Non è stata una buona idea – raramente le sue lo sono: troppa gente attorno, mi sento come se gli occhi di tutti fossero addosso a me. E sì, lo so che è stupido, stanno tutti guardando altrove, ovviamente. Verso un palco, precisamente, dove sta suonando Paul McCartney. Sì, quello dei Beatles, proprio lui, l’originale. A Rob – da buon americano qual è – non gliene frega assolutamente nulla, lo so perché è stato lui stesso a dirmelo, ma ha insistito in maniera esagerata per venirci. Sa che lo ammiro molto, e che non ho mai avuto il coraggio di chiedergli un pass per guardare un suo concerto dal backstage, dal momento che mai e poi mai mi sarei azzardato ad andarci da persona normale, avendo paura di essere riconosciuto da qualcuno. Fino ad oggi, ovviamente.
E il bello della cosa è che adesso corro un doppio rischio, evidentemente: non solo possono accorgersi di me, qui, in mezzo a 150,000 persone, ma posso essere riconosciuto con lui. Sono stupido. Come ho potuto lasciare che mi convincesse a fare una cosa del genere? Ha decisamente troppa influenza su di me, è inutile negarlo. Prima o poi questo fatto devo risolverlo. Comunque, almeno mi ha promesso di starsene buono. Con le mani, intendo. “I won’t touch you, I swear. C’mon, let’s go.” ha detto, e l’attimo dopo ci stavano strappando i biglietti. Non chiedetemi come abbia fatto ad averli, non me l’ha voluto dire. So solo che stamattina è uscito di casa per cinque minuti e non m’ha detto dov’era diretto. Quando è tornato non ne ha fatto parola, me li ha sbattuti sotto il naso solo un’ora fa, mentre eravamo al parco qui vicino all’Hyde. Neanche per un attimo ha dubitato che ci saremmo andati. E infatti.
“Can I leave you for a moment? I really use a beer, another song like this and I’ll be sleeping...” Da notare, Paul stava suonando Blackbird. Cioè. Gli ho fatto un cenno d’assenso distratto, completamente assorbito dalla musica. Avrebbe potuto benissimo avermi detto che mi mollava, avrei reagito alla stessa identica maniera. Sì, mi piacciono troppo i Beatles.
È tornato dieci minuti più tardi con una bottiglia da mezzo litro di birra e una scatola take-away con pollo fritto e patatine; ha resistito più o meno trenta secondi in piedi prima di lasciarsi andare con una nonchalance unica e assurda per terra. Mi piacerebbe sapere come ci riesce, sul serio. Cioè, ha provato a spiegarmelo, ma non gli ho prestato attenzione. Davvero, dovrei ascoltarlo di più quando mi parla di cose serie.
Una volta finito ha buttato i rifiuti nel cestino poco distante, è tornato vicino a me e ha cominciato ad osservare la gente davanti a noi; ma non perché temesse (o volesse, con lui non si capisce mai bene) essere riconosciuto, è che si diverte a mescolarsi con le persone, a fingere di essere uno di loro. Sarà anche per questo che come attore è straordinario. Comunque, anche questo non ha funzionato a lungo, e in breve è tornato a gironzolarmi attorno, come ora.
Ogni tanto lo guardo con la coda dell’occhio, si siede per terra e si rialza subito dopo, fa qualche passo e poi torna vicino a me, ma come si accorge che lo sto osservando mi fa un cenno e sorride, fingendo di essere interessato al concerto. Una o due volte faccio per dirgli che, se vuole, ce ne possiamo anche andare, ma come se leggesse nella mia mente mi interrompe dopo le prime tre o quattro parole e mi ripete di gustarmi il concerto. Poi ad un certo punto, verso la fine, partono all’improvviso una serie di fuochi d’artificio; mi incanto a guardarli ed è solo dopo qualche minuto che mi accorgo che le sue dita hanno raggiunto le mie, ed ora sono strette insieme in un’unica presa, mentre lui guarda, apparentemente interessato per la prima volta in assoluto a qualcosa di contingente il motivo per cui siamo lì, le tante scintille di colore diverso sparate nel cielo ormai scuro di Londra.
“Rob!” strillo scandalizzato, per farmi sentire oltre il chiasso tutto intorno, guardando la mia mano e affrettandomi per liberarla dall’abbraccio; lui sulle prime davvero non realizza, gli ci vuole qualche secondo, seguendo la direzione del mio sguardo, ed è solo a quel punto che mi rivolge un’occhiata esasperata, lasciandomi andare. E pensare che quello ancora sposato è lui.
“I’ll go and take a look around, stay here” mi fa e non mi dà il tempo di rispondere ché si allontana, le mani in tasca. Okay, forse la mia reazione è stata un po’ esagerata, ma gli avrò detto mille volte che non deve fare certe cose in pubblico, anche una innocente come tenermi per mano. Voglio dire, non è una cosa normale tra due... stavo per dire fidanzati, mettendoci il punto di domanda. Ma intendo tra due uomini, sia chiaro.
Non lo vedo per un bel po’ di tempo, tanto che comincio a preoccuparmi, più che altro perché tra una ventina di minuti il concerto finirà, il che significa che dovremo tagliare la corda prima che tutte queste persone si riversino fuori in massa. Allora sì che sarebbe un bel casino. McCartney nel frattempo ha attaccato Let It Be seduto al pianoforte. Che coincidenza, eh? Faccio vagare lo sguardo sulla gente intorno a me cercando di distinguere la sua faccia, ma non ho fortuna. Probabilmente sarà andato di nuovo a prendersi da bere. Torno a guardare il palco, comincia una nuova canzone, mi bastano le prime tre note per indovinare quale sia. Ovviamente. Ha cominciato mia madre a cantarmela trentotto anni fa, e non ha mai smesso. Mi unisco alla gente che canta, non so neanche io il perché lo faccio. Mi lascio andare alla musica e per qualche minuto la mia testa è come se si disconnettesse dal resto del mondo. Rob aveva ragione anche su questo.
Alla terza strofa delle mani morbide e calde, non mie, si impossessano della mia pancia, stringendomi in un tenero e delicato abbraccio. So che è lui, riconoscerei il suo tocco tra mille, ma stranamente non riesco ad impormi di allontanarlo da me, anzi, abbandono la testa sulla sua spalla e chiudo gli occhi. Lui avvicina le labbra al mio orecchio e comincia a cantare insieme a me, anche se ovviamente trasforma tutti gli aggettivi possessivi della canzone riferendoli non ad una lei ma a sé stesso: “Hey Jude, don't let me down, you have found me, now go and get me... Remember to let me into your heart, then you can start to make it better…”
È una cosa che mi fa sorridere, e nello stesso tempo smetto quasi subito di notarla, talmente mi sembra naturale la sua versione personale. Quando la canzone finisce mi lascia un bacio veloce sulla guancia prima di sussurrarmi all’orecchio, con un tono di voce che fa sembrare la sua non una domanda, ma una semplice affermazione: “Wanna come back home?”“Yeah, let’s go...” gli rispondo comunque, più per sottolineare qualcosa di già accertato che per una utilità vera e propria, e l’attimo dopo siamo già fuori, nel lungo viale alberato e poco illuminato che conduce al parcheggio, le nostre dita che si sfiorano e si catturano di continuo.