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Autore: Hakigo    29/06/2010    0 recensioni
RACCONTO IN REVISIONE!
Cit Cap. 6: [Lo guardai imbarazzata e indignata, mordendomi il labbro, aspettando la sua reazione, ma lui mi stava semplicemente guardando, imbacuccato dentro Il suo cappotto da mille dollari e la dentro la sua sciarpa firmata. Sorrideva, col naso rosso e gli occhi brillanti.
In quel momento, quando mi sporsi verso di lui e lo baciai, capii.
La mia non era una cotta. Era qualcosa di dannatamente serio, troppo serio.
Mi cacciavo sempre nei guai, ma che potevo farci se non potevo vivere senza I miei stupidi problemi? Capii che l'amore non ha ostacoli, non ha pregiudizi, non ha ragione. L'amore è come una clessidra: se si riempie il cuore, la mente si svuota. Lui, quell'uomo splendido che mi teneva stretta a sè con il giornale ancora tra le dita, era il mio amore, il Dio del mio cuore e non avrei potuto impedirlo. L'amavo, l'amavo tantissimo e non avrei permesso al mio cervello di farmelo scappare, non ora che ne avevo tremendamente bisogno.
Quel bacio di una mattina gelida di settembre, mi scaldò più della cioccolata calda che ora giaceva impotente sul marciapiede.]

Un racconto attuale, che non mette da parte le difficoltà che propone la vita. Il tutto misto ad una tenera storia d'amore della protagonista Irene, un'italiana amante dell'arte e della buona cucina.
Buona lettura.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Sono bianche – risposi acida come avevo risposto in strada al mio collega.
- Norman! Aveva la mia macchina fotografica! Mi fermai di botto e sentii l'altro sbattere contro la mia schiena mentre mi passavo una mano sulla fronte. Poi arrivai ad un altro concetto e mi voltai innervosita ed imbarazzata – Mi stavi guardando il culo?! - chiesi cercando di mantenere la calma, anche perchè c'erano delle persone dentro le case di quel piano e non mi pareva il caso di dargli spettacolo. Mi guardò stupito, non aspettandosi un'uscita simile.
- Non posso? - chiese ovvio guardandomi interrogativo.
- No che non puoi! Diavolo, Angelina è all'ospedale e mi torna un pervertito! - dissi riprendendo a salire le scale, lasciando il discorso in sospeso.
- Come ti chiami? - mi chiese. Come faceva a non sapere il mio nome? Possibile che Angelina non glielo avesse detto?
- Prova a indovinare – provai a chiedere. Il mio nome non era americano. Se non sapeva il mio nome non poteva arrivare alla soluzione al primo tentativo!
- Irene – lo sapevo. Stava solo tentando di mantenere una conversazione e la cosa mi dava sui nervi.
- Bravo - arrivai davanti al mio appartamento al terzo piano e lui mi era ancora dietro – Smettila di seguirmi e vai a casa – acida, seccata. Sicuramente non potevo sembrare una persona sociale con quel tono e me ne pentii, perchè fino ad allora avevo sempre cercato di mostrarmi gentile con tutti. Peccato per lui, ma proprio non lo sopportavo.
- Cosa sono un cane? - chiese sarcastico ridendo – In realtà speravo che tu mi chiedessi di entrare – si sbrigò ad aggiungere, vedendo che avevo aperto la porta e stavo entrando in casa.
- Vai a casa – ripetei entrando, rimanendo sulla porta, con la maniglia in mano, pronta a chiudere.
- Mi sentirò solo nell'appartamento di mia madre! -
- Senti, io devo prepararmi per andare a lavoro. Devo riprendere una cosa dal mio collega. Tu intanto, perchè non sistemi un po' la casa e ti fai una bella dormita? Ti prometto che stasera scendo da te e ti preparo la cena – promisi, non dando a vedere quanto in realtà fossi seccata, ma dopotutto, cucinare non mi dava così fastidio.
- A stasera! - disse sorridendomi e io gli chiusi la porta in faccia, ridendo per quello che avevo appena fatto. Ciancio alle bande! Ehm, bando alle ciance, dovevo lavarmi, cambiarmi, passare all'ufficio di Norman e riprendermi la mia macchina fotografica.
Mi vestii semplice, con un paio di jeans neri, una camicetta ed un gilet. Decisi di tirarmi su I capelli e portavo la solita collanina con il piccolo crocifisso di legno come pendente. Inforcai gli occhiali da vista e scesi le scale velocemente. Per fortuna non ero un'appassionata di scarpe col tacco, altrimenti sarei sicuramente rotolata per tutta la scalinata a quella velocità.
Andai al garage, presi la macchina e andai verso l'ufficio.
Fortunatamente Norman non era in riunione. Raggiunsi la sua postazione, bussando ai pezzi di compensato che facevano da divisori tra una scrivania e l'altra, attirando l'attenzione del mio collega.
- Ehi! - salutai e lui si voltò a guardarmi, sorpreso, perchè quello non era il mio ufficio.
- Splendore! - mi chiamò – Qual buon vento? -
- Ieri la mia vicina si è sentita male e ti ho lasciato la mia macchina fotografica...Scusa se sono corsa via così, ma lei per me è come una madre! - mi giustificai.
- No problem. Eccola qui. - disse, spostandosi con la sedia verso la sua tracolla, prendendola e tirando fuori la mia adorata macchina fotografica. Allungai la mano per prenderla ma lui ritirò il braccio. Lo guardai interrogativa.
- Cosa? - chiesi curiosa, aggrottando le sopracciglia.
- Ad una condizione – esordì lui e indicò le proprie labbra.
- Ma non ci penso proprio! - sbottai imbarazzata ma lui non accennava a spostarsi – Lo sai che non mi piacciono I ricatti. - gli ricordai e lui sorrise.
Allungai il braccio verso la macchina – Non dirai sul serio, spero! - ma lui non si smuoveva. Norman era come un mulo, non si smuoveva davanti a niente per nessuna ragione. Sbuffai, pensando ad una soluzione. Alla fine decisi di incastrarlo e gli feci cenno di alzarsi. Ormai da fuori la gente ci osservava curiosa. Succedeva così tutte le volte! Sotto mia richiesta lui si alzò sorridendomi, venendomi incontro, tenendo la mia adorata macchina fotografica ben alta. Aveva pensato a tutto diamine. Non lo avrei baciato neanche per tutto l'oro del mondo...anzi, forse per l'oro avrei potuto anche farci un pensierino, però ora il discorso era un altro. Non lo avevo baciato fino ad allora e non lo avrei baciato adesso.
Lo vidi fare l'occhiolino verso qualcuno alle mie spalle. Mi voltai. Non c'era nessuno che conoscevo là dietro. Voltarsi = Mossa sbagliata. Sentii la mano di Norman afferrarmi, spingendomi verso di lui. Allora voltai il viso, pronta a ribattere ma non feci in tempo perchè lui posò le labbra sulle mie, zittandomi. Un urlo sia maschile che femminile si levò alle mie spalle e mi diede sui nervi, molto più del fatto che il mio odioso collega fosse riuscito a baciarmi. Mi staccai in fretta da lui, prendendo la mia macchina fotografica, puntandogli un dito contro – Questa me la paghi – gli dissi sottovoce con tutta l'ira possibile mentre pian piano venivo divorata dalla vergogna.
Mi voltai, facendomi spazio tra la folla acclamante del Norman Fan Club, dirigendomi verso il mio ufficio.
Norman si era fatto una foto con la mia macchina fotografica. La cosa mi fece sorridere, anche se profondamente mi dava fastidio, perchè il mio odiato, caro collega, a volte ritornava un vero bambino quando voleva ottenere quel che voleva. Nell'altro ufficio finalmente era tornato il silenzio e potei cominciare a lavorare, sistemando sulla mia lavagna elettronica la prima pagina del giornale e le varie pubblicità.
La porta si aprì ed incominciò un brusìo alle mie spalle. Sapevo perfettamente cosa era successo. Joe, il play boy del mio ufficio era arrivato. Come tutte le donne mi voltai a guardarlo, mentre avanzava suadente coi suoi abiti eleganti tra le nostre scrivanie e salutava I colleghi. Quale situazione migliore della mia, visto che lui, l'uomo più bello della mia azienda, era mio socio e compagno di lavoro? I capelli tirati all'indietro, lo sguardo ghiacciato e affascinante, mentre sotto la camicia di seta spiccava il suo fisico bestiale. Ritornai a concentrarmi nel mio lavoro.
Eppure, io conoscevo il suo lato oscuro. Quale?
Aveva messo incinta una nostra collega, mia amica Grace. Certo, le passava gli alimenti, giocava con il bambino, ma non faceva altro. Non si scambiavano baci e lui si ostinava ad andare con altre donne come se niente fosse. Anzi, poi si era presentato il problema che lei avrebbe potuto spifferare tutto a quelli dell' ufficio e lui aveva fatto in modo di cacciarla, visto che era il direttore di quel reparto. Io ero solo la intestatrice delle pagine delle nostre rubriche, ovvero cronaca nera e cronaca rosa.
- Buongiorno – mi disse entrando, passandomi una mano sulla spalla, come faceva sempre.
- 'giorno – risposi – Secondo te dovrei metterla a destra o a sinistra questa locandina? - chiesi - Magari potrei metterla anche lungo la pagina in basso... - commentai perplessa mentre avevo le tre antemprime davanti. Lui mi si avvicinò alle spalle, dopo aver posato la giacca.
- Meglio questa – e indicò l'anteprima di sinistra – Allora il reporter ha fatto colpo? -
- No – risposi seccata dal fatto che prima di entrare in ufficio lo fosse già venuto a sapere.
- Qualcuno prima o poi riuscirà a far breccia nel tuo cuore di ghiaccio -
- Non è ancora il momento – mi alzai, visto che lui mi era ancora alle spalle e la cosa mi infastidiva. Mi avvicinai alla finestra, continuando a muovere le dita sullo schermo della lavagna.
- Irene, non puoi trattarmi così – mi disse dopo lunghi minuti di silenzio.
- Così come? - chiesi curiosa, distogliendo lo sguardo dal mio lavoro per squadrarlo.
- Non vado in giro a mettere incinta tutte le donne che conosco. Con Grace è stato un incidente -
- Io I bambini non li definisco degli incidenti – risposi quasi indegnata dall'aggettivo che aveva utilizzato.
- Si, ma da quando hai scoperto ciò che è successo mi eviti e questa cosa non mi sta bene – aveva ragione. Avevo scoperto il segreto per caso, ascoltando senza volerlo la segreteria telefonica di Grace. Mi dedicai di nuovo al mio lavoro, chiudendo il discorso per quella mattina.

Uscita dall'ufficio verso le cinque pomeridiane, mi accorsi che fuori aveva cominciato a piovere e dovetti andare di corsa verso il parcheggio sotterraneo. Salii in macchina e mi avviai verso casa.
A due chilometri dal mio condominio, la macchina si spense improvvisamente e non ci fu modo di farla ripartire. Era tardi, dovevo preparare la cena per me e per Fernando. Il mio cellulare era scarico e non potevo chiamare neanche il carro attrezzi. L'unica fu quella di avventurarsi sotto la pioggia e percorrere il resto del tragitto a piedi, sotto la pioggia battente, col rischio di prendermi una polmonite per quanto era violento il temporale. Così presi la mia valigia che fortunatamente era impermeabile, me la misi sulla testa e cominciai a correre verso casa.
Non ero molto abituata alle corse, quindi mi fermai senza fiato cinquecento metri più avanti. La strada era deserta e le macchine passavano velocemente. Non c'era neanche l'ombra di un taxi e dovetti continuare a camminare, aspettando di riprendere abbastanza fiato per ricominciare a correre.
Un clacson suonò dietro di me, insistentemente, come a incitarmi di voltarmi a girarmi.
Eccola lì, la mia scialuppa di salvataggio. Era Fernando che mi fece cenno di salire.
Rischiusi lo sportello, badando a non farlo con troppa forza e mi voltai a guardarlo – Che ci facevi là? - chiesi ancora affannata.
- Ero uscito per fare la spesa – mi rispose sorridendomi.
- Scusami, ti sto bagnando tutto il sedile – dissi affranta, guardando I miei abiti grondanti.
- Non ti preoccupare, è pelle. Basta passarci uno straccio. - il ritratto della tranquillità. Non avevo altre cose da dire quindi mi zittii e uardai fuori. Cominciai a sentir freddo poco prima di fermarci. Non vedevo l'ora di entrare in casa e farmi un bel bagno caldo. Mi sentivo un pulcino bagnato.
- Prendi – disse prima di scendere, offrendomi la sua giacca – Stai tremando -
- Si bagnerà -
- Non preoccuparti per questo -
- Merci – risposi in francese, mettendomela sulle spalle, aprendo lo sportello.
Il parcheggio del condominio era sotterraneo e si collegava all'edificio tramite una porta interna.
Con un gesto cavalleresco mi aprì la porta e mi fece entrare per prima. Gli sorrisi, convinta che tutto quello fosse solo un gioco. Chinai un tantino la testa ed entrai, facendo quasi un inchino, salendo per prima le scale, seguita da lui che portava la busta con la spesa.
- Scendi da me a preparare la cena? - mi chiese quando fu davanti alla porta dell'appartamento.
- Si. Dammi il tempo di sistemarmi -
Scesi da lui dopo una mezz'ora circa. Portavo le ciabatte, un paio di jeans larghi e una felpa, coi capelli radunati in una treccia. Bussai cortesemente alla sua porta. Chiacchierammo un tantino mentre ero ai fonelli. Fuori aveva cominciato a grandinare. Fui distratta dalla grandine che colpiva il vetro della finestrella della piccola cucina e poggiai la mano sulla parte sbagliata della pentola, ustionandomi parte del palmo della mano destra.
- Diamine... - mi lamentai, imbarazzata.
Aspetta, prendo del ghiaccio – mi avvertì lui e tornò poco dopo con dei piccoli cubetti di ghiaccio, poggiandomeli sulla pelle rossa. Gemetti per il dolore. Alzai lo sguardo.
Lui era vicinissimo e mi osservava attentamente.
Il buio della notte che avevo visto nel deserto non poteva minimamente competere col blu scuro dei suoi occhi, I capelli erano neri come la pece e le labbra finecontenevano una dentatura assolutamente perfetta. Non mi ero mai soffermata a guardarlo come in quel momento. Il cuore cominciò a battermi in petto come impazzito.


Note finali_____
Secondo capitolo! Ed ecco qua che la storia comincia a prendere corpo. Entrata in campo di un altro personaggio, il perfido ma bellissimo Joe, collega della protagonista.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto la mia storia, spero di non avervi annoiato anche con questo capitolo. Beh, che dire? Pubblicherò il prossimo capitolo a breve, anche perchè questa storia sta venendo giù spontaneamente. Giuro che però prima o poi comincerò con aggiornare con più precisione! A Prestissimo. Haki-chan.
   
 
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