«Ragazzi, state molto
attenti. Perché se
qualcuno ha voglia di non prendere il diploma…»
La voce della professoressa era
squillante, troppo acuta quando pronunciava certe sillabe che si
conficcavano
nella orecchie e calcavano quell’accenno di mal di testa.
Era l’ultima ora.
La maggior parte degli alunni della
classe di storia era spalmata sul qualsiasi superficie, verticale o
orizzontale
che fosse, e annuiva automaticamente pregando qualsiasi Dio
affinché la
giornata finisse il prima possibile.
La nuova insegnante sedeva dietro
la
cattedra. Era una bella donna e i lunghi capelli neri erano lasciati
sciolti
sulle spalle, quando si muoveva formavano strane onde in corrispondenza
delle
orecchie.
La parte maschile della classe, se non
dire della scuola, era rimasta subito ammaliata da lei ma dopo aver
assistito
ad almeno cinque minuti della sua lezione la maggior parte aveva
già iniziato a
cambiare idea.
Kiba e Kankuro, però, seduti agli ultimi
due banchi l’avevano lasciata parlare per tutta
l’ora su qualcosa di
probabilmente inutile senza degnarla di uno sguardo.
Quella era l’unica materia dove si erano
ritrovati soli da quando si erano ritrovati nel mezzo del corridoio.
Era irreale. Assurdo e totalmente
imprevisto.
Averlo di nuovo proprio lì, seduto al
banco vicino al suo, era come un sogno. Non riusciva ancora a capire se
quella
sensazione fosse positiva o meno.
Infondo si ricordava fin troppo bene la
partenza dell’amico nonostante fossero passati quasi sei
anni, e la litigata
che li aveva visti protagonisti giusto poche ore prima che
quell’aereo, proprio
quello che raccolse la famiglia disastrata dei Sabaku, lasciasse
l’aeroporto di
Boston.
Era come se ci fosse sempre stata, in
tutti quegli anni, una questione in sospeso.
La sentiva aleggiare proprio sulle loro
teste in attesa, aspettando il momento giusto per precipitare su di
loro.
Nonostante quella sensazione, si girò
verso il compagno sorridendogli.
«Kiba, Kiba, Kiba… Tu non me la racconti
giusta. Cos’è quel sorrisetto?»
«Mah, uno non può neanche essere
contento di rivedere un suo amico»
Effettivamente non era solo un
amico.
Kankuro era stato il suo primo migliore amico, ancora prima di
Shikamaru.
Quando pensava alla sua amicizia con
l’attuale fidanzato non pensava di poter trovare nei ricordi
qualcosa prima di
lui, invece ancora più indietro c’era quello
strano individuo che gli sedeva di
fianco.
Abitavano a pochi passi e il loro
giardino era diviso solo da una staccionata e da una siepe che allora
sembrava
una enorme muraglia.
Quando si conobbero, aveva solo cinque
anni e i suoi genitori immaginavano che avrebbe fatto amicizia con il
bambino
della sua stessa età della famiglia che si era appena
trasferita nella casa che
confinava con la loro. Invece quel ragazzino gli aveva sempre fatto
quasi
paura, con quegli occhi così grandi e così
chiari. Nel quartiere era riuscito
ad avvicinarlo solo quel pazzo di Naruto.
L’Inuzuka invece aveva preferito
diventare amico del ragazzo nel mezzo. Totalmente diverso da i due
fratelli,
visto che oltre al ragazzino rosso in famiglia c’era anche
una ragazza che
aveva sempre trovato isterica e con cui non ricordava di aver mai
parlato.
«Già. Anche io
sono contento di
rivederti, cagnaccio. Perché non mi racconti? Deve essere
successo qualcosa
mentre non ci sono stato.»
Il ragazzo col viso dipinto di
rosso arrossì
leggermente e lo guardò di sfuggita sperando di nascondere
quell’eccessiva
colorazione delle sue guance.
Non poteva raccontargli mica di
Shikamaru.
«Inuzuka sei arrossito.
Ora mi
racconti.»
«Io non sono arrossito!»
«Oh sì, che lo sei. E se continui a
negare i tuoi miseri triangolini si mimetizzeranno.»
Facendo finta di studiare un
vecchio
planisfero scolorito appeso alla parete sulla quale appoggiava il suo
banco
nascose la viso dagli occhi curiosi del Sabaku.
«Misonofidanzato.»
«Comecomecome?»
Il castano, con ancora
quell’esagerato
cappuccio nero sulla testa, si stava divertendo troppo a vedere il suo
amico
così imbarazzato. Avrebbe voluto sfotterlo ancora un
po’ ma, conoscendolo
abbastanza bene, si trattenne quando tornò a guardarlo con
quegli occhi da
cagnolino bastonato.
«Kiba ma che ti succede?
Anche in
corridoio, ieri, sembravi completamente un’altra persona.
Stavi pensando a
questa fantomatica fidanzata?»
«Ecco, si, anche se veramente...
Kankuro.»
«Dimmi.»
«Di te posso fidarmi ancora come una
volta giusto? Sono passati tanti anni, ma sei ancora il mio amico, a
cui posso
raccontare tutto senza nessuno scrupolo. Giusto?»
Era un discorso strano, soprattutto
se
usciva dalle labbra carnose del suo vecchio amico. Lui annuì
inquieto. Ormai
non sapeva più cosa aspettarsi.
«Ecco credo
di… Io mi sono innamorato e
questa… Persona adesso è
all’università, in un’altra
città e, beh mi manca.»
«Tutto qua?»
La testa contornata da corti
capelli
castani a spina si tirò su di scatto e si girò
verso l’elemento insensibile che
aveva alla sua destra. La sua mano chiusa a pugno cercò di
colpire il braccio
dell’altro senza molto successo visto che con un veloce
movimento era riuscito
a bloccargli il polso.
«Kiba. Spero vivamente
che questo non
sarà l’atteggiamento che avrai tutto
l’anno. Il tuo ragazzo è via? Beh, mi
dispiace per te ma questo non vuole dire che devi ammosciare il tuo
caratteraccio.»
Con ancora il braccio bloccato e
gli
occhi incatenati a quelli di Kankuro si sentiva sconvolto. Aveva capito tutto.
Sentiva nascere una risata dal petto,
una sensazione di allegria e di libertà che non sentiva da
quando, beh da
quando Shikamaru non era di fianco a lui.
Rise a pieni polmoni sotto lo sguardo
sconvolto dell’intera classe, quello divertito del compagno
di banco e quello
irritato della professoressa che si era alzata e che camminava tra i
banchi e
che lo guardava a pochi metri da loro.
«Inuzuka giusto? Trovi
tanto divertente
la mia lezione?»
«No professoressa.»
«Allora cosa scaturisce questa tutta sua
ilarità? »
«Il fatto che il mio migliore amico sia
nella mia stessa classe dopo anni che non ci vediamo, professoressa.
»
Il trillo dal retrogusto metallico
della
campanella sorprese tutta la classe che, con le cartelle già
pronte, scappò
dalla classe velocemente.
Looking back .
Il
grigio marciapiede accoglieva impassibile i loro passi; quattro piedi,
un
numero minuscolo che si sarebbe presto perso in tutti quelli che
quotidianamente lo calpestavano.
Una
delle due persone era lenta, in un certo senso esitante,
l’altra più veloce e
decisa.
«
E così sei riuscito a saltare l’anno. »
«
Mh. »
«
E sei venuto qua a New York. »
«
Mh. »
«
E ti sei fatto ammettere alla Columbia –rispondimi
un’altra volta a monosillabi
e finisci sotto la prima auto che passa. »
Shikamaru
deglutì spaventato, sbirciando circospetto la figura al suo
fianco.
Non
era riuscito, nonostante il terrore che collegava a quella visione, a
dimenticare quei quattro codini e quella figura mascolina.
Dopo
tutti quegli anni –e ne erano passati tanti, era rimasta
identica alla
ragazzina che conosceva; identica, eccezion fatta per quella
prorompente
femminilità che, impossibile da nascondere, prevaleva su
quella che era il
maschiaccio del quartiere, l’uomo mancato.
Si
ritrovò involontariamente a sorridere.
Un
seccatissimo pezzo di passato si era fatto nuovamente vivo nella sua
vita, ed
in modo alquanto arrogante; tuttavia non riusciva a non essere un
po’
sollevato.
In
fondo, sentiva che, grazie a Temari, non era più in un
universo parallelo a cui
non apparteneva realmente: si era creato una sorta di collegamento con
Boston,
con la sua vita.
Era
un filo debole, quasi trasparente.
Eppure,
per vie traverse ed intricate, li accomunava legandoli a quella
città dove
avevano condiviso diversi tormentati
anni assieme.
La
famiglia Sabaku era originaria dell’Arizona, ma si era
trasferita a Boston, nel
suo stesso quartiere, a causa di diversi avvenimenti che non aveva mai
conosciuto; era stato un attimo conoscersi, nel periodo in cui si
stavano
creando tutti quei legami che erano rimasti per lui i più
saldi.
Lui
l’aveva immediatamente –e a ragione!- etichettata
come Seccatura, la più grande
che avesse mai conosciuto; e anche lei, per una serie di avvenimenti
che non
aveva piacere di riferire né ricordare, era arrivata ad una
sua personale
definizione.
Poi,
dopo una manciata di anni, si erano tutti
ritrovati in aeroporto a salutare con le lacrime agli occhi i tre
fratelli
Sabaku che, a testa bassa, tornavano in Arizona: in quel momento aveva
incrociato il suo sguardo, e aveva chiaramente sentito che, in ogni
caso, la
Fortuna non sarebbe stata così benigna con lui da levargli
di torno una volta
per tutte quella ragazzina terrificante.
E
si sa, i presentimenti non mentono mai.
«
E tu sei riuscita ad andartene di nuovo dall’Arizona?
»
Lei
si voltò sorridendogli radiosa, e senza parlare
accelerò l’andatura.
Lui
sospirò.
Non
era mai stata una ragazza loquace, per quanto riguardava il suo
passato; teneva
tutto per sé, racchiudeva al suo interno anni di sofferenze
–perché, da quello
che aveva sentito, ce ne erano state parecchie- e cercava di impedire
che esse
fuoriuscissero e venissero recepite da chi le stava intorno.
Era
una sorta di stratagemma che aveva trovato, per come la vedeva lui, per
impedire che tutto ciò pesasse eccessivamente sulle spalle
dei fratelli minori.
Improvvisamente
si illuminò: era sul punto di domandarle che fine avessero
fatto Kankuro e
Gaara, se abitassero con lei a New York o come stessero, quando lei lo
fermò
con un cenno della mano giusto di fronte ad una porta in legno stretta
in un
angolo di un palazzo, quasi a volersi nascondere.
«
Nara, io mi fermo qua. »
Lui
la fissò stranito: « Ma non abiti
dall’altra parte del quartiere? »
La
vide sgranare lievemente gli occhi, e una scintilla di comprensione
attraversarli pochi istanti dopo.
«
Non te l’ho detto? Lavoro qua. Che ne dici di bere un goccio?
Potresti
approfittarne per raccontarmi come vanno le cose a Boston, come stanno
gli
altri, o come ti va a ragazze.
»
Shikamaru
rabbrividì, mentre Lei pronunciava quell’ultima
parola quasi con un sogghigno,
enfatizzandola con uno studiato scattare delle chiavi nella serratura.
La
ragazza non era stupida né cieca e lo conosceva bene, si
ritrovò a constatare
sospirando.
Evidentemente,
non ci sarebbe stato bisogno di alcuna spiegazione biascicata a pezzi,
per dirle
che le maledizioni della madre, riguardanti donne che lo avrebbero
sposato e
poi messo in riga, avevano una scarsa possibilità di
risultare veritiere, in un
giorno lontano.
Mise
piede oltre l’ingresso, titubante, stringendo gli occhi per
abituarsi alla
penombra del locale, interrato di un paio di gradini.
Uno
strano odore di chiuso, di alcool e di fumo lo raggiunse
immediatamente, ma non
lo turbò; anzi, riuscire ad attribuire a quei posti
sconosciuti degli odori,
identificandoli in qualche modo, era decisamente confortante.
Rispose
al sorriso con cui Temari lo invitava a sedere al bancone e prendere
l’aperitivo che gli veniva offerto e, tra un prosecco e
l’altro, parlarono.
Dei
loro sogni, di cosa li aveva portati a New York, in
un’Università prestigiosa.
Lei
gli raccontò dell’Arizona, di come fossero stati
tutto sommato buoni i parenti
da cui erano stati mandati quando il padre era morto; morto o stato
ucciso? Non
lo sapeva, e nemmeno le importava, detto francamente. Gli
raccontò del loro
ritorno, dei problemi adolescenziali di quell’idiota ribelle
di Kankuro, della
psiche instabile di Gaara. Di come lei aveva deciso di studiare in
un’Università come la Columbia, e dare un senso
alla sua vita.
E
anche lui, le bollicine che gli arrivavano dritte al cervello
facendogli girare
la testa, le spiegò tutto quello che era accaduto a Boston
da quando lei se ne
era andata. Della morte del maestro Asuma, dei loro amici, dei problemi
con
quel testardo di Sasuke alle prese con faccende più grandi
di lui e di
quell’idiota di Naruto che, a furia di assillarlo e stargli
appiccicato, era
riuscito a farlo innamorare di sé. E, con una risata
nostalgica, gli raccontò
di Kiba, della sua scelta di andarsene e lasciarlo là, della
paura che aveva di
aver fatto un’idiozia e di finire col perderlo.
Shikamaru
se ne andò solo quando, tra i mucchietti di universitari
stanchi e presi
dall’aperitivo del venerdì, un ragazzo decisamente
inquietante prese a ballare
sul bancone; non aveva voglia di rovinarsi la serata ricordando quanto
Temari
sapesse picchiare forte, così salutò e
fuggì, stringendo gli occhi quando
l’aria fresca lo investì una volta aperta la porta.
E,
aspettando la metropolitana, prese una decisione. Recuperò
il cellulare, e gli
scrisse.
Era inutile tranciare i contatti con la sua vita precedente solo per paura di ritrovarsi a correre via dal futuro; forse, se avesse costruito un ponte abbastanza resistente, non avrebbe dovuto rinunciare né all’una né all’altra cosa.
Fine
Ed eccoci qua, alla
fine di un altro capitolo della nostra faticosissima Mosca Fucsia. Ci
abbiamo messo molto di più di quanto sperassimo e mi auguro
che la prossima volta passerà meno tempo. Ci
scusiamo moltissimo per il ritardo.
In questo
periodo però noi non siamo state con le mani in mano e oltre
a scrivere questo capitolo abbiamo iniziato un nuovo progetto Fucsia,
ovvero un forum delle quali siamo amministratrici. Se amate la coppia
sarebbe bello se faceste un salto e se ci aiutaste a farlo crescere
visto che è appena nato.
Il link è il seguente http://shikakibaforum.forumfree.it/
Grazie
per aver letto, se vi è piaciuto o credete che qualcosa non
vada lasciate un commento. Siamo sempre aperte a critiche costruttive.
Un saluto, Sacchan e Nacchan (che tra l'altro non sono nomi derivanti
Naruto e Sasuke, ma da Saretta-chan e Nana-chan, i nostri soprannomi xD)