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Autore: Ely79    26/06/2010    3 recensioni
Harry è Auror e vive a Grimmauld Place con la sua famiglia, ma il palazzo cade a pezzi e le memorie dei Black ingombrano ancora le stanze. Ginny, preoccupata per James e Albus e per la figlioletta in arrivo, decide di rivolgersi a chi può dar loro una mano.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James Sirius Potter, Nuovo personaggio | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Tavola 7 - Confronti
Come ogni venerdì sera, la squadra di Harry si ritrovò in piscina a fine turno. Quella sera mancavano due persone all’appello: Ron e Nigel. Il primo era corso a casa dalla moglie, come lui stesso diceva, per farle da elfo domestico per ogni maledetta quisquilia. Il secondo aveva avuto a che ridire con una porzione di fish&chips, dove la cosa più sana era risultata essere il cartoccio che conteneva il cibo.
Fare due bracciate prima del week-end era un modo per sciogliere le tensioni accumulate durante la settimana e tenere unito il gruppo, facendo leva sul cameratismo sportivo. Harry aveva mutuato l’idea dalle riunioni post-partita delle Harpies. Ginny diceva che se la quadra andava tanto bene in campionato era anche merito di quei piccoli momenti di relax.
Chiacchieravano del più e del meno, delle famiglie, delle partite di Quidditch, delle inevitabili spese da fare, dei progetti per le ferie.
Uscirono quando erano appena passate le diciotto e trenta. L’aria di marzo era gravida di pioggia e costrinse il gruppo a salutarsi rapidamente, Smaterializzandosi ciascuno a casa propria.
Harry sollevò gli occhi sulla ruvida facciata di Grimmauld Place. Si domandò a che punto fossero i lavori e quando sarebbe riuscito a mettersi in testa che alle file di mattoni smangiati corrispondesse casa sua. Lo fece ben sperare il profumo di calderotti appena sfornati che lo accolse entrando.
La porta si chiuse, cancellando la lunga lama di luce che arrivava fin sulla strada.
Un lampione sembrava prossimo ad emettere l’ultimo bagliore. Auto passarono senza fretta.
Un vecchietto uscì dal numero nove, seguito da un bastardino altrettanto datato. Caracollavano lenti, attraversando pozze di luce cerea. Il cane procedeva con muso sul marciapiede, starnutendo ad ogni odore nuovo. Passarono sotto il lampione morente e nello stesso istante la luce mancò con un crepitio. L’uomo imprecò a bassa voce contro il governo, trascinando il ritroso animale verso il palo successivo. Il Babbano non poteva sapere che la bestiola non puntava al praticello urbano o all’albero che vi sorgeva, bensì a chi era vi Occultato.
«È da parecchio che non ho bisogno della scorta, Francis»
Trasalendo, l’Auror ricomparve. Harry era alle sue spalle, le braccia incrociate e l’aria di chi attendeva una doverosa spiegazione.
«Ma… come…?»
«Sono andato sul retro e mi sono Smaterializzato qui» rispose semplicemente.
«Mi avevi visto?»
«Ti ho sentito comparire dietro di me, quando sono arrivato. Vigilanza costante» motteggiò divertito.
«Già, vigilanza costante»
In quel momento la porta del numero dodici si aprì e ne uscì l’Archimaga. Lawson si fece piccolo contro il tronco per non farsi notare. Vedendo il Babbano sul marciapiede, molto vicino a dov’era lei, Camille sollevò il bavero e finse d’avviarsi verso King’s Cross. L’ondeggiare della mantella seguiva il ticchettio ritmato delle scarpe di vernice. Teneva la voluminosa borsa stretta sotto il braccio, camminando un po’ sbilanciata sulla destra e strappando un sorriso a Francis. Svoltò rapida all’incrocio con Saint Chad’s Street. Probabilmente si era Smaterializzata dietro l’angolo del palazzo. Andata. Anche quella sera.
Tornò a guardare Harry. Gli occhi verdi brillavano d’attesa e curiosità.
«Posso spiegarti tutto» esordì con un sorriso vagamente ironico, ma lui l’interruppe:
«Senti, Ginny è da sua madre e all’angolo c’è un pub. Ti va di parlarne davanti ad una birra Babbana

***

Conobbi Camille al secondo anno di Hogwarts.
Ammetto di non essere stato uno stinco di mago: da buon Grifondoro amavo cacciarmi nei guai ed un giorno, mentre me la davo a gambe dopo aver dato manforte ai gemelli -sì, Harry, quei gemelli-, andai ad infilarmi in un ripostiglio. Non sentii il rumore che fece il pavimento, ero interessato ai passi di Gazza nel corridoio.
Quando pensai d’averla fatta franca, udii qualcuno singhiozzare. Fu allora che mi accorsi di avere i piedi infilati in qualcosa che scricchiolava. La bacchetta illuminò una ragazzina rannicchiata nell’angolo. Era spaventata a morte ed al tempo stesso furibonda. Quello che avevo calpestato, e di cui teneva un pezzo fra le mani, era un modellino a cui stava lavorando.
Mi urlò di sparire, di andarmene e cercò di spingermi fuori. Non volevo finire in punizione, la McGranitt non me l’avrebbe perdonata, e non so come la convinsi a farmi restare.
«Cam Goldstein» si presentò, una volta calmata.
«Cam?»
«Camille» disse, con gli occhi bassi.
Quel nome la faceva vergognare, lo trovava troppo melenso.
«Francis Lawson»
Mi raccontò che si rinchiudeva lì dentro per costruire dei diorami, delle piccole immagini tridimensionali. A Corvonero si prediligeva il lavoro intellettuale, i lavori manuali erano guardati con sdegno. Quella che avevo distrutta era l’aula di Storia della Magia, con tanto di studenti ai banchi e riproduzione simil-ectoplasmatica del professor Rüf. L’avevo presa per una di quelle stupidissime case di bambola, roba da femminucce. Mi offrii di aiutarla a ricostruirla per scusarmi. Glielo dovevo. In fondo, grazie al fatto di non avermi cacciato dal nascondiglio, avevo scampato un castigo.
Chi avrebbe mai detto che saremmo diventati amici? Un Grifondoro ed una Corvonero. Amici. A dodici anni, poi. Di solito noi ragazzi cominciamo a considerare quelle dell’altro sesso un po’ più avanti. E non perché ci piace studiare con loro. Io e la mia amica invece adoravamo studiare insieme, chiacchierare e costruire miniature.
Mentre lavoravamo ad altre rappresentazioni, Camille mi insegnava i rudimenti dell’Archimagia, man mano che lei stessa li apprendeva dai libri che studiava nel cuore della notte. Amava l’idea di creare qualcosa che fosse utile per gli altri, sfidando le leggi del tempo e dello spazio. Aveva una passione viscerale per l’apprendimento. Sarebbe stata un’osservazione banale per una semplice Corvonero, ma Cam non era né semplice né banale. Era una Natababbana, aveva scoperto il nostro mondo a otto anni per merito di un incantesimo che aveva involontariamente praticato dopo una lite con i suoi. Il Ministero le era piombato in casa nel giro di mezz’ora per sincerarsi dell’accaduto e comunicare ai Goldstein che la loro figlia minore era una strega. I suoi genitori erano operai di Manchester, gente abituata alla realtà Babbana, fatta di fatica e cassa integrazione, la cui prospettiva più lungimirante era arrivare a fine mese senza debiti. Non sapevano sognare, la magia li disgustava. La trattavano come una squilibrata. Un discorso già sentito, eh capo? Già, proprio come i tuoi zii.
«Gli faccio schifo» confessò una volta. «Dicono che con questi trucchetti da quattro soldi diventerò un’accattona. Hogwarts è la cosa migliore che potesse capitare. A me e a loro»
Durante le vacanze andava a stare dalla nonna, in famiglia non la volevano. Ci scrivevamo spesso, raccontandoci dei compiti, dei progetti, di cosa ci aspettava a scuola.
Al quinto anno, quello del Tre Maghi, Camille divenne strana. Perlomeno ai miei occhi. Dopo un’estate divisi mi sembrò diversa, cambiata, maturata. Quando le parlavo, le parole mi restavano incastrate fra i denti e se era lei a parlare, non capivo più niente. Mi si azzerava il cervello. Anche quel gesto nervoso con cui sistemava gli occhiali sul naso mi mandava in brodo di giuggiole.
Ero innamorato di Camille, anche se restavo mascherato da amico. Il suo solo amico.
Glielo dimostrai al Ballo del Ceppo. Non avendo molto denaro, alla prima uscita a Hogsmeade andò da Stratchy and Sons, dove comprò un abito da poche falci che volle risistemare da sé. La cosa la tenne impegnata fino alla mattina del Ballo, quando le chiesi con chi sarebbe venuta. Non avevo osato farlo prima, perché l’avevo vista parlare con il Prefetto di Corvonero ed ero convinto venisse con lui. Dall’espressione sgomenta, capii che quel dettaglio le era sfuggito. Presa dal confezionamento dell’abito, aveva dimenticato di procurarsi un accompagnatore.
«Meno male che ci sono io a mettere i Colloportus dove passi tu! Usi troppi Alohomora» ridacchiai mettendole un braccio sulle spalle.
Non le dissi che, roso da quell’inutile gelosia, avevo accettato l’invito di una sua compagna, che non prese affatto bene l’essere piantata in asso a poche ore dalla serata. Fu un errore colossale e a pagarne lo scotto fu Camille. Quella sera mi allontanai per prendere da bere. Ero felicissimo, stava andando tutto una favola, ma quando tornai al tavolo, quella stava sbraitando contro Cam. Tirò fuori tanta cattiveria da far invidia ad una Serpeverde.
«E questo sarebbe un vestito di gala? Si vede che l’hai fatto tu, come tutte quelle scatolette di cui vai tanto fiera: sembra un mucchio di stracci lerci! Voi NateBabbane siete delle mentecatte, nemmeno un elfo domestico l’indosserebbe. Non conoscete neppure il significato del termine elegante! Dovete ricorrere a simili sotterfugi per colpire i nostri ragazzi e portarceli via! Non avete alternative, sfruttate la psicologia: mostrate loro quanto siete derelitte per elemosinare un invito, impietosite la gente per riuscire in qualcosa perché non avete le possibilità economiche e culturali adatte» sghignazzò, strattonandola tanto forte da strappare le decorazioni dalla manica. «E dovresti essere una strega? Sei una miserabile!»
Cam fissava le perline cadere. Era pallidissima. Il suo lavoro distrutto in un attimo. Cercai d’intervenire, prendendo una buona dose d’insulti. Speravo passasse qualche docente per mettere la cosa sul giusto binario, ma erano tutti irreperibili. All’ennesima invettiva nei suoi confronti, Camille le rifilò un ceffone tanto forte da farla indietreggiare. Restò a fissarla in silenzio per qualche istante, prima di dirle che a contare erano i fatti, non le sue stupide parole. Poi se ne andò. Cercai di fermarla, inutilmente. Provai per più di un’ora a convincere quella dannata maniglia di Corvonero a farmi entrare. Dovetti arrendermi, nella speranza di vederla l’indomani sull’Espresso. Niente da fare: era sparita. Pensai fosse rimasta a Hogwarts, troppo avvilita per tornare a casa.
Le mandai un biglietto, a cui rispose giorni dopo. Riconobbi la carta: era quella che usava quando stava dalla nonna. Andai a trovarla. La signora mi accolse educatamente, anche se traspariva una vaga insofferenza nei miei riguardi. Pure lei storceva il naso alla parola magia, ma amava troppo la nipote per farle una colpa del suo essere strega. Cam tornò con due grosse borse della spesa. Non s’aspettava di vedermi almeno quanto io non ero pronto a vederla vestita a quel modo. Portava un paio di scarponi fradici di neve, un vecchio giaccone da uomo sopra una tuta troppo grande ed un cappello di lana calato fin sugli occhi. Con gli occhiali appannati mi parve improvvisamente fragile e triste.
Andammo a fare due passi nella periferia di Manchester. Parlai per ore come un idiota, senza venir interrotto una volta. Di solito aveva argomenti da approfondire, correzioni da fare, obiezioni da portare avanti,… il suo silenzio era spaventoso. Cercammo un punto dove chiamare il Nottetempo, ma non mi decidevo a tirar fuori la bacchetta per tornare a casa.
«Ma che c’è? Cos’hai Cam?»
«Niente»
«Niente è troppo poco» cercai di sorridere. «Non sarai ancora giù per il Ballo?»
«Perché non mi hai detto che eri impegnato?»
La sua, più che una domanda, sembrava un’accusa.
«Perché saresti rimasta sola»
«Non mentire. So quando dici una cosa per un’altra»
Ero un libro aperto. Mi scopriva sempre, anche quando lo facevo per farla ridere o farle un dispetto.
«Senti, ho sbagliato, ma ci siamo divertiti, no? Prima che arrivasse quella, intendo»
Tacque, continuando a fissare la neve sporca.
«Non tornerò a Hogwarts» buttò lì, quasi fosse un normale saluto.
Non ci credevo, non poteva averlo detto.
«Perché tornare? A che serve?»
«Ma sei impazzita? Il freddo ti fa male»
«No, sono sicura di quel che dico Francis. Quella ragazza aveva ragione. Per diventare Archimaga non basta il talento. Servono gli agganci giusti, le conoscenze ed il denaro per gli strumenti, per i libri, per tutto. E io… non ne ho»
Aveva gli occhi umidi.
«Ma io sì, lo sai. Faremo la Goldstein&Lawson, ricordi?»
Accennò un debole sorriso. Avevamo fantasticato tante volte di mettere su uno studio associato dove lei si sarebbe occupata dei progetti chiavi in mano e io, beh, di quel che avanzava. Come Archimago sarei stato una schiappa.
«Non esisterà mai. I tuoi non mi sopportano»
«Sono teste dure, ma cambieranno idea»
«No, Francis. Lascia perdere. Io lascio perdere. Non era destino che diventassi una strega. Finiamola qui, nessuno deve più perder tempo per colpa mia»
«Tu stai male! Ma senti quel che dici?» urlai, scuotendola per le spalle.
Quando mi guardò, era rassegnata. Le lacrime le scorrevano sulle guance, eppure trovò il modo di sorridere. Merlino, era così infelice!
«È stato bello sognare, Francis. Illudersi di avere un futuro nel mondo magico, ma ho perso tutte le motivazioni. Non ho nulla che mi spinga ad andare avanti. Nessuno ha mai creduto in me, né lo farà in futuro. Sarà sempre così»
Quelle parole mi ferirono. Il mio starle vicino non aveva significato niente? Era così ottusa da non aver capito cosa provavo? Decisi senza pensare che fosse ora di mettere le cose in chiaro, una volta per tutte e in pieno stile Grifondoro. La baciai con tanta foga da farle quasi male.
«Adesso ce l’hai un motivo» borbottai allungando la bacchetta.
Mentre salivo sul Nottetempo, mi voltai. Era ancora lì, imbambolata, le lenti un po’ scese sul naso.
«Prova a non farti trovare al nove e tre quarti e giuro che vengo a prenderti e ti trascino a scuola anche se ti trovo nuda, parola mia!» minacciai.
Alla ripresa delle lezioni stavamo insieme. Camille non mostrò più tentennamenti, era tornata quella che avevo sempre conosciuto: intelligente, allegra, fiera del suo essere NataBabbana. L’anno successivo fu difficile da sopportare con la Umbridge e la sua squadriglia di cretini, ciò nondimeno riuscivamo a trovare modi per stare vicini. Io e la mia cornacchia. Era il soprannome che le avevo dato. Avevamo ripreso con i modellini, cimentandoci in edifici veri e propri. Ci diplomammo l’anno successivo, quando morì Silente.
I miei sono Purosangue, non di linea diretta come i Malfoy, tuttavia ligi all’idea che un mago possa sposare una strega solo se questa non annovera parenti Babbani. Per cui la mia relazione con Camille non era vista molto bene. Per niente. Finii diseredato. Camille perse la nonna pochi giorni dopo i M.A.G.O. e insieme a lei l’ultimo legame con la sua famiglia.
Avevamo dei progetti per la nostra vita: io sarei diventato Auror come sognavo fin da piccolo, lei sarebbe entrata in uno studio di Archimagia. E poi una casa, dei figli, una famiglia nostra.
Andammo a Valencia, Saint Malo, L’Aia, ma la guerra imperversava e venivamo guardati con sospetto. Trovavamo lavori che perdevamo sistematicamente dopo un paio di settimane, un mese se eravamo fortunati. Eravamo sempre in viaggio ed il poco denaro nelle tasche si riduceva rapidamente. Tiravamo avanti a fatica. Infine, alla caduta di Voldemort, ci trasferimmo in Irlanda.
Affittammo un appartamento fatiscente, stretto fra palazzi altrettanto malconci. Ricordava quello in cui aveva vissuto sua nonna. Dalle finestre vedevamo i tetti di una fabbrica dismessa. Risparmiavamo su tutto: cibo, vestiti, Polvere Volante, riscaldamento. Persino sull’acqua della doccia. Chi arrivava aspettava l’altro per lavarsi. Non era tanto male, dopotutto aveva dei risvolti piacevoli.
Entrai all’Accademia degli Auror a Dublino. Camille si barcamenava da uno studio all’altro, lavorando sodo e studiando la notte, per sentirsi dire che “aveva troppa esperienza per quel ruolo” e non potevano tenerla: avrebbero dovuto pagarla il giusto, che per loro significava sempre uno sproposito. Quando tornava, fingeva che non le importasse del licenziamento, d’aver sfruttato al massimo quell’esperienza per migliorare. Mentiva. La notte piangeva, tentando di nascondersi, ma la scoprivo ogni volta. La consolavo, facevo lo stupido per farla ridere, dicevo che sarebbe andato tutto bene.
Nel frattempo, per non gravare sulle nostre misere finanze -destinate all’acquisto di strumenti per l’attività di Cam-, trovai un paio di lavoretti: uno al porto come sorvegliante di carichi magici, l’altro come cameriere.
Ci vedevamo pochissimo e quando riuscivamo era solo per pochi minuti, prima che la stanchezza ci facesse crollare. Eravamo sempre più distanti e stanchi, al punto tale che non mi accorsi di quel che le accadeva. Cam era riuscita ad ottenere un posto nello studio di Al Borders, un vate dell’Archimagia contemporanea. Finalmente intravedevo un po’ di felicità nei suoi occhi: pur pagata un pugno di Billywig, si sentiva coinvolta in prima persona nel lavoro. Stava in piedi fino all’alba per preparare progetti, modellini, documenti. Parlava di Al come di una persona magnifica, che le stava aprendo gli occhi sulla realtà della professione, sui suoi aspetti più peculiari. E la mia gelosia tornava a galla, trascinata dalla stanchezza e dalla fame. Il denaro non bastava mai e sembrava perdere di valore ogni giorno.
Le cose precipitarono nel giro di una settimana. Persi il lavoro come cameriere, bucai di netto l’esame per diventare Auror e mi licenziarono al porto perché sorpreso a dormire in servizio. Quando rimisi piede in casa, la vidi provarsi un abito nuovo di zecca. Era fin troppo evidente che doveva essere costato una fortuna. Le chiesi spiegazioni e disse che era stata un’idea di Al. Le serviva un guardaroba migliore per far colpo sui clienti. Avrebbe dovuto considerarlo uno strumento di lavoro. Sapevo che doveva aver meditato a lungo su quell’acquisto, che non era stato facile per lei sprecare quella somma, ma fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Lavoro, lavoro, lavoro! Solo questo esiste per te!» gridai infuriato. «Ne ho abbastanza! Io non conto più nulla! Quello che faccio non conta! C’è solo il tuo stramaledetto lavoro! Ogni cosa è in funzione del tuo lavoro!»
«Tu non capisci! Per me è importante!»
«Importante? Io dovrei essere importante per te! Io! Ma non te ne frega niente! Sono solo il cretino che si spacca la schiena per farci sopravvivere! Ti servo solo per pagare i conti! Se non ci fossi, saresti tornata dai tuoi anni fa, con la coda tra le gambe! Avresti rinunciato ancora! “Nessuno crede in me perché sono una povera NataBabbana!”. Ecco cosa avresti detto!»
«Sei arrabbiato perché sto riuscendo nel mio settore mentre a te è andata storta! Non è certo colpa mia se non sei stato in grado di superare quell’esame!»
«Già, non è colpa tua! È colpa di quest’imbecille che pensava di contare qualcosa per te! Invece conta meno di una bacchetta rotta!»
Stavo dando i numeri e lei ci mise del suo, ricordandomi quanto Al la stimasse come persona e come professionista. Ci accusammo a vicenda di qualunque sciocchezza ci venisse in mente, rivangando discussioni morte e sepolte sotto le mura di Hogwarts. Non mi rendevo conto di quanto anche lei fosse stanca e disperata. Fingevo di non sapere quante volte mi aveva ceduto il suo piatto, inventando scuse assurde perché dovevo avere un po’ di forze in più per l’addestramento e lei taceva sui piccoli aggeggi che le avevo regalato per il lavoro e che avevo sottratto di nascosto dalle casse al porto. Eravamo amareggiati e frustrati, ad entrambi mancavano gli occhi per vedere in quali condizioni versassimo.
«Ricordati solo questo, Camille: resterai sola per la tua ossessione del lavoro!»
Uscii sbattendo la porta. Fuori, Dublino era piena di sole e d’allegria. Io avevo voglia di ubriacarmi e vomitare.

***

Sbuffando, Francis si allungò sul divanetto, giocherellando con la bottiglia.
«Tornai dopo qualche mese. Ero diventato Auror, mi ero rimesso in sesto. Credevo di sapere dove avevo sbagliato e che lei fosse pronta a perdonarmi. Ma quando arrivai, Camille se n’era andata. Nessuno dei vicini seppe dirmi dove, neppure il suo capo. O meglio, capa. Si può dire capa?»
«Non credo»
«Beh, ad ogni modo Al era Albertina Borders, che mi fece quasi sbattere dentro per tentata aggressione» e scolò il resto della birra con una smorfia. «Cam non lasciò niente, un biglietto, una Strillettera, un buco nel muro. Nulla. Pensavo non l’avrei mai più rivista. Sono rimasto a Dublino quasi un anno prima di chiedere il trasferimento qui. Ci avevo messo una pietra sopra ed ecco che prima il suo nome, poi lei tutta intera, saltano fuori. Pensare che ero riuscito a scordarla!»
«Dici sul serio?»
Francis lo guardò interrogativamente, tentando di sviare la domanda. In realtà aveva capito benissimo.
«Durante la guerra speravo che Ginny mi dimenticasse, che si rifacesse una vita, ma sai anche tu com’è andata a finire» ridacchiò, mostrando la fede nuziale.
«Riaccalappiato» ghignò.
«Già. Non mi ha dimenticato come speravo. E ho motivo di credere che la cosa valga anche per te. Vuoi fare come Ginevra, non è così?»
Lui si girò, ordinando un’altra bottiglia.
«Francis?» insisté Harry, coinvolto nella faccenda tanto quanto sua moglie.
«Stavo cercando un modo convincente per dire no»
«Però il tuo è un sì, vero?»
L’Auror provò a tergiversare ancora, a far spazientire il superiore, ma alla fine dovette rispondere.
«Vero» sbuffò. «La rivoglio. Ma so già che mi farà morire, la mia cornacchia»
«È molto probabile»


Ben arrivata (o arrivato?)  a 2424.
Ribadisco l'invito a tutti i lettori: come sempre attendo con ansia i vostri commenti. Tutto è utile per migliorare!
Per LaMiry: dunque, a scanso equivoci: per quel che riguarda i rapporti con Elder, erano solamente lavorativi; Hermione lavora al Ministero all’Ufficio Rapporti con le Creature Magiche, come dichiarato dalla Row; Dobby invece… beh, se hai letto i libri dovresti conoscere il suo destino. Se non è così, preferisco non spoilerare oltre. Non avrei nemmeno dovuto dirti di Hermione! Grazie mille per i complimenti.
Per Foolfetta: beh, immaginavo che la parola cornacchia avrebbe suscitato qualche perplessità, tuttavia spero che ora sia più chiaro che non era un’offesa. E che sia più chiaro anche quel che è accaduto nel passato di Francis e Camille.
Per Circe: che posso farci? Adoro lasciare un po’ suspense in chi legge. Credo che Hermione abbia continuato a battersi per i diritti delle creature magiche meno fortunate, a prescindere dal suo lavoro da adulta. L’ho scritto anche in altre due mie fic (come ben sai) e nessuno mi toglierà quest’idea!
Per 2424: grazie. Spero che la cadenza settimanale sia sufficiente…
   
 
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