Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 6
–parte seconda-
Atto 6, scena 8
Dire che Monkey
D. Garp era furibondo sarebbe stato un eufemismo di prima categoria. I suoi
muscoli gonfi e tesi, ora perfettamente visibili attraverso la stoffa bianca
della divisa miracolosamente ancora intatta, stavano pulsando come non mai ad
un ritmo che pareva seguire il suono dei suoi denti che stridevano ogni
qualvolta serrava con più forza la mascella.
Tutti sulla nave
del temuto e rispettato vice-ammiraglio si erano irrigiditi sul ponte, posti
sull’attenti in attesa dell’imminente scoppio che avrebbe segnato l’inizio di
un clamoroso sfogo da parte del loro superiore. Ed era proprio questo pensiero
a far lacrimare silenziosamente gli occhi dei più giovani e tremare
impercettibilmente Kobi ed Hermeppo,
costretti come al solito a stare in prima fila rispetto agli altri, essendo
degli allievi del marine.
Non sarebbe stata
una bella esperienza. Non lo era mai. Vero. Ma quello alla quale stavano per
assistere andava ben oltre un semplice ruggito. Garp non si sarebbe calmato
molto presto: quando si era svegliato dal suo attacco di narcolessia non
c’erano state parole per descrivere la sua espressione nel vedere la nave del
rosso ferma ed accostata accanto all’immensa imbarcazione di Barbabianca.
I pugni
continuavano a tremargli violentemente al solo ricordo di quella visione
assurda, offuscata dai postumi dell’inaspettata dormita.
Che doveva fare?
Aveva clamorosamente fallito nel suo tentativo di intercettare quel moccioso
sai capelli rossi ed adesso si trovava lì, in piedi sulla polena della sua
stessa nave a guardare i risultati del proprio fallimento, con quell’orrenda
bandiera nera dalle tre cicatrici che gli sorrideva beffarda, prendendosi gioco
di lui.
“S-signore…” osò
sussurrare Kobi con le labbra che gli tremavano per la paura “il … il R-rosso
ha, m-esso b-bandiera b-bianca, s-signore. ” balbettò sotto gli sguardi
impietositi dei suoi compagni e quello non meno terrorizzato di Hermeppo,
grondante di sudore.
“E-e si s-sta
accostando a-all-a Mo-moby-..”
“LO SO ….”
Quella sorta di
grugnito fuoriuscito dalla gola del vice ammiraglio ebbe il potere di congelare
la spina dorsale di tutti i presenti sulla nave e Kobi si zittì immediatamente,
tendendosi come una corda di violino, immediatamente imitato dal suo compagno
di addestramento.
Una scintilla di
pura follia brillò negli occhi di Monkey D. Garp, anticipando un ordine che,
oltre a rendere sordi per una buona manciata di minuti, Kobi ed Hermeppo,
avrebbe steso più della metà della ciurma, tanto sarebbe stato impregnato di
Haki.
Atto6, scena 9, Arioso della perla
Davanti a me la
porta dell’infermeria era stata appena chiusa a chiave.
Intrappolata,
bloccata.
“Ma perché?!” mi
lamentai dando qualche colpetto con un pugno il legno della porta, sperando che
questa si riaprisse. E che altro potevo fare?
Penelope e Betty
mi avevano praticamente segregata dentro la mia camera, liquidando le mie
lamentele con un paio di “Mi dispiace, Momo-chan”, prima di girare senza alcuna
pietà la chiave dentro la toppa della serratura.
Mi sentii una
lacrimuccia fare capolino dall’angolino di uno dei miei occhi. Proprio adesso
dovevano far saltare fuori una chiave? Io non volevo rimanere chiusa lì dentro!
Mi guardai
nervosamente attorno, studiando con fare agitato quello che, a parte il mio
letto, componeva l’arredamento della stanzetta diventata dal giorno del mio
risveglio la mia abitazione fissa.
Era colma di
fili, aggeggi a lucine inquietanti e, sopra una mensola posta a metà tra dei
flaconi di medicine disinfettanti e garze c’erano dei … coltelli …
Non so perché, ma
mi venne spontaneo distogliere lo sguardo, focalizzando al meglio delle mie
possibilità le striature del legno della porta.
Non mi piaceva
quella situazione. C’erano troppe cose che non capivo: il comportamento di
Marco in primo luogo e in secondo quello delle infermiere.
Il biondo mi
aveva tirato dentro la mensa così velocemente che avevo a malapena avuto il
tempo di scorgere il cappello di Ace, prima di venire portata via da Penelope
Betty e Carol. E la cosa non mi lasciava tranquilla.
Ritornai alla
mente a quelle strane figure che erano apparse dirigendosi proprio verso di noi.
Mi imbronciai,
assottigliando inconsciamente gli occhi.
“Fatemi uscire!”
piagnucolai, alzando all’improvviso la testa, ma ancora una volta ottenni il
silenzio come unica risposta.
“Sob.” Dissi
facendo ciondolare sconsolata la testa verso il basso, per poi alzarmi e farmi
cadere sul materasso morbido e freddo della mia brandina.
La mia mano
destra incontrò qualcosa di leggermente ruvido e leggero, diverso dalla stoffa
trapuntata della coperta. Lo guardai, girando la testa incuriosita e, dopo un
attimo di stupore, mi venne da sorridere.
Accanto a me, abbandonato
sul letto con grazia confusa stava un semplicissimo vestito di cotone con le
spalline strette e la scollatura quadrata, accostata da un paio di pantaloncini
che dovevano arrivare più o meno a metà coscia.
Sospirai un po’
sollevata ed un po’ dispiaciuta.
Mi avevano fatto
un vestito su misura.
Lo presi con le
dita, facendo scivolare via con un fruscio dalla superficie un poco più ruvida
ed usata della trapunta.
Lo soppesai per
un po’ e poi ne tirai leggermente i lembi, constatandone la leggerezza e la
resistenza.
Accidenti, e dire
che mi avevano fatto tanto penare per farmi indossare la loro divisa…
Decisi di
indossarlo senza troppi pensieri e mi spogliai dei vestiti larghissimi che mi
avevano fatto da vestiario fino a quel momento. L’aria fresca e tagliente della
stanza mi colpì la pelle nuda facendola rabbrividire di riflesso, mentre
sistemavo con cura i vestiti da uomo che avevo tenuto prima. Stavo per
afferrare il vestito bianco quando la mia attenzione fu attirata dal mio stesso
braccio.
La mia bocca si
spalancò di poco, non credendo a quello che stavo assistendo sulla mia stessa
pelle: laddove proprio ieri avevo controllato lo stato pietoso delle mie piaghe
dovute alla forte insolazione, non solo la pelle si era cicatrizzata
perfettamente, ma, dove rimanevano ancora pochi millimetri prima che la pelle
si richiudesse del tutto … luccicavo.
O meglio. Erano
gli ultimi squarci sulle mie braccia a luccicare, quasi avessi avuto delle
piccole pagliuzze gialline in mezzo alle ferite.
“Ma che…?” balbettai
, facendo per toccarmi con una mano quello strano fenomeno, prima di saltare
letteralmente su letto della spavento, udendo un improvviso ringhio far vibrare
l’interno della mia cabina. Mi attorcigliai alla bene e meglio sotto le
coperte, tirandomele con le mani tremanti sopra la testa. Che cos’era stato
quell’…urlo?
Atto 6, scena 10
Salendo sulla
Moby, Shanks il Rosso aveva fatto letteralmente una strage. No, forse non
proprio letteralmente, ma c’era andato molto vicino.
Sul ponte,
riversi di faccia con la schiuma alla bocca, erano crollati quelli che per
primi si erano parati di fronte all’imperatore che altro non aveva fatto,
dacchè aveva messo piede sulla grande nave dello stimato avversario, che
camminare e sorridere spensieratamente, con in viso la stessa espressione che
avrebbe assunto qualsiasi altra persona che stava facendo visita ad un
carissimo amico di vecchia data.
Di tutt’altra
opinione però erano invece i superstiti della sua venuta che, squadrandolo in
cagnesco gli auguravano come minimo di inciampare sui propri piedi pur di
vedergli scomparire dalla faccia quel sorrisetto da schiaffi.
E di certo Marco
non era da meno, anche se stava osservando con apparente imparzialità l’haki
del rosso far crollare uno dopo l’altro i membri della sua divisione, lasciando
in piedi solo quelli con più sangue freddo.
Accanto a lui Ace
sorrideva divertito a quella scena ed il biondo si accigliò di conseguenza, non
capendone il motivo.
“Ti diverte la
cosa?” chiese, ricevendo un sorriso malandrino da parte del moro, che si
abbassò di riflesso il cappello sugli occhi.
“Abbastanza.”
Disse quello senza che le proprie labbra abbandonassero la piega che avevano
assunto.
In una situazione
differente Marco avrebbe chiesto ulteriori chiarimenti sull’insolita reazione del
fratellino, ma la sua mente era occupata da ben altre preoccupazioni.
Tipo, il motivo
che aveva portato Shanks il Rosso a piombare da loro nel bel mezzo della notte
e chiedere un colloquio con il babbo.
Ora i due
imperatori, l’uno di fronte all’altro guardandosi intensamente come due leoni,
erano entrambi sul ponte principale confrontandosi silenziosamente, ma in modo palesemente
intuibile da come l’aria si stava facendo tremendamente pesante, a fitti colpi
di Haki.
Barbabianca
sfoggiò uno dei suoi larghi sorrisi.
“Sembri stanco, mocciosetto.”
“Ahaha, bhe,
diciamo che sono stato piuttosto occupato nelle ultime ore.” Ridacchiò,
allargando ancor di più le proprie labbra in un sorriso che anticipò il
dissolversi di quella strana cortina pesante ed irrespirabile che era diventata
l’aria. Molti sul ponte di ritrovarono a sospirare sollevati, capendo che il
breve confronto tra i due imperatore fosse appena finito.
L’imperatore
rosso di rilassò notevolmente, arrivando non solo a spaparanzarsi comodamente
sul ponte, ma anche a slacciarsi dalla cinta la sua fedele sciabola,
poggiandosela di fianco, sottintendendo che sì, le sue intenzioni erano
amichevoli, ma che nulla gli avrebbe impedito di difendersi, anche in quella
situazione di evidente svantaggio.
“Io l’ho sempre
detto che il rosso è completamente pazzo.” “Concordo.” Disse qualcuno tra
l’equipaggio sottovoce, facendo ridacchiare Ace ed accigliare ancora di più
Marco.
I grandi occhi di
Newgate vagarono ancora per un po’ sulla figura piccola ma insidiosa del proprio
rivale, senza mai abbandonare la piega che le sue labbra avevano assunto.
“Tsk. Sempre il
solito arrogante.” tuonò poi all’improvviso affrontando apertamente gli occhi
gioviali di Shanks “Non solo ti presenti senza preavviso, disturbando la quiete
dei miei figli oltre che la mia.”
E qui tutto
l’equipaggio, tra cui molti erano quelli assonnati e prossimi a cedere al dolce
ed ipnotico richiamo della branda, avrebbe volentieri affiancato le parole del
babbo con un bel coro di imprecazioni ed esclamazioni nei confronti del rosso,…
ma no, non era il caso di rendere quel colloquio ancor più teso del necessario.
“Ma hai anche la
sfrontatezza di chiedere asilo sulla mia nave, senza portare nulla in cambio e
per di più dopo esserti portato appresso un equipaggio di marine!!” la voce
dell’imperatore bianco sferzò l’aria come un rombo che preannuncia una tempesta
e molti furono quelli che sentirono un gelido tremore percorrere la colonna vertebrale
fino a rizzare le punte dei capelli.
In quel momento
sarebbe bastata una parola sbagliata da parte di Shanks per scatenare il
finimondo. Nel vero senso della parola.
“Che posso dire?
È stato più forte di me.”
Eppure la
risposta non tardò ad arrivare.
La leggerezza con
la quale Shanks aveva risposto al babbo fece per poco crollare a terra Ace
dalle risate. Il moro, sotto le occhiate stranite degli altri comandanti, si
teneva in quel momento la pancia con una mano e con l’altra tentava di
nascondersi il viso, calcando il più possibile il cappello sugli occhi.
Adorava quel
rosso. L’aveva preso in simpatia dal giorno in cui era riuscito a scovarlo e a
dirgli grazie per aver salvato Rufy e, in quel momento, vedendolo alle prese
con il babbo, giustificandosi spensieratamente con una scusa così banale e
sincera, sentiva di ammirarlo ancora di più.
Ma le cose non
erano così semplici. I suoi occhi scuri si indurirono di poco mentre, dopo aver
ritrovato la solita spensierata compostezza, osservava il padre ammutolire indispettito
alle parole del Rosso.
Con un colpo di
reni scese dal parapetto, facendosi strada a medie falcate verso il centro del
ponte guadagnandosi le occhiate ben più che stranite dei suoi fratelli.
Aprì bocca per
dire qualcosa, alzando in braccio in direzione del rosso, ma qualcosa lo
interruppe, lasciandolo stordito in meno di un secondo.
“DIRIGETE LA NAVE VERSO LA MOBY DIIIICK!!!”
Pugno di fuoco
rimase un attimo in silenzio e stordito come i suoi compagni, tenendo la mano
ancora sospesa a mezz’aria, mentre sentiva sul collo la fastidiosa sensazione
di venire punzecchiato da qualcosa… un presentimento.
Quella voce…
Per un attimo
impallidì, ma solo per darsi subito dello stupido e ridere di sé stesso e delle
sue folli idee. Non era possibile.
“Ops.” Disse
Shanks, ruotando la testa in direzione del fianco della nave, dove si poteva
vedere la polena dell’imbarcazione del Pugno puntare nella loro direzione. “A
quanto pare il vecchio Garp si è svegliato prima del previsto.” Concluse
sorridendo sbarazzino, rivolgendosi poi verso Barbabianca, meno che mai in quel
momento incline a rispondere ai suoi sorrisini fanciulleschi.
Dietro di loro,
intanto, Ace era diventato bianco come un lenzuolo.
Garp. Vecchio
Garp, aveva detto il Rosso. Quanti Garp potevano esistere al mondo che facevano
i Marine?
Un fitto strato
di sudore freddo ricoprì interamente il volto del moro, mentre pregava che di
vecchi Garp ne esistessero almeno un centinaio nella Rotta Maggiore e che, oh
santo patrono dei pirati, quello che aveva appena urlato con la potenza di un
Re dei Mari imbestialito non fosse suo nonno.
“Ohi, Ace. Che ti
prende?” Lo punzecchiò con un dito Satch, non capendo cosa potesse essere
successo al fratellino per ridurlo in quello stato. Ammetteva che anche lui
c’era rimasto un po’ stordito di fronte a quella sorta di muggito apocalittico,
ma non credeva che avrebbe avuto tanto effetto sul moro.
Il biondo, non
ricevendo alcuna risposta, scoccò un’occhiata di intesa a Marco che come lui si
era mobilitato per recuperare il più giovane, guadagnando però dall’altro
nient’altro che una lieve alzata di spalle ed uno sbuffo.
La Fenice guardò
accigliato come suo solito la nave ammiraglia avanzare verso la Moby, divorando
a poco a poco la distanza che le separava. Soppresse un grugnito esasperato.
Che situazione
assurda.
Poi, l’immagine
di Momo, chiusa nell’infermeria ed in preda al panico più totale a causa di
quel ruggito, lo colse improvvisamente, facendogli sobbalzare il petto per la
preoccupazione.
Con un poco di
fatica, si impose però di calmarsi, schiacciando quella sgradevole sensazione
sotto un paio di respiri profondi.
Non era il
momento di perdere la testa.
Atto 6, scena 11, Arioso dell’usignolo in fuga
Finii di
sistemarmi il vestito addosso, rimanendo sotto le coperte. Le braccia mi
tremavano ancora un poco a causa della paura provata poco prima e ci misi un
bel po’ prima di trovare il coraggio di riemergere da sotto le lenzuola del
letto.
Scivolai
lentamente lungo il fianco della branda, accucciandomi accanto ad esso con il
cuore pulsante in gola, e con gli occhi sbarrati e pronti a percepire il più
piccolo segnale di pericolo.
A pensarci bene
sembrava che fossi un esperta in materia.
Non sapevo cosa
fosse stato quel suono di poco prima, ma non me la sentivo ancora di alzarmi
sulle mie stesse gambe e, anche se avessi voluto, non sarei riuscita comunque
ad andare da nessuna parte, rinchiusa com’ero nella stanza.
Le spalle mi vibrarono
ancora un po’ mentre gattonavano incerta sul pavimento, dirigendomi vero la
porta dell’infermeria.
“C’è nessuno?”
squittii con la voce ridotta ad un filo sottile dalla paura.
Le mie mani si
poggiarono imploranti sul legno dell’uscio e io rimasi a guardare quella
crudele serratura rimanere ferma e muta, ma solo per un attimo, prima di
accigliarmi e cominciare a guardarmi attorno più interessata a quello che mi stava
attorno che a quello che ci sarebbe potuto essere.
Non avevo alcuna
intenzione di rimanere in quel posto un minuto di più. Volevo uscire. Dovevo
uscire. Sentivo chiaramente di doverlo fare, quasi nella mia testa trillasse un
campanello di allarme.
Una sorta di
sesto di senso.
I miei occhi
caddero casualmente sulle stesse mensole che poco prima mi ero ripromessa di
non guardare più.
Coltelli e altri
oggetti metallici e sottili scintillavano sinistri a pochi metri da me.
E un’idea mi
balzò alla testa.
Sottili.
Metallici.
“Trovato!”
sussurrai, alzandomi di scatto ma solo per ricadere sul pavimento a causa del
tremore che ancora continuava a scuotermi le ginocchia. Mi accigliai dandomi
della stupida, scoccando un’occhiata furiosa alla mensola che era diventata la
mia meta.
Anche se può
sembrare folle, più in là avrei ricordato il mio tentativo di raggiungere il
ripiano ed afferrare almeno un coltello per forzare la serratura della porta
come la prima grande sfida della mia vita.
Le mie mani
infatti, non appena si chiusero attorno al freddo metallo di un coltellino,
sembrarono tremare più di prima e la consapevolezza di quello che stavo
afferrando sembrò portarmi sull’orlo di farmi andare in tilt il cervello.
Qualcosa dentro la mia testa urlava di lasciare quel piccolo aggeggio e
risultava piuttosto persuasiva, vista la forte nausea che cominciò a torcermi
lo stomaco.
Tirai un lungo e
liberatorio sospiro di sollievo quando, dopo svariati tentativi, la serratura
della porta scattò sotto la pressione precaria della sottile lama del bisturi.
Mollai
immediatamente la presa sul coltello, lasciando che cadesse tintinnando sul
pavimento in legno, e mi affrettai a lasciarmelo alle spalle, affacciandomi
cautamente dalla porta, controllando che non ci fosse nessuno in giro. L’idea
di venire beccata da Betty subito dopo non mi allettava affatto.
A dispetto di
quello che pensavo però il corridoio era deserto. Nessun tipo di rumore, fatta
eccezione per il lieve scricchiolio delle travi che, oscillando alla spinta del
mare sotto la grande barca, rendeva il tutto ancora più inquietante.
Mi mordicchiai il
labbro inferiore.
Dov’erano finiti
tutti quanti?
Atto 6, scena 12
Il passo pesante
degli scarponi di Marshall D. Teach echeggiarono pigramente tra le mura legnose
della nave, ritornando ovattate alle orecchie sporche ed appena otturate di
cerume del padrone, senza però riuscire a distrarlo dai suoi loschi pensieri,
mentre, man mano che sulla sua strada si faceva sempre più vicina l’infermeria,
il suo sorriso irregolare e marcio si ampliava a vista d’occhio.
Nella mano
destra, in netto contrasto con le unghie scure e la pelle pelosa e bruna del
dorso, una corda sottile e bianca come latte, quasi nuova di zecca, oscillava
languidamente verso il pavimento.
L’arrivo del
Rosso era stato provvidenziale, dovette ammettere Teach. Non si sarebbe mai
aspettato di vedere la nave di quel piantagrane apparire all’orizzonte in un
periodo di relativa calma come quella.
E per di più di
notte! Pensò allargando inconsciamente il proprio sorriso.
Un’occasione
perfetta. Se fosse stato in rapporti migliori con Shanks il Rosso, l’avrebbe
ringraziato dal più profondo del cuore.
Quasi gli doleva di avergli inferto quella cicatrice sull’occhio
sinistro durante il loro primo ed l’ultimo scontro.
…
Nah. A pensarci
bene non se ne pentiva affatto.
Un pollice rugoso
carezzò con riverenza il materiale liscio e quasi setoso di quella corda che
aveva tirato fuori poco prima da uno dei pochi cassetti della propria cabina. Già
si immaginava l’espressione che quella piccola ninfetta avrebbe fatto nel
vederlo entrare nella sua stanza e ritrovandosi nel giro di pochi istanti
legata come un delizioso pacchetto regalo.
Oh, bhe. Almeno
quella era la sua visione delle cose. Non era molto sicuro che la piccola
avrebbe condiviso il suo pensiero con un corda ben stretta attorno al proprio
collo ed ai propri polsi, impedita così di compiere qualsiasi mossa avventata.
Ma in fondo, che
gli importava?
Il suo sorriso fu
però spento in un istante nel notare, finalmente giunto a destinazione, un
piccolo ed irritante inconveniente. Spalancò del tutto la porta dell’infermeria
guardandovi sconcertato all’interno.
Vuota.
Assolutamente vuota. Solo un bisturi abbandonato sul pavimento e i vestiti del
comandante Marco, indossati dalla piccola, poggiati ordinatamente sul letto.
Ma della sua
preda nessuna traccia.
Un ringhio
rabbioso gli brontolò nella giugulare, mentre si precipitava nuovamente nel
corridoio con gli occhi scintillanti di rabbia. Il suo sguardo stralunato
saettò da una parte all’altra del corridoio, alla disperata e furiosa ricerca
di un piccolissimo segnale che gli indicasse dove quella ragazzina fosse
andata.
Poi dei passi.
Provenienti dalla sua destra.
Leggeri. Incerti.
Cauti.
E il sorriso di
cui molti avevano terrore tornò trionfante a scoprire la sua dentatura
irregolare.
Atto 6, scena 13, Arioso fuggevole
Camminavo
lentamente lungo il corridoio, fortunatamente non ancora del tutto buio grazie
ai pochi lumini rimasti accesi sulle pareti.
Ero riuscita a
darmi un po’ di coraggio ed ad avventurarmi fuori dalla mia stanza, eppure,
quella stessa sensazione di pericolo imminente non mi aveva ancora abbandonato.
Anzi. Sembrava accentuarsi man mano che procedevo verso la scaletta che mi
avrebbe portato sul ponte.
Tenevo le mani
strette al petto, torturando nervosamente il tessuto latteo del vestito,
pensando che forse sarebbe stato meglio tornare indietro.
L’immagine di
quell’enorme serpentone nero e del sangue zampillato dalla sua ferita mi
colpirono improvvisamente, bloccando la mia camminata.
E se a provocare
quell’urlo fosse stato un altro di quei bestioni? Che cosa avrei potuto fare
io?
Di nuovo il
ricordo di Ace e Marco occupati a sostenermi ed a proteggermi a costo della
loro stessa vita mi crollò addosso, appesantendomi le spalle proprio quando la
scala del ponte si trovava a due passi da me.
Il mio sguardo
vagò sulle venature del pavimento che, sotto i miei piedi nudi, ondeggiavano sinuose,
ricordandomi il mare sul quale stavo inconsapevolmente navigando e dal quale
ero stata tratta in salvo giorni addietro.
Salvata.
Costantemente. Sempre.
La mia sembrava
essere un’abitudine. E l’odiavo. Sentivo chiaramente di odiarlo.
Feci un passo
indietro, ma la mia schiena si imbatté in qualcosa di strano che mi fece
rimbalzare leggermente in avanti.
La sensazione di
pericolo era tornata a farsi sentire, in quel momento più forte di prima e,
finalmente sveglia dalle mie riflessioni, mi girai di scatto, rabbrividendo nel
vedere dietro di me la forma di una persona, un uomo forse, con il volto
completamente oscurato e dotata di una mole rotonda ed imponente.
Sbarrai gli occhi
nel vedere, dal nulla di quel viso invisibile, comparire la sagoma di un
sorriso deforme che precedette solo l’avvento di un suono che non avrei mai e
poi mai dimenticato.
“Zehahaha…”
Rantolai
d’istinto all’indietro finendo col cadere sul primo degli scalini dietro di me,
riuscendo a malapena ad afferrare la ringhiera per reggermi.
Tremavo. Tremavo
da capo a piedi. Avevo paura.
No, quella non
era paura. Era terrore allo stato puro.
La mia gola pizzicò
di nuovo in quello strano modo che avevo imparato a riconoscere.
Una grossa mano
scura di alzò, spalancandosi ed avventandosi verso di me, lasciandomi a
malapena il tempo di rotolare su un fianco eludendo così la presa di quel
mostro senza volto che, al mio gesto istintivo, smise di ridere, imprecando per
un istante a mezza voce.
Non feci molto
caso a quello che disse e mi affrettai con il cuore in gola a risalire al
meglio delle mie possibilità la lunga scala che mi separava dal ponte. E non
era affatto facile con le ginocchia che mi tremavano neanche fossero fatte di
burro.
Avanzai di soli
due scalini prima di sentire una di quelle mani afferrarmi saldamente la
caviglia e strattonarmi verso il basso, facendomi ruzzolare di nuovo alla sua
mercé. Serrai d’istinto le palpebre e lanciai un lamento sommesso e trillante.
“No…!”
Qualcosa mi ghermì
la gola con forza, schiacciandomi la voce in una morsa impietosa che mi fece allargare
gli occhi dal dolore, portandoli sull’orlo del pianto. Sembrava volesse
strangolarmi.
Boccheggiai in
disperata ricerca d’aria,artigliando confusamente quell’enorme e fetida mano
con le mie piccole dita, ma risultato fu solo un aumento di pressione di quel
mostro sul mio collo.
“Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi.”
Non feci caso al
fatto che avesse detto una parola nella mia lingua.
Soffocavo. Stavo
soffocando. L’aria stava velocemente scivolando via dai polmoni, facendoli
bruciare disperatamente dall’interno. La vista cominciava ad annebbiarsi,
sfuocando i contorni delle cose.
Aria. Avevo
bisogno di aria.
“Las..lascia..”
Ciondolai la
testa da un lato e una lacrima mi solcò l’angolo del viso, ma quella presa
ancora non si allentava.
“Zehahah. Hontōni suteki na kēki.”
E di colpo la mia
mente fu pervasa da quel suono odioso, facendomi dimenticare della sensazione
di bruciore all’altezza della gola. Lacrime di frustrazione si unirono a quelle
di disperazione.
Rideva. Io stavo
soffocando. E lui rideva.
La collera prese
posto alla paura, rendendomi preda di un groviglio di emozioni che mi portarono
ad esercitare tutta la forza rimastami sul polso del mio assalitore,
artigliandovi con rabbiosa convinzione le unghie sottili.
Sentii la mia
pelle formicolare sui polpastrelli e un alone luminoso oltrepassare la barriera
acquosa formatasi sui miei occhi lacrimanti. Eppure i miei denti erano serrati
in una smorfia adirata che, ne fui certa quando sentii quella stretta farsi
nettamente più marcata, non sfuggì all’altro.
Rideva.
Era tutto quello che
riuscii a pensare, mentre lo strano bagliore scaturito dalle mie dita fu
subitamente sostituito da l’odore di pelle bruciata ed un urlo di dolore.
La mia gola fu
liberata all’istante, lasciando finalmente che l’aria tornasse violentemente a
scorrermi verso i polmoni, benvenuta come mai era stata in tutta la mia vita.
Caddi sul pavimento tossicchiando e massaggiandomi il collo con una mano.
La mia vista si
rischiarì, permettendomi di capire in che situazione mi trovavo.
La strana figura
dinanzi a me stava rannicchiata su se stessa, tenendosi il braccio lanciando
imprecazioni certamente non molto velate. L’odore di pelle abbrustolita aveva
ormai riempito tutto il corridoio, ma non ebbi cuore di pensarci oltre.
Ero prontamente
scattata sulle scale, più veloce che mai, arrivando a pochi centimetri dalla
maniglia.
Mi venne quasi da
urlare vittoriosa quando il freddo metallo del pomello entrò a contatto con la
pelle delle mie dita, abbassandosi con un poetico cigolio.
Un secondo dopo
ero fuori, circondata dalla protettrice
luce delle stelle.
Solo che quello
che mi trovai di fronte non sfiorò minimamente le mie catastrofiche
aspettative.
Scattai la testa
da una parte all’altra del ponte, gremito di gente mai vista prima. Cosa strana
perché bene o male gli uomini della nave si riconoscevano bene per via di
tatuaggi o di altri segni contraddistitivi.
Era la mia
impressione… o si erano aggiunte altre persone?
“OI SHUKUTAI!!!”
“Eeek!”
Atto 6, scena 14
“NIPOTE DEGENERE!!!”
Gli occhi di
Monkey D. Garp, più fiammeggianti di quelli di un Re dei Mari imbestialito per
essersi fatto fregare il pranzo da un branco di squaletti agguanta-carogne,
erano in quel momento puntati sulla figura imbarazzata, e scomodamente al
centro dell’attenzione, di Portuguese D. Ace.
Il giovane si
stava massaggiando la testa, rielaborando ad una velocità mostruosa centinaia
di piani per levarsi velocemente da quella situazione scomoda, ma solo per
scartarli subito dopo.
Come spiegava
adesso al babbo che, oltre ad essere il figlio consanguineo del suo più
acerrimo rivale, era anche il nipote adottivo di nientemeno che un marine dal
rispettabile grado d Vice-ammiraglio?!
“Ehilà. Ciao
Nonno.” Gli venne solo da rispondere grondando sudore da tutti i pori, lasciando
di stucco tutta la ciurma, persino Edward Newgate era rimasto sorpreso della
risposta del figlio.
Gli unici che
facevano a meno di spalancare oscenamente le mascelle, come già stavano facendo
i figli dell’imperatore Bianco, erano i pirati di Shanks il Rosso, saliti sul
ponte della Moby sotto esplicito consenso del capitano stesso alla domanda
postagli dal Rosso.
“Che ne diresti
di mettere da parte divergenze inutili e coalizzarci per proteggere le nostre
navi solo per questa volta?” aveva chiesto, non proprio umilmente, l’imperatore
dai capelli rossi, sorridendo sfacciato. Era stato un miracolo che Barbabianca
avesse deciso, per una volta tanto, di dare corda a quel mocciosetto, ma
d’altra parte, con le infermiere bloccate con loro sul ponte principale e la
piccola naufraga chiusa nell’ambulatorio della nave, non poteva rischiare di
provocare gravi danni all’imbarcazione, sapendo in che modo sarebbe stato
diretto l’attacco.
E infatti una
palla di cannone fischiò a pochi millimetri dall’orecchio di Ace, prontamente
intercettata dalla mano diamantina di Jaws, che la ridusse all’istante in tante
piccole briciole ferrose.
“GGGNFFHH!!! COME OSI RIPRESENTARTI DAVANTI A ME COSÌ SPENSIERATAMENTE
DOPO QUELLO CHE HAI COMBINATO!?”
Ormai il naso di
Garp il Pugno sbuffava getti di vapore alla stregua di una ciminiera,
provocando in Shanks, in piedi accanto al vecchio Newgate, una risatina a
malapena sommessa. Era uno spasso vedere il vecchio alle prese con il nipote
ribelle.
“Bhe, nonno… se
vogliamo essere precisi io non mi sarei lontanamente sognato di ripresentarmi
…” puntualizzò il moro, sorridendo nervoso mentre si riaggiustava con una mano
la falda del cappello, volatogli quasi via a causa dell’attacco precedente.
“… sei stato tu a
venire a trovar-..”
Un’altra sfera di
metallo, questa volta diretta al suo viso, schivata appena in tempo con un
rapido movimento del ragazzo, chinatosi su se stesso con una mano ben salda sul
proprio copricapo arancione.
Ace continuava a
sorridere imperterrito, nonostante il suo istinto, benedetto istinto, gli stesse
suggerendo vivamente di darsela a gambe levate come mai in vita sua.
Non era sua
abitudine scappare di fronte a qualcosa, tutt’altro, ma eccezionalmente suo
nonno riusciva a risvegliare quel suo desiderio di autoconservazione come
nessun’altro al mondo.
“Eddai nonno. Non
fare così.” Fece accondiscendente, come se quella che aveva appena schivato
fosse stata solo una semplice ciabatta polverosa.
“TACI! GGNNNFFH! DEVI SOLO SPERARE CHE UNA TEMPESTA SI INTERPONGA TRA
ME E QUELLA BAGNAROLA SU CUI SEI IMBARCATO! PERCHÉ NON AVRAI ALTRO MODO DI
SFUGGIRE ALLA TUA GIUSTA PUNIZIONE! MOCCIOSO INSOLENTE!”
Ace sbuffò
sconsolato, rinunciando definitivamente a far ragionare il nonno.
Marco gli si
accostò proprio in quel momento, scrutandolo incuriosito proprio come Satch,
Jaws e Vista, che avevano seguito il suo esempio, attendendo pazientemente come
lui qualche spiegazione da parte del fratellino.
“Tuo nonno?”
chiese con fare incredulo Marco e la testa di Ace ciondolò sconsolatamente in
avanti.
“Già … ”
“Ma che gli hai
fatto per farlo arrabbiare così tanto?” domandò Satch, accostando una mano alla
fronte per aguzzare lo sguardo verso il marine. Il moro si abbassò ancor più
abbattuto al pensiero del motivo per il quale il suo vecchio stava cercando di
ridurre la nave del babbo ad un pezzo di groviera.
“Sono diventato
un pirata.” Disse con fare ovvio, mentre con uno slancio si rimise in piedi,
stavolta più serio e deciso in volto, pronto più che mai a rispondere per le
rime agli attacchi a catena del vice-ammiraglio.
Una nuova
scariche di palle di cannone si proiettarono verso di loro, ma stavolta Pugno
di Fuoco non rimase impassibile e, con un rapido movimento del braccio, ne
deviò una diretta proprio al suo petto, scagliandola talmente lontano da farle
perdere forza, piombando così in mare aperto.
Un fischio di
ammirazione sfuggì dalle labbra di Satch nel notare la piega che aveva preso la
discussione.
“Ci va proprio
giù pesante con te, neh?”
“Credimi.”
Sospirò Ace sorridendo ancora un po’ abbattuto “Questo non è neanche la metà.”
“Bene. Allora
direi che si può cominciare.”
Gli occhi dei
quattro comandanti s puntarono all’unisono sulla maestosa immagine di Shanks il
Rosso, interpostosi tra loro con la solita fierezza.
“Ehi, Shanks.” Lo
salutò Ace con un cenno del cappello, per poi incrinare la voce con un vago
tono di rimprovero “Ma ti pare il modo di venire a trovare la gente? Avresti
potuto fare a meno di portartelo dietro.” Concluse il ragazzo riferendosi
chiaramente alla presenza del nonno.
Il Rosso si
limitò a ridere senza alcun cenno di imbarazzo, mettendo mano all’elsa della
propria spada estraendola poi con una velocità tale da renderla quasi
invisibile per un istante, troncando di netto ben quattro sfere ferrose
scagliate dalle mani del nemico.
“Mi farò
perdonare più tardi.” Promise brevemente il pirata, lasciando sottinteso quello
che potè esprimere pienamente con una delle sue consuete espressioni giulive: Adesso pensiamo a divertirci.
Ben Beckman a
volte si trovava indeciso su come descrivere il suo capitano: c’erano momenti
in cui lo definiva semplicemente pazzo, seguendo l’esempio di molti, altre
volte invece lo definiva solamente stupido.
Ma stupido
davvero.
Atto 6, scena 15
“Fa uno strano
effetto essere sulla nave del vecchio Newgate, non trovate?”
La voce di
Yasopp, aveva miracolosamente sovrastato il rumore delle bombe di Garp,
facendosi sentire dai propri compagni, radunatisi attorno a lui e gli altri
ufficiali della Red Force, riuscendo comunque a mantenere una calma di per sé
fantastica.
Insomma. Erano su
una nave nemica e sotto attacco di uno dei più temuti Marine in circolazione.
Di certo mantenere
il sangue freddo in un momento simile non era cosa da poco.
Accanto a lui
Lucky strappava ed inghiottiva dai rimasugli del proprio cosciotto gli ultimi
bocconi di un ottimo spuntino di mezzanotte, annuendo e sorridendo solennemente
alle sue parole, apparentemente non facendo caso alle meteoriti che saettavano
allegramente sopra le loro teste.
“Auguriamoci di
non metterci le radici o peggio le ossa.” Borbottò Ben con i denti leggermente
stretti attorno al filtro della propria sigaretta, mettendo mano alla fedele
baionetta, poggiata come al solito sulla spalla.
“Sempre ottimista
tu, eh?” gli fece eco il cecchino, lanciandogli un sorrisino ironico.
Poco distanti da
quel breve scambio di battute, il viso bianchiccio e leggermente squadrato di
Roid colava sudore da ogni poro, irrigidendosi ad ogni fischio che le palle di
cannone perforanti l’aria della notte provocavano.
“Non ha tutti i
torti.” Sussurrò lugubre di fronte al pragmatismo distruttivo del
vice-capitano, rivolgendosi a nessuno in particolare, dato l’enorme spazio
vuoto che si era formato attorno a lui non appena aveva osato cercare riparo
nel punto dove i suoi “compagni di ciurma” si erano ammassati in maggiore
quantità.
Roid Brinata
aveva sempre avuto grandi progetti per la propria vita: diventare ricco,
comprarsi un titolo nobiliare, abitare su una bella e lussureggiante isola
estiva ed acquistare almeno una dozzina di schiave avvenenti.
Non era però così
tanto certo di poterli realizzare in quel momento, vista la sua attuale
situazione.
Era un ex mercante
di schiavi in mezzo a non una, ma ben due ciurme di pirati pronti a testare sul
suo scalpo i fili delle loro spade. Bhe… diciamolo tranquillamente: era praticamente
passato dal ventre della vacca al letame.
Era uno di quei
casi in cui l’orgoglio maschile andava a farsi un lungo giretto, lasciando
spazio ad un solo e disperato pensiero.
Mammina.
Sarebbe rimasto
lì ad autocompatirsi per tutto il resto dell’attacco se i suoi occhi, forse nel
tentativo di trovare rifugio dalla pioggia metallica lanciata dai marines, non
avessero notato qualcosa di luccicante sporgersi da dietro una delle botti di
sake accostate alla porta della sottocoperta.
Non avrebbe mai
immaginato di ritrovare su quell’immensa imbarcazione nemica una faccia
famigliare. Tantomeno quella della piccola strega che aveva fatto naufragare la
sua nave.
Roid Brinata non
fece caso al fatto di essere in territorio nemico, né tantomeno allo strano
bagliore che gli occhi della ragazza avevano assunto, sostituendo il loro
colore naturale con una gradazione diffusa su tutta l’iride. La pupilla era
diventata arancione, confondendosi con il resto dell’occhio, sfumato di un
colore eguagliabile solo alla luce dorata di una fiamma.
“TU!!”
E l’ex mercante
di schiavi non si curò di quell’assurdo particolare, mentre sguainava con
convinzione il proprio coltello estraibile dalla tasca dei pantaloni,
avvicinandosi a grandi passi verso la fonte dei propri guai.
“Tu, piccola puttana!”
Il suo urlo per
sua fortuna si confuse con l’ennesimo scoppio di una delle palle di cannone
scaraventate in aria, ma non impedì alla piccolina di accorgersi dell’imminente
pericolo.
I suoi occhi
gialli si allargarono dalla sorpresa, saettando velocemente sull’arma impugnata
dallo sconosciuto al viso di quest’ultimo, per poi farla scattare
repentinamente in piedi e scattare il più rapidamente possibile tra la folla
radunata davanti a lei.
Le labbra di
Brinata si storsero in una smorfia animalesca, mentre vedeva quella streghetta
farsi strada tra i membri della sua nuova ciurma, spintonando con le sue
piccole braccia chiunque le stava davanti.
Ma non aveva una
meta precisa. Roid lo capì immediatamente, non appena vide in che modo
avanzava.
Confuso, Impaziente,
Caotico.
Una preda fin
troppo facile.
Con un sorriso l’uomo
si infilò di nuovo il coltello nei pantaloni cominciando ad aggirare con
facilità il percorso della ragazza, trovando una scorciatoia che lo portò a
ritrovarsela proprio davanti, tremante e sconvolta come non mai.
“Ti ricordi di
me?” la schernì rimettendo mano alla lama, vedendola indietreggiare d’istinto,
ormai con tutte le vie di fuga bloccate da persone troppo prese dall’evitare l’attacco
nemico.
La piccola lo
osservò ancora per un istante, stringendo un attimo gli occhi, per poi
spalancarli con consapevolezza.
Allora si
ricordava. Oh. Eccome se si ricordava. Che senso avrebbe avuto scappare
altrimenti?
“Bene.” Fece lui,
avanzando di un passo, notando con piacere che la ragazza si era irrigidita per
la paura “Allora MUORI!!”
Atto 6, scena 16, Arioso doloroso
Non sapevo chi
fosse. Né che cosa volesse da me.
Ma qualcosa nel
suo viso mi inondò in un istante la testa con una terribile sensazione di
dolore. Una scossa elettrica che mi perforava il cranio.
Non lo vidi
arrivare.
Scivolai
semplicemente per terra, con le gambe troppo deboli per sostenermi un istante
di più, e mi presi la testa tra le mani, guardando in preda al panico il legno
davanti a me.
Uno spostamento d’aria
più veloce mi colpì le braccia, facendomi sobbalzare il petto per lo spavento e
urlare con tutta la frustrazione che mi trovavo in corpo, mentre mi paravo il
capo con le mani.
Di colpo tutto
divenne silenzioso e calmo. Non c’erano più fischi in aria, né urla, né il
leggero fresco della brezza notturna. Era come se attorno a me si fosse formata
una bolla di sapone, separandomi dal resto del mondo.
Quando riaprii le
palpebre non rialzai lo sguardo, ma vidi le assi del mondo apparirmi in modo
differente.
Non erano più
marroni, ma arancioni. Era come se fosse diventato tutto più chiaro. Più di
quanto lo era stato prima, quando lo strano formicolio si era trasferito
improvvisamente agli occhi, schiarendo lievemente il paesaggio notturno della
nave.
Con la coda dell’occhio intercettai la
posizione dei miei gomiti, ritrovandomi a fare i conti con qualcosa di
inaspettato.
Fiamme gialle.
Crepitanti come se si stessero cibando della mia pelle, ma dolcemente tiepide
al tatto.
Innoque.
Feci appena in
tempo a notare il modo in cui ricoprivano tutto il braccio partendo dalla
spalla fino alle punte delle dita, prima di ricevere una nuova fitta alle
tempie, talmente violenta da farmi premere di nuovo le mani, sempre infuocate,
tra i capelli, stringendo i denti nello sforzo di reprimere un altro urlo.
Le mie orecchie
si riempirono poi di frase sconnesse e veloci.
[Ehi! Ma tu…!][Non è sicuro avvicinarsi a
quello!!] [Ti prego….! Ripensaci!][Col cavolo che ti lascio da sola!]
E i miei occhi
cominciarono a vedere qualcosa di diverso dal pavimento ligneo della nave.
Qualcosa che
sapeva di ricordi.
Fine seconda parte Atto Sesto.
Lo ammetto. Per questo capitolo ho fatto più fatica del previsto. Sia
a causa degli esami che dell’afa estiva che abbatteva continuamente la mia
ispirazione.
Bene bene. Ora che ci troviamo qui, capirete come si sta svolgendo la
storia.
Sia chiaro. Io per Shanks ho un’adorazione assoluta. Qualunque
descrizione che possa aver fatto pensare il contrario non ha niente a che
vedere con il mio pensiero personale! ^^
Allora. Il risultato del sondaggio si è concluso in parità (contando
voti indecisi come doppi) e quindi mi sono ritrovata a prendere codesta
decisione: le descrizioni di Momo si limiteranno ai segni particolari più
citati, senza entrare nel dettaglio.
Vi sta bene?
Non ho messo molto in questo Atto, ma tornerò all’attacco nel
prossimo. Ehehe.
Ok… Adesso passiamo alla domanda odierna:
Momo
comincerà a ricordare qualcosa, ma ricorderà il proprio nome?
E ancora…
Come
reagirà la ciurma di Shanks alla vista delle capacità della piccola?
Bene! E con questo concludiamo! Spero vi sia piaciuta la lettura e che
continuerete a seguirmi.
Bye bye! XD
Note di LIBRETTO: Jap >
Ita
Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi
> Eh, no, piccola. Niente Gorgheggi.
Hontōni suteki na
kēki > Davvero
un bel bocconcino.
OI SHUKUTAI! >
NIPOTE DEGENERE!