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Autore: SunVenice    26/06/2010    7 recensioni
Il governo mondiale ordina una strage oltre la Red Line, tre ragazzi sono costretti ad un doloroso esodo per recuperare almeno un pezzo della propria vita, e due mondi, da anni separati, si incontreranno sulla Grande Rotta, svelando un segreto che nessuno avrebbe mai voluto venisse divulgato. "Vuoi sapere chi sono?"
La storia continua dopo quasi tre anni di assenza! (psss! è anche ON HIATUS,perchè? Perchè sono masochista!)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Barba bianca, Marco, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
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Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 6 –parte seconda-

Atto 6, scena 8

Dire che Monkey D. Garp era furibondo sarebbe stato un eufemismo di prima categoria. I suoi muscoli gonfi e tesi, ora perfettamente visibili attraverso la stoffa bianca della divisa miracolosamente ancora intatta, stavano pulsando come non mai ad un ritmo che pareva seguire il suono dei suoi denti che stridevano ogni qualvolta serrava con più forza la mascella.

Tutti sulla nave del temuto e rispettato vice-ammiraglio si erano irrigiditi sul ponte, posti sull’attenti in attesa dell’imminente scoppio che avrebbe segnato l’inizio di un clamoroso sfogo da parte del loro superiore. Ed era proprio questo pensiero a far lacrimare silenziosamente gli occhi dei più giovani e tremare impercettibilmente  Kobi ed Hermeppo, costretti come al solito a stare in prima fila rispetto agli altri, essendo degli allievi del marine.

Non sarebbe stata una bella esperienza. Non lo era mai. Vero. Ma quello alla quale stavano per assistere andava ben oltre un semplice ruggito. Garp non si sarebbe calmato molto presto: quando si era svegliato dal suo attacco di narcolessia non c’erano state parole per descrivere la sua espressione nel vedere la nave del rosso ferma ed accostata accanto all’immensa imbarcazione di Barbabianca.

I pugni continuavano a tremargli violentemente al solo ricordo di quella visione assurda, offuscata dai postumi dell’inaspettata dormita.

Che doveva fare? Aveva clamorosamente fallito nel suo tentativo di intercettare quel moccioso sai capelli rossi ed adesso si trovava lì, in piedi sulla polena della sua stessa nave a guardare i risultati del proprio fallimento, con quell’orrenda bandiera nera dalle tre cicatrici che gli sorrideva beffarda, prendendosi gioco di lui.

“S-signore…” osò sussurrare Kobi con le labbra che gli tremavano per la paura “il … il R-rosso ha, m-esso b-bandiera b-bianca, s-signore. ” balbettò sotto gli sguardi impietositi dei suoi compagni e quello non meno terrorizzato di Hermeppo, grondante di sudore.

“E-e si s-sta accostando a-all-a Mo-moby-..”

LO SO …. 

Quella sorta di grugnito fuoriuscito dalla gola del vice ammiraglio ebbe il potere di congelare la spina dorsale di tutti i presenti sulla nave e Kobi si zittì immediatamente, tendendosi come una corda di violino, immediatamente imitato dal suo compagno di addestramento.

Una scintilla di pura follia brillò negli occhi di Monkey D. Garp, anticipando un ordine che, oltre a rendere sordi per una buona manciata di minuti, Kobi ed Hermeppo, avrebbe steso più della metà della ciurma, tanto sarebbe stato impregnato di Haki.

 

Atto6, scena 9, Arioso della perla

Davanti a me la porta dell’infermeria era stata appena chiusa a chiave.

Intrappolata, bloccata.

“Ma perché?!” mi lamentai dando qualche colpetto con un pugno il legno della porta, sperando che questa si riaprisse. E che altro potevo fare?

Penelope e Betty mi avevano praticamente segregata dentro la mia camera, liquidando le mie lamentele con un paio di “Mi dispiace, Momo-chan”, prima di girare senza alcuna pietà la chiave dentro la toppa della serratura.

Mi sentii una lacrimuccia fare capolino dall’angolino di uno dei miei occhi. Proprio adesso dovevano far saltare fuori una chiave? Io non volevo rimanere chiusa lì dentro!

Mi guardai nervosamente attorno, studiando con fare agitato quello che, a parte il mio letto, componeva l’arredamento della stanzetta diventata dal giorno del mio risveglio la mia abitazione fissa.

Era colma di fili, aggeggi a lucine inquietanti e, sopra una mensola posta a metà tra dei flaconi di medicine disinfettanti e garze c’erano dei … coltelli …

Non so perché, ma mi venne spontaneo distogliere lo sguardo, focalizzando al meglio delle mie possibilità le striature del legno della porta.

Non mi piaceva quella situazione. C’erano troppe cose che non capivo: il comportamento di Marco in primo luogo e in secondo quello delle infermiere.

Il biondo mi aveva tirato dentro la mensa così velocemente che avevo a malapena avuto il tempo di scorgere il cappello di Ace, prima di venire portata via da Penelope Betty e Carol. E la cosa non mi lasciava tranquilla.

Ritornai alla mente a quelle strane figure che erano apparse dirigendosi proprio verso di noi.

Mi imbronciai, assottigliando inconsciamente gli occhi.

“Fatemi uscire!” piagnucolai, alzando all’improvviso la testa, ma ancora una volta ottenni il silenzio come unica risposta.

“Sob.” Dissi facendo ciondolare sconsolata la testa verso il basso, per poi alzarmi e farmi cadere sul materasso morbido e freddo della mia brandina.

La mia mano destra incontrò qualcosa di leggermente ruvido e leggero, diverso dalla stoffa trapuntata della coperta. Lo guardai, girando la testa incuriosita e, dopo un attimo di stupore, mi venne da sorridere.

Accanto a me, abbandonato sul letto con grazia confusa stava un semplicissimo vestito di cotone con le spalline strette e la scollatura quadrata, accostata da un paio di pantaloncini che dovevano arrivare più o meno a metà coscia.

Sospirai un po’ sollevata ed un po’ dispiaciuta.

Mi avevano fatto un vestito su misura.

Lo presi con le dita, facendo scivolare via con un fruscio dalla superficie un poco più ruvida ed usata della trapunta.

Lo soppesai per un po’ e poi ne tirai leggermente i lembi, constatandone la leggerezza e la resistenza.

Accidenti, e dire che mi avevano fatto tanto penare per farmi indossare la loro divisa…

Decisi di indossarlo senza troppi pensieri e mi spogliai dei vestiti larghissimi che mi avevano fatto da vestiario fino a quel momento. L’aria fresca e tagliente della stanza mi colpì la pelle nuda facendola rabbrividire di riflesso, mentre sistemavo con cura i vestiti da uomo che avevo tenuto prima. Stavo per afferrare il vestito bianco quando la mia attenzione fu attirata dal mio stesso braccio.

La mia bocca si spalancò di poco, non credendo a quello che stavo assistendo sulla mia stessa pelle: laddove proprio ieri avevo controllato lo stato pietoso delle mie piaghe dovute alla forte insolazione, non solo la pelle si era cicatrizzata perfettamente, ma, dove rimanevano ancora pochi millimetri prima che la pelle si richiudesse del tutto … luccicavo.

O meglio. Erano gli ultimi squarci sulle mie braccia a luccicare, quasi avessi avuto delle piccole pagliuzze gialline in mezzo alle ferite.

“Ma che…?” balbettai , facendo per toccarmi con una mano quello strano fenomeno, prima di saltare letteralmente su letto della spavento, udendo un improvviso ringhio far vibrare l’interno della mia cabina. Mi attorcigliai alla bene e meglio sotto le coperte, tirandomele con le mani tremanti sopra la testa. Che cos’era stato quell’…urlo?

 

Atto 6, scena 10

Salendo sulla Moby, Shanks il Rosso aveva fatto letteralmente una strage. No, forse non proprio letteralmente, ma c’era andato molto vicino.

Sul ponte, riversi di faccia con la schiuma alla bocca, erano crollati quelli che per primi si erano parati di fronte all’imperatore che altro non aveva fatto, dacchè aveva messo piede sulla grande nave dello stimato avversario, che camminare e sorridere spensieratamente, con in viso la stessa espressione che avrebbe assunto qualsiasi altra persona che stava facendo visita ad un carissimo amico di vecchia data.

Di tutt’altra opinione però erano invece i superstiti della sua venuta che, squadrandolo in cagnesco gli auguravano come minimo di inciampare sui propri piedi pur di vedergli scomparire dalla faccia quel sorrisetto da schiaffi.

E di certo Marco non era da meno, anche se stava osservando con apparente imparzialità l’haki del rosso far crollare uno dopo l’altro i membri della sua divisione, lasciando in piedi solo quelli con più sangue freddo.

Accanto a lui Ace sorrideva divertito a quella scena ed il biondo si accigliò di conseguenza, non capendone il motivo.

“Ti diverte la cosa?” chiese, ricevendo un sorriso malandrino da parte del moro, che si abbassò di riflesso il cappello sugli occhi.

“Abbastanza.” Disse quello senza che le proprie labbra abbandonassero la piega che avevano assunto.

In una situazione differente Marco avrebbe chiesto ulteriori chiarimenti sull’insolita reazione del fratellino, ma la sua mente era occupata da ben altre preoccupazioni.

Tipo, il motivo che aveva portato Shanks il Rosso a piombare da loro nel bel mezzo della notte e chiedere un colloquio con il babbo.

Ora i due imperatori, l’uno di fronte all’altro guardandosi intensamente come due leoni, erano entrambi sul ponte principale confrontandosi silenziosamente, ma in modo palesemente intuibile da come l’aria si stava facendo tremendamente pesante, a fitti colpi di Haki.

Barbabianca sfoggiò uno dei suoi larghi sorrisi.

“Sembri stanco, mocciosetto.”

“Ahaha, bhe, diciamo che sono stato piuttosto occupato nelle ultime ore.” Ridacchiò, allargando ancor di più le proprie labbra in un sorriso che anticipò il dissolversi di quella strana cortina pesante ed irrespirabile che era diventata l’aria. Molti sul ponte di ritrovarono a sospirare sollevati, capendo che il breve confronto tra i due imperatore fosse appena finito.

L’imperatore rosso di rilassò notevolmente, arrivando non solo a spaparanzarsi comodamente sul ponte, ma anche a slacciarsi dalla cinta la sua fedele sciabola, poggiandosela di fianco, sottintendendo che sì, le sue intenzioni erano amichevoli, ma che nulla gli avrebbe impedito di difendersi, anche in quella situazione di evidente svantaggio.

“Io l’ho sempre detto che il rosso è completamente pazzo.” “Concordo.” Disse qualcuno tra l’equipaggio sottovoce, facendo ridacchiare Ace ed accigliare ancora di più Marco.

I grandi occhi di Newgate vagarono ancora per un po’ sulla figura piccola ma insidiosa del proprio rivale, senza mai abbandonare la piega che le sue labbra avevano assunto.

“Tsk. Sempre il solito arrogante.” tuonò poi all’improvviso affrontando apertamente gli occhi gioviali di Shanks “Non solo ti presenti senza preavviso, disturbando la quiete dei miei figli oltre che la mia.”

E qui tutto l’equipaggio, tra cui molti erano quelli assonnati e prossimi a cedere al dolce ed ipnotico richiamo della branda, avrebbe volentieri affiancato le parole del babbo con un bel coro di imprecazioni ed esclamazioni nei confronti del rosso,… ma no, non era il caso di rendere quel colloquio ancor più teso del necessario.

“Ma hai anche la sfrontatezza di chiedere asilo sulla mia nave, senza portare nulla in cambio e per di più dopo esserti portato appresso un equipaggio di marine!!” la voce dell’imperatore bianco sferzò l’aria come un rombo che preannuncia una tempesta e molti furono quelli che sentirono un gelido tremore percorrere la colonna vertebrale fino a rizzare le punte dei capelli.

In quel momento sarebbe bastata una parola sbagliata da parte di Shanks per scatenare il finimondo. Nel vero senso della parola.

“Che posso dire? È stato più forte di me.”

Eppure la risposta non tardò ad arrivare.

La leggerezza con la quale Shanks aveva risposto al babbo fece per poco crollare a terra Ace dalle risate. Il moro, sotto le occhiate stranite degli altri comandanti, si teneva in quel momento la pancia con una mano e con l’altra tentava di nascondersi il viso, calcando il più possibile il cappello sugli occhi.

Adorava quel rosso. L’aveva preso in simpatia dal giorno in cui era riuscito a scovarlo e a dirgli grazie per aver salvato Rufy e, in quel momento, vedendolo alle prese con il babbo, giustificandosi spensieratamente con una scusa così banale e sincera, sentiva di ammirarlo ancora di più.

Ma le cose non erano così semplici. I suoi occhi scuri si indurirono di poco mentre, dopo aver ritrovato la solita spensierata compostezza, osservava il padre ammutolire indispettito alle parole del Rosso.

Con un colpo di reni scese dal parapetto, facendosi strada a medie falcate verso il centro del ponte guadagnandosi le occhiate ben più che stranite dei suoi fratelli.

Aprì bocca per dire qualcosa, alzando in braccio in direzione del rosso, ma qualcosa lo interruppe, lasciandolo stordito in meno di un secondo.

“DIRIGETE LA NAVE VERSO LA MOBY DIIIICK!!!”

Pugno di fuoco rimase un attimo in silenzio e stordito come i suoi compagni, tenendo la mano ancora sospesa a mezz’aria, mentre sentiva sul collo la fastidiosa sensazione di venire punzecchiato da qualcosa… un presentimento.

Quella voce…

Per un attimo impallidì, ma solo per darsi subito dello stupido e ridere di sé stesso e delle sue folli idee. Non era possibile.

“Ops.” Disse Shanks, ruotando la testa in direzione del fianco della nave, dove si poteva vedere la polena dell’imbarcazione del Pugno puntare nella loro direzione. “A quanto pare il vecchio Garp si è svegliato prima del previsto.” Concluse sorridendo sbarazzino, rivolgendosi poi verso Barbabianca, meno che mai in quel momento incline a rispondere ai suoi sorrisini fanciulleschi.

Dietro di loro, intanto, Ace era diventato bianco come un lenzuolo.

Garp. Vecchio Garp, aveva detto il Rosso. Quanti Garp potevano esistere al mondo che facevano i Marine?

Un fitto strato di sudore freddo ricoprì interamente il volto del moro, mentre pregava che di vecchi Garp ne esistessero almeno un centinaio nella Rotta Maggiore e che, oh santo patrono dei pirati, quello che aveva appena urlato con la potenza di un Re dei Mari imbestialito non fosse suo nonno.

“Ohi, Ace. Che ti prende?” Lo punzecchiò con un dito Satch, non capendo cosa potesse essere successo al fratellino per ridurlo in quello stato. Ammetteva che anche lui c’era rimasto un po’ stordito di fronte a quella sorta di muggito apocalittico, ma non credeva che avrebbe avuto tanto effetto sul moro.

Il biondo, non ricevendo alcuna risposta, scoccò un’occhiata di intesa a Marco che come lui si era mobilitato per recuperare il più giovane, guadagnando però dall’altro nient’altro che una lieve alzata di spalle ed uno sbuffo.

La Fenice guardò accigliato come suo solito la nave ammiraglia avanzare verso la Moby, divorando a poco a poco la distanza che le separava. Soppresse un grugnito esasperato.

Che situazione assurda.

Poi, l’immagine di Momo, chiusa nell’infermeria ed in preda al panico più totale a causa di quel ruggito, lo colse improvvisamente, facendogli sobbalzare il petto per la preoccupazione.

Con un poco di fatica, si impose però di calmarsi, schiacciando quella sgradevole sensazione sotto un paio di respiri profondi.

Non era il momento di perdere la testa.

 

Atto 6, scena 11, Arioso dell’usignolo in fuga

Finii di sistemarmi il vestito addosso, rimanendo sotto le coperte. Le braccia mi tremavano ancora un poco a causa della paura provata poco prima e ci misi un bel po’ prima di trovare il coraggio di riemergere da sotto le lenzuola del letto.

Scivolai lentamente lungo il fianco della branda, accucciandomi accanto ad esso con il cuore pulsante in gola, e con gli occhi sbarrati e pronti a percepire il più piccolo segnale di pericolo.

A pensarci bene sembrava che fossi un esperta in materia.

Non sapevo cosa fosse stato quel suono di poco prima, ma non me la sentivo ancora di alzarmi sulle mie stesse gambe e, anche se avessi voluto, non sarei riuscita comunque ad andare da nessuna parte, rinchiusa com’ero nella stanza.

Le spalle mi vibrarono ancora un po’ mentre gattonavano incerta sul pavimento, dirigendomi vero la porta dell’infermeria.

“C’è nessuno?” squittii con la voce ridotta ad un filo sottile dalla paura.

Le mie mani si poggiarono imploranti sul legno dell’uscio e io rimasi a guardare quella crudele serratura rimanere ferma e muta, ma solo per un attimo, prima di accigliarmi e cominciare a guardarmi attorno più interessata a quello che mi stava attorno che a quello che ci sarebbe potuto essere.

Non avevo alcuna intenzione di rimanere in quel posto un minuto di più. Volevo uscire. Dovevo uscire. Sentivo chiaramente di doverlo fare, quasi nella mia testa trillasse un campanello di allarme.

Una sorta di sesto di senso.

I miei occhi caddero casualmente sulle stesse mensole che poco prima mi ero ripromessa di non guardare più.

Coltelli e altri oggetti metallici e sottili scintillavano sinistri a pochi metri da me.

E un’idea mi balzò alla testa.

Sottili. Metallici.

“Trovato!” sussurrai, alzandomi di scatto ma solo per ricadere sul pavimento a causa del tremore che ancora continuava a scuotermi le ginocchia. Mi accigliai dandomi della stupida, scoccando un’occhiata furiosa alla mensola che era diventata la mia meta.

Anche se può sembrare folle, più in là avrei ricordato il mio tentativo di raggiungere il ripiano ed afferrare almeno un coltello per forzare la serratura della porta come la prima grande sfida della mia vita.

Le mie mani infatti, non appena si chiusero attorno al freddo metallo di un coltellino, sembrarono tremare più di prima e la consapevolezza di quello che stavo afferrando sembrò portarmi sull’orlo di farmi andare in tilt il cervello. Qualcosa dentro la mia testa urlava di lasciare quel piccolo aggeggio e risultava piuttosto persuasiva, vista la forte nausea che cominciò a torcermi lo stomaco.

Tirai un lungo e liberatorio sospiro di sollievo quando, dopo svariati tentativi, la serratura della porta scattò sotto la pressione precaria della sottile lama del bisturi.

Mollai immediatamente la presa sul coltello, lasciando che cadesse tintinnando sul pavimento in legno, e mi affrettai a lasciarmelo alle spalle, affacciandomi cautamente dalla porta, controllando che non ci fosse nessuno in giro. L’idea di venire beccata da Betty subito dopo non mi allettava affatto.

A dispetto di quello che pensavo però il corridoio era deserto. Nessun tipo di rumore, fatta eccezione per il lieve scricchiolio delle travi che, oscillando alla spinta del mare sotto la grande barca, rendeva il tutto ancora più inquietante.

Mi mordicchiai il labbro inferiore.

Dov’erano finiti tutti quanti?

 

Atto 6, scena 12

Il passo pesante degli scarponi di Marshall D. Teach echeggiarono pigramente tra le mura legnose della nave, ritornando ovattate alle orecchie sporche ed appena otturate di cerume del padrone, senza però riuscire a distrarlo dai suoi loschi pensieri, mentre, man mano che sulla sua strada si faceva sempre più vicina l’infermeria, il suo sorriso irregolare e marcio si ampliava a vista d’occhio.

Nella mano destra, in netto contrasto con le unghie scure e la pelle pelosa e bruna del dorso, una corda sottile e bianca come latte, quasi nuova di zecca, oscillava languidamente verso il pavimento.

L’arrivo del Rosso era stato provvidenziale, dovette ammettere Teach. Non si sarebbe mai aspettato di vedere la nave di quel piantagrane apparire all’orizzonte in un periodo di relativa calma come quella.

E per di più di notte! Pensò allargando inconsciamente il proprio sorriso.

Un’occasione perfetta. Se fosse stato in rapporti migliori con Shanks il Rosso, l’avrebbe ringraziato dal più profondo del cuore.  Quasi gli doleva di avergli inferto quella cicatrice sull’occhio sinistro durante il loro primo ed l’ultimo scontro.

Nah. A pensarci bene non se ne pentiva affatto.

Un pollice rugoso carezzò con riverenza il materiale liscio e quasi setoso di quella corda che aveva tirato fuori poco prima da uno dei pochi cassetti della propria cabina. Già si immaginava l’espressione che quella piccola ninfetta avrebbe fatto nel vederlo entrare nella sua stanza e ritrovandosi nel giro di pochi istanti legata come un delizioso pacchetto regalo.

Oh, bhe. Almeno quella era la sua visione delle cose. Non era molto sicuro che la piccola avrebbe condiviso il suo pensiero con un corda ben stretta attorno al proprio collo ed ai propri polsi, impedita così di compiere qualsiasi mossa avventata.

Ma in fondo, che gli importava?

Il suo sorriso fu però spento in un istante nel notare, finalmente giunto a destinazione, un piccolo ed irritante inconveniente. Spalancò del tutto la porta dell’infermeria guardandovi sconcertato all’interno.

Vuota. Assolutamente vuota. Solo un bisturi abbandonato sul pavimento e i vestiti del comandante Marco, indossati dalla piccola, poggiati ordinatamente sul letto.

Ma della sua preda nessuna traccia.

Un ringhio rabbioso gli brontolò nella giugulare, mentre si precipitava nuovamente nel corridoio con gli occhi scintillanti di rabbia. Il suo sguardo stralunato saettò da una parte all’altra del corridoio, alla disperata e furiosa ricerca di un piccolissimo segnale che gli indicasse dove quella ragazzina fosse andata.

Poi dei passi. Provenienti dalla sua destra.

Leggeri. Incerti. Cauti.

E il sorriso di cui molti avevano terrore tornò trionfante a scoprire la sua dentatura irregolare.

 

Atto 6, scena 13, Arioso fuggevole

Camminavo lentamente lungo il corridoio, fortunatamente non ancora del tutto buio grazie ai pochi lumini rimasti accesi sulle pareti.

Ero riuscita a darmi un po’ di coraggio ed ad avventurarmi fuori dalla mia stanza, eppure, quella stessa sensazione di pericolo imminente non mi aveva ancora abbandonato. Anzi. Sembrava accentuarsi man mano che procedevo verso la scaletta che mi avrebbe portato sul ponte.

Tenevo le mani strette al petto, torturando nervosamente il tessuto latteo del vestito, pensando che forse sarebbe stato meglio tornare indietro.

L’immagine di quell’enorme serpentone nero e del sangue zampillato dalla sua ferita mi colpirono improvvisamente, bloccando la mia camminata.

E se a provocare quell’urlo fosse stato un altro di quei bestioni? Che cosa avrei potuto fare io?

Di nuovo il ricordo di Ace e Marco occupati a sostenermi ed a proteggermi a costo della loro stessa vita mi crollò addosso, appesantendomi le spalle proprio quando la scala del ponte si trovava a due passi da me.

Il mio sguardo vagò sulle venature del pavimento che, sotto i miei piedi nudi, ondeggiavano sinuose, ricordandomi il mare sul quale stavo inconsapevolmente navigando e dal quale ero stata tratta in salvo giorni addietro.

Salvata. Costantemente. Sempre.

La mia sembrava essere un’abitudine. E l’odiavo. Sentivo chiaramente di odiarlo.

Feci un passo indietro, ma la mia schiena si imbatté in qualcosa di strano che mi fece rimbalzare leggermente in avanti.

La sensazione di pericolo era tornata a farsi sentire, in quel momento più forte di prima e, finalmente sveglia dalle mie riflessioni, mi girai di scatto, rabbrividendo nel vedere dietro di me la forma di una persona, un uomo forse, con il volto completamente oscurato e dotata di una mole rotonda ed imponente.

Sbarrai gli occhi nel vedere, dal nulla di quel viso invisibile, comparire la sagoma di un sorriso deforme che precedette solo l’avvento di un suono che non avrei mai e poi mai dimenticato.

Zehahaha…

Rantolai d’istinto all’indietro finendo col cadere sul primo degli scalini dietro di me, riuscendo a malapena ad afferrare la ringhiera per reggermi.

Tremavo. Tremavo da capo a piedi. Avevo paura.

No, quella non era paura. Era terrore allo stato puro.

La mia gola pizzicò di nuovo in quello strano modo che avevo imparato a riconoscere.

Una grossa mano scura di alzò, spalancandosi ed avventandosi verso di me, lasciandomi a malapena il tempo di rotolare su un fianco eludendo così la presa di quel mostro senza volto che, al mio gesto istintivo, smise di ridere, imprecando per un istante a mezza voce.

Non feci molto caso a quello che disse e mi affrettai con il cuore in gola a risalire al meglio delle mie possibilità la lunga scala che mi separava dal ponte. E non era affatto facile con le ginocchia che mi tremavano neanche fossero fatte di burro.

Avanzai di soli due scalini prima di sentire una di quelle mani afferrarmi saldamente la caviglia e strattonarmi verso il basso, facendomi ruzzolare di nuovo alla sua mercé. Serrai d’istinto le palpebre e lanciai un lamento sommesso e trillante.

No…!

Qualcosa mi ghermì la gola con forza, schiacciandomi la voce in una morsa impietosa che mi fece allargare gli occhi dal dolore, portandoli sull’orlo del pianto. Sembrava volesse strangolarmi.

Boccheggiai in disperata ricerca d’aria,artigliando confusamente quell’enorme e fetida mano con le mie piccole dita, ma risultato fu solo un aumento di pressione di quel mostro sul mio collo.

Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi.

Non feci caso al fatto che avesse detto una parola nella mia lingua.

Soffocavo. Stavo soffocando. L’aria stava velocemente scivolando via dai polmoni, facendoli bruciare disperatamente dall’interno. La vista cominciava ad annebbiarsi, sfuocando i contorni delle cose.

Aria. Avevo bisogno di aria.

Las..lascia..

Ciondolai la testa da un lato e una lacrima mi solcò l’angolo del viso, ma quella presa ancora non si allentava.

Zehahah. Hontōni suteki na kēki.

E di colpo la mia mente fu pervasa da quel suono odioso, facendomi dimenticare della sensazione di bruciore all’altezza della gola. Lacrime di frustrazione si unirono a quelle di disperazione.

Rideva. Io stavo soffocando. E lui rideva.

La collera prese posto alla paura, rendendomi preda di un groviglio di emozioni che mi portarono ad esercitare tutta la forza rimastami sul polso del mio assalitore, artigliandovi con rabbiosa convinzione le unghie sottili.

Sentii la mia pelle formicolare sui polpastrelli e un alone luminoso oltrepassare la barriera acquosa formatasi sui miei occhi lacrimanti. Eppure i miei denti erano serrati in una smorfia adirata che, ne fui certa quando sentii quella stretta farsi nettamente più marcata, non sfuggì all’altro.

Rideva.

Era tutto quello che riuscii a pensare, mentre lo strano bagliore scaturito dalle mie dita fu subitamente sostituito da l’odore di pelle bruciata ed un urlo di dolore.

La mia gola fu liberata all’istante, lasciando finalmente che l’aria tornasse violentemente a scorrermi verso i polmoni, benvenuta come mai era stata in tutta la mia vita. Caddi sul pavimento tossicchiando e massaggiandomi il collo con una mano.

La mia vista si rischiarì, permettendomi di capire in che situazione mi trovavo.

La strana figura dinanzi a me stava rannicchiata su se stessa, tenendosi il braccio lanciando imprecazioni certamente non molto velate. L’odore di pelle abbrustolita aveva ormai riempito tutto il corridoio, ma non ebbi cuore di pensarci oltre.

Ero prontamente scattata sulle scale, più veloce che mai, arrivando a pochi centimetri dalla maniglia.

Mi venne quasi da urlare vittoriosa quando il freddo metallo del pomello entrò a contatto con la pelle delle mie dita, abbassandosi con un poetico cigolio.

Un secondo dopo ero fuori,  circondata dalla protettrice luce delle stelle.

Solo che quello che mi trovai di fronte non sfiorò minimamente le mie catastrofiche aspettative.

Scattai la testa da una parte all’altra del ponte, gremito di gente mai vista prima. Cosa strana perché bene o male gli uomini della nave si riconoscevano bene per via di tatuaggi o di altri segni contraddistitivi.

Era la mia impressione… o si erano aggiunte altre persone?

OI SHUKUTAI!!!

“Eeek!”

 

Atto 6, scena 14

NIPOTE DEGENERE!!!

Gli occhi di Monkey D. Garp, più fiammeggianti di quelli di un Re dei Mari imbestialito per essersi fatto fregare il pranzo da un branco di squaletti agguanta-carogne, erano in quel momento puntati sulla figura imbarazzata, e scomodamente al centro dell’attenzione, di Portuguese D. Ace.

Il giovane si stava massaggiando la testa, rielaborando ad una velocità mostruosa centinaia di piani per levarsi velocemente da quella situazione scomoda, ma solo per scartarli subito dopo.

Come spiegava adesso al babbo che, oltre ad essere il figlio consanguineo del suo più acerrimo rivale, era anche il nipote adottivo di nientemeno che un marine dal rispettabile grado d Vice-ammiraglio?!

“Ehilà. Ciao Nonno.” Gli venne solo da rispondere grondando sudore da tutti i pori, lasciando di stucco tutta la ciurma, persino Edward Newgate era rimasto sorpreso della risposta del figlio.

Gli unici che facevano a meno di spalancare oscenamente le mascelle, come già stavano facendo i figli dell’imperatore Bianco, erano i pirati di Shanks il Rosso, saliti sul ponte della Moby sotto esplicito consenso del capitano stesso alla domanda postagli dal Rosso.

“Che ne diresti di mettere da parte divergenze inutili e coalizzarci per proteggere le nostre navi solo per questa volta?” aveva chiesto, non proprio umilmente, l’imperatore dai capelli rossi, sorridendo sfacciato. Era stato un miracolo che Barbabianca avesse deciso, per una volta tanto, di dare corda a quel mocciosetto, ma d’altra parte, con le infermiere bloccate con loro sul ponte principale e la piccola naufraga chiusa nell’ambulatorio della nave, non poteva rischiare di provocare gravi danni all’imbarcazione, sapendo in che modo sarebbe stato diretto l’attacco.

E infatti una palla di cannone fischiò a pochi millimetri dall’orecchio di Ace, prontamente intercettata dalla mano diamantina di Jaws, che la ridusse all’istante in tante piccole briciole ferrose.

GGGNFFHH!!! COME OSI RIPRESENTARTI DAVANTI A ME COSÌ SPENSIERATAMENTE DOPO QUELLO CHE HAI COMBINATO!?

Ormai il naso di Garp il Pugno sbuffava getti di vapore alla stregua di una ciminiera, provocando in Shanks, in piedi accanto al vecchio Newgate, una risatina a malapena sommessa. Era uno spasso vedere il vecchio alle prese con il nipote ribelle.

“Bhe, nonno… se vogliamo essere precisi io non mi sarei lontanamente sognato di ripresentarmi …” puntualizzò il moro, sorridendo nervoso mentre si riaggiustava con una mano la falda del cappello, volatogli quasi via a causa dell’attacco precedente.

“… sei stato tu a venire a trovar-..”

Un’altra sfera di metallo, questa volta diretta al suo viso, schivata appena in tempo con un rapido movimento del ragazzo, chinatosi su se stesso con una mano ben salda sul proprio copricapo arancione.

Ace continuava a sorridere imperterrito, nonostante il suo istinto, benedetto istinto, gli stesse suggerendo vivamente di darsela a gambe levate come mai in vita sua.

Non era sua abitudine scappare di fronte a qualcosa, tutt’altro, ma eccezionalmente suo nonno riusciva a risvegliare quel suo desiderio di autoconservazione come nessun’altro al mondo.

“Eddai nonno. Non fare così.” Fece accondiscendente, come se quella che aveva appena schivato fosse stata solo una semplice ciabatta polverosa.

TACI! GGNNNFFH! DEVI SOLO SPERARE CHE UNA TEMPESTA SI INTERPONGA TRA ME E QUELLA BAGNAROLA SU CUI SEI IMBARCATO! PERCHÉ NON AVRAI ALTRO MODO DI SFUGGIRE ALLA TUA GIUSTA PUNIZIONE! MOCCIOSO INSOLENTE!

Ace sbuffò sconsolato, rinunciando definitivamente a far ragionare il nonno.

Marco gli si accostò proprio in quel momento, scrutandolo incuriosito proprio come Satch, Jaws e Vista, che avevano seguito il suo esempio, attendendo pazientemente come lui qualche spiegazione da parte del fratellino.

“Tuo nonno?” chiese con fare incredulo Marco e la testa di Ace ciondolò sconsolatamente in avanti.

“Già … ”

“Ma che gli hai fatto per farlo arrabbiare così tanto?” domandò Satch, accostando una mano alla fronte per aguzzare lo sguardo verso il marine. Il moro si abbassò ancor più abbattuto al pensiero del motivo per il quale il suo vecchio stava cercando di ridurre la nave del babbo ad un pezzo di groviera.

“Sono diventato un pirata.” Disse con fare ovvio, mentre con uno slancio si rimise in piedi, stavolta più serio e deciso in volto, pronto più che mai a rispondere per le rime agli attacchi a catena del vice-ammiraglio.

Una nuova scariche di palle di cannone si proiettarono verso di loro, ma stavolta Pugno di Fuoco non rimase impassibile e, con un rapido movimento del braccio, ne deviò una diretta proprio al suo petto, scagliandola talmente lontano da farle perdere forza, piombando così in mare aperto.

Un fischio di ammirazione sfuggì dalle labbra di Satch nel notare la piega che aveva preso la discussione.

“Ci va proprio giù pesante con te, neh?”

“Credimi.” Sospirò Ace sorridendo ancora un po’ abbattuto “Questo non è neanche la metà.”

“Bene. Allora direi che si può cominciare.”

Gli occhi dei quattro comandanti s puntarono all’unisono sulla maestosa immagine di Shanks il Rosso, interpostosi tra loro con la solita fierezza.

“Ehi, Shanks.” Lo salutò Ace con un cenno del cappello, per poi incrinare la voce con un vago tono di rimprovero “Ma ti pare il modo di venire a trovare la gente? Avresti potuto fare a meno di portartelo dietro.” Concluse il ragazzo riferendosi chiaramente alla presenza del nonno.

Il Rosso si limitò a ridere senza alcun cenno di imbarazzo, mettendo mano all’elsa della propria spada estraendola poi con una velocità tale da renderla quasi invisibile per un istante, troncando di netto ben quattro sfere ferrose scagliate dalle mani del nemico.

“Mi farò perdonare più tardi.” Promise brevemente il pirata, lasciando sottinteso quello che potè esprimere pienamente con una delle sue consuete espressioni giulive: Adesso pensiamo a divertirci.

Ben Beckman a volte si trovava indeciso su come descrivere il suo capitano: c’erano momenti in cui lo definiva semplicemente pazzo, seguendo l’esempio di molti, altre volte invece lo definiva solamente stupido.

Ma stupido davvero.

 

Atto 6, scena 15

“Fa uno strano effetto essere sulla nave del vecchio Newgate, non trovate?”

La voce di Yasopp, aveva miracolosamente sovrastato il rumore delle bombe di Garp, facendosi sentire dai propri compagni, radunatisi attorno a lui e gli altri ufficiali della Red Force, riuscendo comunque a mantenere una calma di per sé fantastica.

Insomma. Erano su una nave nemica e sotto attacco di uno dei più temuti Marine in circolazione.

Di certo mantenere il sangue freddo in un momento simile non era cosa da poco.

Accanto a lui Lucky strappava ed inghiottiva dai rimasugli del proprio cosciotto gli ultimi bocconi di un ottimo spuntino di mezzanotte, annuendo e sorridendo solennemente alle sue parole, apparentemente non facendo caso alle meteoriti che saettavano allegramente sopra le loro teste.

“Auguriamoci di non metterci le radici o peggio le ossa.” Borbottò Ben con i denti leggermente stretti attorno al filtro della propria sigaretta, mettendo mano alla fedele baionetta, poggiata come al solito sulla spalla.

“Sempre ottimista tu, eh?” gli fece eco il cecchino, lanciandogli un sorrisino ironico.

Poco distanti da quel breve scambio di battute, il viso bianchiccio e leggermente squadrato di Roid colava sudore da ogni poro, irrigidendosi ad ogni fischio che le palle di cannone perforanti l’aria della notte provocavano.

“Non ha tutti i torti.” Sussurrò lugubre di fronte al pragmatismo distruttivo del vice-capitano, rivolgendosi a nessuno in particolare, dato l’enorme spazio vuoto che si era formato attorno a lui non appena aveva osato cercare riparo nel punto dove i suoi “compagni di ciurma” si erano ammassati in maggiore quantità.

Roid Brinata aveva sempre avuto grandi progetti per la propria vita: diventare ricco, comprarsi un titolo nobiliare, abitare su una bella e lussureggiante isola estiva ed acquistare almeno una dozzina di schiave avvenenti.

Non era però così tanto certo di poterli realizzare in quel momento, vista la sua attuale situazione.

Era un ex mercante di schiavi in mezzo a non una, ma ben due ciurme di pirati pronti a testare sul suo scalpo i fili delle loro spade. Bhe… diciamolo tranquillamente: era praticamente passato dal ventre della vacca al letame.

Era uno di quei casi in cui l’orgoglio maschile andava a farsi un lungo giretto, lasciando spazio ad un solo e disperato pensiero.

Mammina.

Sarebbe rimasto lì ad autocompatirsi per tutto il resto dell’attacco se i suoi occhi, forse nel tentativo di trovare rifugio dalla pioggia metallica lanciata dai marines, non avessero notato qualcosa di luccicante sporgersi da dietro una delle botti di sake accostate alla porta della sottocoperta.

Non avrebbe mai immaginato di ritrovare su quell’immensa imbarcazione nemica una faccia famigliare. Tantomeno quella della piccola strega che aveva fatto naufragare la sua nave.

Roid Brinata non fece caso al fatto di essere in territorio nemico, né tantomeno allo strano bagliore che gli occhi della ragazza avevano assunto, sostituendo il loro colore naturale con una gradazione diffusa su tutta l’iride. La pupilla era diventata arancione, confondendosi con il resto dell’occhio, sfumato di un colore eguagliabile solo alla luce dorata di una fiamma.

TU!!”

E l’ex mercante di schiavi non si curò di quell’assurdo particolare, mentre sguainava con convinzione il proprio coltello estraibile dalla tasca dei pantaloni, avvicinandosi a grandi passi verso la fonte dei propri guai.

Tu, piccola puttana!”

Il suo urlo per sua fortuna si confuse con l’ennesimo scoppio di una delle palle di cannone scaraventate in aria, ma non impedì alla piccolina di accorgersi dell’imminente pericolo.

I suoi occhi gialli si allargarono dalla sorpresa, saettando velocemente sull’arma impugnata dallo sconosciuto al viso di quest’ultimo, per poi farla scattare repentinamente in piedi e scattare il più rapidamente possibile tra la folla radunata davanti a lei.

Le labbra di Brinata si storsero in una smorfia animalesca, mentre vedeva quella streghetta farsi strada tra i membri della sua nuova ciurma, spintonando con le sue piccole braccia chiunque le stava davanti.

Ma non aveva una meta precisa. Roid lo capì immediatamente, non appena vide in che modo avanzava.  

Confuso, Impaziente, Caotico.

Una preda fin troppo facile.

Con un sorriso l’uomo si infilò di nuovo il coltello nei pantaloni cominciando ad aggirare con facilità il percorso della ragazza, trovando una scorciatoia che lo portò a ritrovarsela proprio davanti, tremante e sconvolta come non mai.

“Ti ricordi di me?” la schernì rimettendo mano alla lama, vedendola indietreggiare d’istinto, ormai con tutte le vie di fuga bloccate da persone troppo prese dall’evitare l’attacco nemico.

La piccola lo osservò ancora per un istante, stringendo un attimo gli occhi, per poi spalancarli con consapevolezza.

Allora si ricordava. Oh. Eccome se si ricordava. Che senso avrebbe avuto scappare altrimenti?

“Bene.” Fece lui, avanzando di un passo, notando con piacere che la ragazza si era irrigidita per la paura “Allora MUORI!!”

 

Atto 6, scena 16, Arioso doloroso

Non sapevo chi fosse. Né che cosa volesse da me.

Ma qualcosa nel suo viso mi inondò in un istante la testa con una terribile sensazione di dolore. Una scossa elettrica che mi perforava il cranio.

Non lo vidi arrivare.

Scivolai semplicemente per terra, con le gambe troppo deboli per sostenermi un istante di più, e mi presi la testa tra le mani, guardando in preda al panico il legno davanti a me.

Uno spostamento d’aria più veloce mi colpì le braccia, facendomi sobbalzare il petto per lo spavento e urlare con tutta la frustrazione che mi trovavo in corpo, mentre mi paravo il capo con le mani.

Di colpo tutto divenne silenzioso e calmo. Non c’erano più fischi in aria, né urla, né il leggero fresco della brezza notturna. Era come se attorno a me si fosse formata una bolla di sapone, separandomi dal resto del mondo.

Quando riaprii le palpebre non rialzai lo sguardo, ma vidi le assi del mondo apparirmi in modo differente.

Non erano più marroni, ma arancioni. Era come se fosse diventato tutto più chiaro. Più di quanto lo era stato prima, quando lo strano formicolio si era trasferito improvvisamente agli occhi, schiarendo lievemente il paesaggio notturno della nave.

 Con la coda dell’occhio intercettai la posizione dei miei gomiti, ritrovandomi a fare i conti con qualcosa di inaspettato.

Fiamme gialle. Crepitanti come se si stessero cibando della mia pelle, ma dolcemente tiepide al tatto.

Innoque.

Feci appena in tempo a notare il modo in cui ricoprivano tutto il braccio partendo dalla spalla fino alle punte delle dita, prima di ricevere una nuova fitta alle tempie, talmente violenta da farmi premere di nuovo le mani, sempre infuocate, tra i capelli, stringendo i denti nello sforzo di reprimere un altro urlo.

Le mie orecchie si riempirono poi di frase sconnesse e veloci.

[Ehi! Ma tu…!][Non è sicuro avvicinarsi a quello!!] [Ti prego….! Ripensaci!][Col cavolo che ti lascio da sola!]

E i miei occhi cominciarono a vedere qualcosa di diverso dal pavimento ligneo della nave.

Qualcosa che sapeva di ricordi.

 

Fine seconda parte Atto Sesto.

Lo ammetto. Per questo capitolo ho fatto più fatica del previsto. Sia a causa degli esami che dell’afa estiva che abbatteva continuamente la mia ispirazione.

Bene bene. Ora che ci troviamo qui, capirete come si sta svolgendo la storia.

Sia chiaro. Io per Shanks ho un’adorazione assoluta. Qualunque descrizione che possa aver fatto pensare il contrario non ha niente a che vedere con il mio pensiero personale! ^^

Allora. Il risultato del sondaggio si è concluso in parità (contando voti indecisi come doppi) e quindi mi sono ritrovata a prendere codesta decisione: le descrizioni di Momo si limiteranno ai segni particolari più citati, senza entrare nel dettaglio.

Vi sta bene?

Non ho messo molto in questo Atto, ma tornerò all’attacco nel prossimo. Ehehe.

Ok… Adesso passiamo alla domanda odierna:

Momo comincerà a ricordare qualcosa, ma ricorderà il proprio nome?

E ancora…

Come reagirà la ciurma di Shanks alla vista delle capacità della piccola?  

Bene! E con questo concludiamo! Spero vi sia piaciuta la lettura e che continuerete a seguirmi.

Bye bye! XD

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi >  Eh, no, piccola. Niente Gorgheggi.

Hontōni suteki na kēki  >  Davvero un bel bocconcino.

OI SHUKUTAI!  >  NIPOTE DEGENERE!

 

   
 
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