Dove anche l'alba diventa sera.
«Oi,
taisa».
«Che
vuoi, marmocchio».
«Pensavo…».
«Il
tuo misero cervello riesce a pensare?».
Il
sorriso.
Ricordava
benissimo che lo sciocco ragazzino aveva sorriso e lasciato che una
breve pausa
di silenzio intramezzasse, per alcuni secondi, quell’assurda
conversazione,
sbucata dal nulla e con sua sorpresa. Credeva fosse ripiombato in uno
dei suoi
stravaganti sonni profondi.
«Pensavo.
E se… per caso venissi catturato, sbattuto in una bella
prigione di massima
sicurezza, processato e condannato a morte?».
E
lui si era zittito, di colpo – non per qualche vendicativo
intento di rimarcare
una risposta che sarebbe dovuta seguire. Non ci fu alcuna replica. Il
silenzio aleggiava
per la camera, la cenere si accumulava, divorando con lentezza il
sigaro che
stringeva fra i denti, e Ace continuava a sorridere, tranquillo, quasi
avesse
appena condiviso una battuta divertente e frivola. Non seppe che dire,
e parve
che Ace se ne fosse reso conto.
«Era
soltanto un’ipotesi, taisa», rispose infatti. E
poi: «Non prendertela, dormiamo».
Senza
aggiungere altro, si sistemò su di un fianco, gli occhi
fissi sulla sua mascella
squadrata, e si fece più vicino, tanto che il vecchio junsho
poté sentirne il
respiro leggero e caldo sul collo. Lo infastidiva. Con la sua
vicinanza, i suoi
sospiri, i suoi ghigni. E con le sue parole senza senso. Non
riuscì ad
allontanarlo, però: gli avambracci rimasero immobili,
incrociati sul ventre, e
le mani inerti, mentre lasciava che un braccio di Ace raggiungesse il
suo petto
per circondarlo in un gesto pigro e apparentemente accidentale.
«Taisa».
Uno
sbuffo di fumo grigio si sollevò dalla sua bocca. Sciolse
l’intreccio delle
braccia per posare il sigaro sul portacenere sistemato sopra al
comodino.
«Non
riesco a dormire».
La
stretta di Ace, che con quel brusco gesto era scivolata via dal suo
corpo,
ritornò prepotente a chiuderlo in un abbraccio.
«Stupido
marmocchio».
L’abbraccio
si fece più stretto, quel corpo nudo più vicino e
rovente.
«Sai
che è solo con te che posso comportarmi
così?».
«Ti
permetto troppo, allora».
Con
un gesto rapido, Ace si tirò su e si adagiò sopra
di lui, leggero e attento,
portando il viso così vicino a quello del junsho che questi
riusciva ad
intravedere, persino nella semioscurità, ogni più
tenue lentiggine costellasse
il naso del giovane comandante.
«Non
smettere di farlo».
«Ti
sei dato ai sentimentalismi, Portuguese», asserì
in un borbottio, sentendo la
punta affusolata del suo naso sfiorargli la bocca. Spostò la
testa di lato,
quasi nel tentativo di schivare un’ondata di tepore dalle
sembianze familiari,
ma che tuttavia mai era riuscita ad inghiottirlo. Non fino a quel punto.
«Taisa,
mi permetteresti di fare una cosa che non ho mai fatto
prima?».
Ancora
una volta, non fu capace di fermarlo, né con movimenti duri
né a parole. Ace
allungò il collo e chinò il capo, premendo le
labbra sottili contro un angolo
della sua bocca. Il calore lo invase e si diramò con
un’intensità quieta per
tutto il corpo e con la stessa dolcezza della mite brezza di mare.
«Portuguese»,
disse. L’intenzione era quella di rimproverarlo per aver
mostrato eccessiva
imprudenza, eppure la voce parve spezzarsi e sgretolarsi in un
gutturale
mormorio.
Ace
sorrise di rimando. «Smoker», rimbeccò
con lo stesso tono, facendogli il verso.
«Fammi
dormire».
«Chiedo
scusa». Reclinò la testa, rifugiandosi
nell’incavo del suo collo, non
accennando altri movimenti né mostrando alcuna intenzione di
volersi spostare.
«Senti,
bamboccio, non credere di essere un peso piuma. Vorrei dormire in
pace».
«Ho
una strana sensazione, taisa. Lasciami fare, solo per questa
volta».
Brontolò
in modo asciutto parole incomprensibili, visibilmente corrucciato. Ma
lo lasciò
stare, addormentandosi entro breve, la carezza dei suoi capelli a
sfiorargli la
guancia.
Avrebbe
giurato, più tardi, nel sonno, di aver sentito un pizzicore
doloroso sul collo,
all’altezza della cicatrice. Al risveglio, Ace non
c’era più e in quel punto,
che ora prudeva fastidiosamente, era comparsa una bruciatura dalla
forma
eccentrica. Neanche col passare dei giorni accennava a sparire; solo il
dolore
si ridusse, fino ad estinguersi del tutto. Ritornò due
volte, nella lunga,
inutile attesa del suo ritorno: la prima nei giorni che precedettero
l’annuncio
della cattura del comandante della seconda flotta di Whitebeard,
l’ultima negli
istanti antecedenti alla sua morte. Quando vide quel corpo arso dalle
fiamme
spegnersi all’improvviso e venire inghiottito da nuvole di
fumo bianco – che,
per una volta, non gli appartenevano –, avvertì
un’ultima fitta, più intensa
delle altre. Poi, il marchio che Ace gli aveva lasciato quella notte di
tanti
mesi prima, scomparve senza lasciare traccia. Ciò che
restò, fu soltanto la
sensazione di gelo, ora amplificata, che lo aveva accompagnato fino a
Marineford.
N/A.
Dovrei
scrivere la tesina. Fra meno di dieci giorni ho gli esami di
maturità. Invece sto
qua a scribacchiare cose, forse, inutili. Spero sia l’ultima, fino a quando non
finirà questo periodo
infernale.
Smoker/Ace,
la mia prima. SPOILER per chi non ha letto il 574. Titolo preso da una canzone di Fabrizio De Andrè, "Inverno" - ringrazio maya_90 per avermelo ricordato (: