lo vide staccò la schiena dal muro color crema e sorrise, posando il bicchiere. «Posso esserti utile?» rispose, nella stessa lingua.
Lui esitò, incerto sul modo di porsi. Non era abituato all'educazione. «Voglio... vorrei solo sapere quanto manca all'arrivo.»
Uh, perché aveva detto quello? Se lo ricordava. Accennò un sorriso a uso della donna, poi, ottenuta la risposta, rimase a fissare le bottiglie allineate sul banco. Stava per afferrarne un paio quando la sua voce lo bloccò.
«Ci sono aranciata, cedro, gazzosa, semplice acqua e un aperitivo leggero, quello rosso. I liquori sono off-limits» aggiunse, facendogli l'occhiolino.
Invece di irritarlo, il gesto disperse la tensione; era stato privo di artificio.
«Il cedro andrà bene» rispose. E allungò una mano.
«Ve li porto io» rise la donna, fermandolo. «E' il mio lavoro. Tu va' pure a sederti, o sgranchisciti le gambe.»
Batté le palpebre, mentre lei apriva stipetti, prendeva bicchieri e apriva bottiglie. «D'accordo... grazie
Approfittò del viaggio per usare il gabinetto; una volta dentro, studiò il pomello d'ottone che aveva in mano e si chiese perché diavolo avessero usato un materiale così caro. O forse non era caro. Forse Vorkov aveva sballato il loro sistema di valori sotto ogni punto di vista. In piedi davanti al lavandino, fra raffinatezze che lo mettevano a disagio, si lavò la faccia e si guardò allo specchio.
Dove ha trovato la forza di sorridermi?, si chiese, pensando alla hostess.
Aveva un aspetto da paura.
Si asciugò con uno strappo di carta e uscì. La donna era già dai suoi compagni di squadra; si avviò con calma, osservandosi intorno: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Tappezzerie color panna, tessute in tanti piccoli rombi come ricambi da beyblade – che ostentazione. Sulla sinistra due ragazze (testa viola e testa celeste, quella della rivista), più avanti uno smilzo, un pelatone, un ragazzino col naso a carota e–
Strap. Gli si era aperto il velcro di uno stivale.
Vagamente irritato, s'inginocchiò e cominciò a tirare le fibbie. Notò che la tipa azzurra lo fissava e, alzatosi, ricambiò con perplessità. Lei distolse lo sguardo. Beh?
Nel suo cervello stava prendendo forma una qualche sorta di confronto, possibilmente tagliente, quando qualcosa lo distrasse. Dalla sua cintura veniva un bagliore. Aggrottò la fronte, sganciando Wolborg.
‹‹Che ti prende?›› mormorò.
Sembrava che Boris e Sergej avessero lo stesso problema. Di punto in bianco, altri passeggeri balzarono in piedi per vedere fasci di luce irrompere dai loro beyblade. Wolborg entrò in risonanza con quella pulsazione, sempre più rapida. Era come se... rispondesse a qualcosa. Yuriy indietreggiò di un passo.
Le bestie sacre stavano cercando di uscire.
«Che diavolo–»
Credeva di conoscere il sistema in grado di influenzarne tante in una volta sola.
Wolborg, no!
I bit-beast si liberarono nel piccolo spazio del jet con un boato, turbinando verso l'alto. Yuriy perse l'equilibrio; una tizia gli cadde addosso, bloccandogli la visuale. Si alzarono grida isteriche, la sirena di un allarme e un vortice di cartacce.
Sentì Boris imprecare. L'aereo iniziò a vibrare, inclinandosi.
«Che cazzo succede?!» ruggì.
La donna riuscì a tirarsi in piedi grazie a un sedile e sbarrò gli occhi. «Oh mio Dio!»
Il tornado di bestie sacre aveva trapassato la carena, creando una voragine che risucchiava tutto. Yuriy restò a guardare la bocca dell'inferno che si allargava, sdraiato sulla schiena, e sentì cuore e stomaco scivolargli nei piedi; Wolborg... no, Wolborg era ancora con lui! Lo impugnò. Forse il catalizzatore, ovunque fosse nascosto, era tarato per un numero inferiore di bersagli; forse il lupo era riuscito a resistere al richiamo. Non importava – non aveva tempo per questo. Doveva fare qualcosa!
«Boris! Sergej!» chiamò, inginocchiandosi. «Ivan!»
La sua voce si perse nel tornado. Uno scossone lo scaraventò contro la parete, buttandogli addosso un altro peso. Una delle due ragazze del fondo, stavolta – gli strillava nell'orecchio con quanto fiato aveva in corpo. Caddero bicchieri, computer, bagagli a mano.
«Levati!»
Dov'erano gli altri?
La pressione lo schiacciò, togliendogli il respiro, e l'inclinazione del jet mutò ancora. Stavano precipitando.
Uno sfortunato incidente, avrebbero scritto i giornali; cedimento strutturale. Sordo, cieco, maledisse Vorkov e gridò il nome di Wolborg.

Alcuni costoloni rocciosi emersero dalle nubi e si frapposero fra la terra e il jet, colpendolo, rallentandone l'impeto. Con un coraggioso sforzo, il pilota seppe riprendere il controllo quel tanto che bastava per presentare al suolo la pancia. All'impatto, i carrelli d’atterraggio si spezzarono. Il velivolo strisciò avanti, spaccato in due, ruotando su se stesso. Porgeva il fianco sinistro quando l’altopiano finì.
Di colpo, tutto tacque. I telai scricchiolarono.
Attraverso le nebbie di una concussione, Yuriy sentì un fiotto di sangue scendergli sugli occhi. Il pavimento era rosso quando si deformò.
Con una forza irresistibile, il jet privato della BBA Corporation rovinò nella gola sottostante e si schiantò di muso, accartocciandosi come un giocattolo.


   
 
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