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Autore: RubyChubb    17/07/2010    2 recensioni
Un giorno in più o in meno dentro a quel carcere non faceva ormai molta differenza per lei, che ormai vi aveva passato tre anni e mezzo della sua vita per un fatto che aveva commesso con piena e riconosciuta colpa. Non si era mai dichiarata innocente, la coscienza e l’evidenza dei fatti non glielo avevano permesso. Un mese in più o in meno, invece, cominciava a fare sentire il suo peso. Se poi pensava a quattro anni tagliati tutti d’un colpo, Meg poteva mettersi a piangere dalla felicità. E fu infatti quello che fece. Camminava e piangeva, con le mani bloccate all’altezza del bacino non poteva asciugare le lacrime, ma non le importava. Una volta tornata in istituto avrebbe chiamato i suoi, a casa, per riferire la notizia. Non erano venuti: papà si era fatto prendere dalla febbre stagionale ed il tribunale scatenava in mamma dei violenti attacchi di panico. Diciotto mesi e tutto sarebbe finito.
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO TRE


Come a volte capitava, Meg chiese a Rachel di asciugarle i capelli. Non che avesse avuto bisogno di una mano, era perfettamente capace di farlo da sola, voleva essere soltanto un modo per attaccare bottone. Una volta che ebbe finito di tamponare la chioma, dopo averla schiumata e risciacquata nel lavandino della cella, le propose di aiutarla.
Tra meno di un’ora vengono i miei a farmi visita… Ti dispiacerebbe farmi bella?”, le disse, con un po’ di ironia.
Erano appena tornate dalla colazione ed era sabato, non c’era nessuna lezione in vista per Meg, soltanto la visita mensile dei suoi genitori. Non sprizzava gioia da tutti i pori ma era comunque contenta di vederli.
Rachel continuò a fumare la sua sigaretta, distesa sulla branda.
Hey… Mi hai sentito?”, le fece, ridacchiando.
Sì, non sono sorda.”, borbottò l’altra, scocciata, “Comunque no, fai da sola.”
Meg incassò la rispostaccia ma non demorse. Era sinceramente stufa del prolungarsi ad oltranza del pessimo umore di Rachel e voleva avere una giustificazione. Prese una delle due sedie e si avvicinò a lei.
Andiamo, Rachel, lo dici anche tu che sono un incapace con l’asciugacapelli e la spazzola…”, la stuzzicò.
Lo sei, ma non rompermi le palle.”
Tre settimane passate in quel modo, Meg stava iniziando a preoccuparsi sul serio. Era il periodo più lungo in cui Rachel si era comportata stranamente, nei casi precedenti si era limitata ad essere scontrosa per massimo sette, quindici giorni, ma mai per tre settimane. Doveva essere una cosa grave.
Rachel, per favore…”, le disse.
Usò il suo tono migliore, quello che a volte era riuscito a penetrare quella scorza dura che la proteggeva, toccandole il cuore. Non fu fortunata, Rachel non si intenerì affatto.
Ascoltami, bimbetta, lasciami in pace.”, disse, sventolando la mano per scacciarla, “Asciugati i capelli senza di me.”
Niente, Rachel era irraggiungibile. Meg si ritrasse: era giusto insistere, ma al secondo negarsi era meglio tornare sui propri passi e farsi i fatti propri. Accese l’asciugacapelli e attese che tutta l’acqua evaporasse, mentre la sua mente lavorava. I motivi per i quali Rachel poteva diventare così terribilmente intrattabile erano molti, alcuni li aveva già valutati, ma non sapeva scegliere quale fosse stato il più realistico.
Se ci fossero state magagne con le detenute, sarebbe stato sufficiente osservarla durante l’ora del pranzo o della cena, oppure in una qualsiasi altra occasione che la vedeva condividere il proprio tempo con le altre. Meg lo aveva fatto, aveva posto attenzione alla sua compagna di cella, ma i rapporti sembravano scorrere normalmente; decise allora di fare qualche domanda in giro, a chi poteva sapere. Niente. Non era l’unica ad aver notato quel cambio in lei, in molte erano sbattute contro il malumore di Rachel, che era stata ripetutamente ripresa dalle guardie per le sue esplosioni incontrollate di rabbia, tanto che aveva quasi rischiato di finire per un paio di notti in isolamento. Che avesse avuto problemi con chi le rimaneva all’esterno? Meg pensò a lungo se indagare o no. Era più saggio tenere la bocca chiusa.
Mentre si occupava delle ultime ciocche umide, osservava Rachel fumare nervosamente la sua sigaretta: le dita che la sorreggevano tremavano lievemente, mentre l’altro braccio se ne stava sotto la testa. Fissava le molle della rete sopra di lei e si mordicchiava le labbra. Meg si arrese. Forse Rachel le avrebbe parlato tra qualche giorno, sperò che le cose si sarebbero normalizzate al più presto.
I suoi capelli si erano asciugati e, una volta vista l’ora, si accorse che mancavano solo pochi minuti all’arrivo dei suoi. Infatti, con una precisione svizzera, l’agente Morris, di servizio in quella giornata nella sua sezione, la chiamò.

Howard, hai visite.”
Lasciò la sedia su cui si era accomodata ed attese che la poliziotta le aprisse la cella. La seguì fino alla stanza delle visite, conosceva la strada a memoria, e come ogni sabato la trovò un po’ sovraffollata. In molti utilizzavano i fine settimana per incontrare i propri cari chiusi lì dentro, non soltanto i suoi, che individuò nell’ultima cabina. La attendevano in piedi e, quando la videro, alzarono una mano per salutarla.
Si avvicinò, poi qualcosa la bloccò. Qualcuno.
In piedi, vicino alla postazione che avrebbe presto occupato, c’era quel tizio nordico, il rachitico che li teneva d’occhio durante le lezioni di Daisy. Lo vide fare un cenno nella sua direzione, un piccolo movimento della testa che doveva significare un saluto, ma Meg non lo ricambiò. Roteò gli occhi e non gli dette udienza, sedendosi davanti ai suoi genitori con un pizzico gigante di nervosismo in più.
Il vetro antiproiettile la divideva dal mondo vivo, permettendole di osservarlo senza mai raggiungerlo. Quando era stata libera ed aveva visto quei film girati dentro le carceri, si era sempre chiesta se le stanze per le visite fossero state davvero come le rappresentavano: tanti banchi, uno accanto all’altro, divisi da una sorta di separatore in plastica dura e scura, con dei telefono appesi per poter parlare con chi stava al di là del vetro.
Alla Holloway erano proprio in quel modo.
Prese la cornetta e la avvicinò all’orecchio.
Ciao Megan.”, disse sua madre, Josie, che condivideva quella sorta di telefono con suo papà, Bent, “Come stai?”
Bene mamma, grazie.”, rispose, “E voi?”
Non ci lamentiamo troppo.”, rispose suo padre, scrollando le spalle, “La vita va avanti.”
Rispondeva sempre così. Doveva essere il suo modo per manifestare la sua rassegnazione di fronte a ciò che gli era stato messo davanti, qualcosa che non aveva mai valutato prima, ma che si era trovato suo malgrado a vivere.
Dici bene.”, gli disse Meg, “Come va il lavoro?”
La serra continua ad essere piuttosto produttiva.”, disse ancora Bent, “Ti aspetta.”
Quella piccola frase la rincuorò ma non poteva farci troppo affidamento. Il tono di suo padre era stato piatto, senza la minima espressione di contentezza.
Come va il corso che stai frequentando?”, le chiese allora Josie.
Molto bene, è interessante.”, mentì spudoratamente.
Con quell’agente alle spalle non poteva dire la verità, né l’avrebbe comunque fatto. Doveva dimostrare ai suoi che tornare a casa e lavorare da loro era quello che voleva, ed in parte era la verità, lo desiderava con tutto il cuore. L’importante era uscire di lì, quello che sarebbe successo in seguito lo avrebbe valutato in un secondo momento.
Cosa ti stanno insegnando?”, riprese suo padre, che adorava smisuratamente il suo lavoro.
Daisy è molto capace, ci insegna molte cose.”, disse ancora, ed era la verità, “Le sue lezioni sono coinvolgenti.”
Altra bugia bianca.
Che cosa hai imparato in questo mese?”
E finirono a parlare di lavoro, cosa che capitava sempre da quando aveva detto loro dello sconto sulla pena e del programma di reinserimento lavorativo. Sua mamma sembrava contenta di tutto quello, le faceva domande e le parlava con il tono di cui Meg aveva bisogno, quello che le dimostrava tutta la sua voglia -sebbene scarsa- di rivederla di nuovo ad abitare le mura di casa. Mancavano solo dieci mesi, più o meno.
Per il resto, come va?”, chiese ancora sua mamma.
Beh… Non c’è male. I giorni scorrono tutti uguali.”
Ti senti un po’ meglio?”
Voleva domandarle se aveva ancora quelle crisi depressive, come nei primi anni.
Sì…”, disse.
Più che stare bene Meg era stabile, parola che nel gergo medico aveva un significato ambivalente: stabilmente male, stabilmente bene. Meg si trovava stabilmente a metà, ma in compenso aveva recuperato molto sul piano emotivo. Forse sentiva dalla sua parte l’appoggio velato di Rachel, che quando voleva sapeva farla stare meglio, ma più probabilmente doveva ringraziare il pensiero di essere ad un passo dalla libertà. L’idea di tornare libera la eccitava, era chiaro, ma d’altro canto la riempiva di paure, che ogni giorno la assillavano un minuto in più rispetto a quello precedente. L’impatto con il mondo libero, per una detenuta che aveva scontato tutta la sua pena, o parte di essa, non era mai pienamente positivo.
Due dita sulla sua spalla la costrinsero a voltarsi. Trovò l’agente del nord, quello venuto dal freddo polare al confine con la Scozia, che le fece segno di sbrigarsi, il suo tempo stava per scadere.
Mi sa che abbiamo finito.”, disse ai suoi.
Li osservò meglio, per Meg non era facile guardare i volti dei suoi genitori per più di qualche frazione di secondo, e li trovò più vecchi del mese precedente. Il volto fine di Josie era solcato da qualche ruga in più, il sorriso di suo padre era quasi del tutto cancellato.
Va bene così. “, disse la mamma, “Tra poco sarai a casa.”
Lo spero.”, disse Meg.
Si salutarono con un cenno della mano ed i signori Howard tornarono alla propria vita. Meg non trovò immediatamente la forza di lasciare la sua sedia. Con un gesto rapido, cancellò le lacrime che premevano contro le sue palpebre.
Devi alzarti, lo sai.”, le ricordò il palo alle sue spalle.
Meg prese un profondo respiro e si impose di calmarsi, dopodiché rispettò la regola e fu in piedi.
Farò finta di non aver sentito quelle piccole bugie che hai detto sul corso che frequentiamo insieme.”, disse ancora l’agente Jones, sorridendole con cordialità.
Meg, che aveva mosso il primo dei passi che l’avrebbero portata fuori dalla stanza, si girò verso di lui. Lo osservò dritto negli occhi, chiedendosi perché cazzo quel bastardo di un agente di merda non si chiudeva quella fottuta bocca. Prima di piangere davanti a quello stronzo, Meg gli mostrò le spalle ed uscì, sbattendosene della buona educazione.
Fece finta di stare male, di aver voglia di vomitare, e le dettero il permesso di starsene in cella, da sola. Rachel doveva essere uscita, molto probabilmente si trovava in uno degli spazi comuni, forse fuori, non lo sapeva e non gliene importava. Pianse per molto e vomitò davvero, tutta la colazione finì dentro al cesso, e saltò anche il pranzo. Per obbligo, si trovò comunque in mensa come tutte le altre, ma non prese il suo vassoio, se ne stette seduta a fissare il linoleum del tavolo senza dire una parola.
Ogni volta che i suoi venivano a trovarla, Meg reagiva negativamente alla palese dimostrazione di quanto le cose fossero cambiate. Sì, era vero che per mantenere la sanità mentale fingeva che i suoi l’avessero voluta indietro con tutto il cuore, ma non era affatto così.
Meg faceva buon viso a cattivo gioco.




Hey!”, sentì esclamare.
Danny si voltò, lasciando perdere per un attimo la su auto. Tom si stava avvicinando a grandi passi e sventolava una mano nella sua direzione.
Ciao!”, lo salutò, “Cosa ci fai qua?”
Danny aveva appena terminato il suo turno, era mezzogiorno passato, e Tom, che era l’aiuto cuoco nella mensa del carcere, avrebbe dovuto essere in cucina a preparare il pranzo ai detenuti e non lì fuori, nel parcheggio del personale.
Ho il pomeriggio libero, devo andare a prendere mia sorella Carrie all’aeroporto.”, gli spiegò, “Ha concluso il suo semestre di studio all’estero ed i miei non potevano lasciare il lavoro… Così, vado io.”
Sta bene? Si è divertita in Francia?”, gli domandò, contento di sapere che la piccola Carrie, che aveva conosciuto qualche mese fa, stava per tornare a casa.
Glielo chiederò!”, disse l’altro, passandosi una mano tra i capelli biondastri, “Sono tre settimane che non la sento.”
Portale i miei saluti!”, disse Danny, “E dille che verrò a salutarla!”
Certamente.”, rispose Tom, con un sorriso felice sul volto.
Ci vediamo!”, lo salutò, ma l’altro sembrò insicuro sul ricambiare.
Senti… Posso chiederti un favore?”
Non ci pensò due volte: anche se si sentiva fiacco ed il cerchio alla testa sembrava restringersi dolorosamente, Danny si offrì di accompagnarlo all’aeroporto. La piccola auto del suo amico si era spenta per sempre qualche giorno prima ed aveva dovuto rimboccarsi le maniche nella ricerca di una occasione in qualche concessionario; per il momento girava sui mezzi pubblici.
Potevi dirmelo che sei senza auto.”, gli fece Danny, “Se ci organizzassimo bene, potremmo venire al lavoro con la mia.”
No, non ti preoccupare.”, disse Tom, che prima di chiedere aiuto a qualsiasi persona preferiva morire, “I collegamenti con l’istituto non sono male, mi trovo bene anche con gli autobus.”
Come vuoi. Se hai bisogno di me, sai come trovarmi.”
Grazie Dan.”, rispose l’altro, sempre educato.
Durante il viaggio, in mezzo al traffico che caratterizzava da sempre la città di Londra, chiacchierarono del tutto e del di più. Tom, di un anno più grande, aveva preso un diploma di cuoco: dopo aver lavorato saltuariamente per mesi nei ristoranti della City, facendosi le ossa e ricevendo buone lettere di raccomandazione, si era dovuto accontentare di quel posto in istituto, dove tutto quello che veniva cucinato aveva lo stesso sapore della portata precedente. Dalle piccole creazioni ai grandi pentoloni, in carcere c’era poco spazio per la fantasia, ma almeno quel posto era sicuro e pagato bene. Contemporaneamente, Tom continuava a frequentare corsi di aggiornamento, si teneva in contatto con il mondo dei veri ristoranti e sperava che, prima o poi, la sua grande occasione sarebbe arrivata. Il suo obiettivo non era cucinare per detenuti a vita, bensì farsi un nome ed una carriera rispettabile, ma la gavetta e la concorrenza nel suo settore era dura.
Danny confidava in lui: nelle volte in cui Tom aveva invitato i suoi amici e cucinato per loro, tutti erano tornati a casa con un bel ripieno nello stomaco. Aveva talento per ciò che faceva, non c’era alcun dubbio. Era un piacere poterlo considerare un amico, Danny era felice di averlo conosciuto, quella città così immensa e del tutto differente ai posti in cui era nato e cresciuto non era mai stata molto cordiale con lui.
Stasera starete tutti in famiglia, immagino.”, disse Danny.
Sì, ma credo che nel dopo cena potrò liberarmi.”, avanzò Tom, “Facciamo qualcosa?”
Certo.”, fu subito contento di rispondere, “Domani ho il turno pomeridiano.”
Perfetto!”, esclamò Tom, “Solito pub?”
Ovviamente. Ci penso io ad informare gli altri due.”
Sophie?”
Glielo chiederò.”, disse.
Perfetto.”, disse ancora Tom, “Come vanno le cose con lei?”
Tranquillamente.”, rispose Danny.
Non ho capito ancora quale sia il suo lavoro.”, continuò Tom.
E’ una ricercatrice.”, gli spiegò, “Sta portando avanti uno studio su alcune popolazioni europee a rischio di estinzione.”
Sono gli animali ad estinguersi… Non i popoli!”, scherzò Tom, ridendo, “Ad ogni modo, sembra interessante.”
Sì, ho letto alcune tesine che ha scritto lei stessa.”
L’aveva aiutata con la correzione delle bozze, trovandole così piene di errori ortografici che si era stupito. Una laureata come lei non poteva certamente permettersi certe sviste, ma Danny non glielo aveva fatto notare. Si era soltanto permesso di mettere alla sua attenzione certi sbagli e talvolta si era pure dovuto accontentare di una rispostaccia. Che cosa ne poteva sapere lui della grammatica, che non era nemmeno laureato ed aveva concluso il liceo con una votazione più bassa della media nazionale? Niente, lui non ne sapeva niente. Sophie non sapeva del suo piccolo segreto, né si era mai soffermata più del dovuto sulla libreria stracolma che occupava due delle quattro mura del salotto di Danny.
Bene… Convincila a venire, almeno per stasera.”
Danny temporeggiò, Tom sapeva a cosa si stava riferendo.
Ci proverò.”
La conversazione continuò tranquillamente per la restante parte del viaggio e, una volta arrivati all’aeroporto trovarono Carrie ad aspettarli, evidentemente scocciata del loro ritardo. Il traffico intorno a Gatwick era sempre impossibile da scavalcare, non era come una staccionata alta mezzo metro, e nonostante le scorciatoie e le suonate di clacson non avevano potuto fare di meglio. La ragazza, piena di valige, di baci e sorrisi per entrambi, salì in auto e chiacchierò ininterrottamente per tutto il ritorno, tanto che il mal di testa di Danny si intensificò esponenzialmente. Fu comunque un piacere ascoltare i due fratelli parlarsi, dopo essere stati lontani per così tanto tempo, e trovò Carrie molto più carina di quando l’aveva vista per l’ultima volta: non aveva lasciato i suoi riccioli, ma il suo viso si era assottigliato, era diventata una donna a tutti gli effetti. Tom, che era spasmodicamente geloso di lei, avrebbe avuto il suo bel da fare.
Li accompagnò a casa Fletcher, dove concluse la restante parte del pomeriggio insieme alla famiglia, approdando nel suo appartamento che era quasi ora di cena. Prese immediatamente due aspirine, si sdraiò sul divano e cercò di riposarsi più che poté. La giornata era stata stressante: il caldo della primavera era stato insopportabile, aveva dovuto fare a meno della giacca della sua divisa e si era arrotolato le maniche della camicia ai gomiti. L’agente Evans gli aveva chiesto se si fosse sentito bene, dato che lei non aveva sentito tutto quel caldo, ma Danny non se ne era preoccupato: anche i detenuti non avevano potuto fare a meno di lamentarsi, quindi non era un suo problema. Non era stata la sua allergia a peggiorare le condizioni di salute, ma solo la temperatura esterna.
Fu svegliato dal suono continuo del campanello. Il mal di testa se n’era andato, la stanchezza persisteva, ma erano le nove e non ebbe dubbio su chi fosse il suo visitatore: Sophie. Andò ad aprirle.
Ti eri addormentato?”, domandò lei, sulla soglia della porta, “Perché sono cinque minuti che sono attaccata al campanello.”
Mi dispiace…”, le fece, sinceramente in colpa, “Ma non ho potuto riposare questo pomeriggio.”
Le permise di entrare e Sophie si accomodò sul divano, scansando la coperta sotto cui si era concesso quel meritato sonno. Non era di buon umore, Danny poteva capirlo dall’espressione assente sul suo viso. Se ne preoccupò subito.
C’è qualcosa che non va?”, le chiese, sedendosi vicino a lei ed abbracciandola.
Aveva bisogno del suo contatto, del suo corpo.
No, lascia stare.”, rispose lei, liberandosi, “Facciamo qualcosa stasera?”
La domanda di Sophie fece esplodere qualcosa nella sua testa. Doveva ancora chiamare Dougie ed Harry! Se ne era completamente scordato. Ad ogni modo, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto nei prossimi minuti.
Ti va di uscire con gli altri?”, le chiese.
Gli altri… Chi?”, propose lei una nuova domanda.
Beh… Tom e Dougie… Harry.”
Sophie si prese una manciata di secondi per pensarci.
Non possiamo fare qualcosa insieme… Io e te, senza di loro?”, fece, indossando un paio di occhi tristi.
Potremmo… Però…”
Per via del tuo lavoro, non ci vediamo mai.”, continuò lei, “Vorrei passare del tempo con te, senza i tuoi amici.”
Danny non poté darle torto, Sophie aveva pienamente ragione. I turni, le sostituzioni con i colleghi, la stanchezza e la sua salute messa a dura prova dalla primavera restringevano le possibilità di stare con lei. A Danny sarebbe piaciuto dedicarle tutte le attenzioni che si meritava, ma non era sempre possibile.
Quello era diventato uno dei tanti motivi di discussione tra loro.
Ok… Dirò che passerò la serata con te.”, le rispose, in parte a malincuore.
Sophie gli sorrise e lo baciò, felice della sua rinuncia.
Prese il telefono e compose velocemente il numero di Tom.
Hey!”, rispose subito lui, “Ti aspettiamo al pub!”
Non vengo…”, gli disse, “Rimango con Sophie.”
Ah… Va bene.”, disse Tom, “Come vuoi.”
Non ho avvertito Dougie ed Harry…”, lo informò, “Mi sono dimenticato.”
Non ti preoccupare, li ho chiamati quando te ne sei andato. Non mi ricordavo che ti eri preso l’incombenza, scusami.”
Macché, scusami per la dimenticanza… Ci vediamo domani?”
Certo!”, rispose l’altro, sempre cordiale, “Divertitevi!”
Anche voi…”
Agganciò la cornetta e rifletté brevemente. Non era mai giusto dare quei ‘bidoni’ ad una delle due parti, ma cosa poteva fare? Era colpa sua, deludere qualcuno lo riduceva sempre in quel modo.

***

Meg si mise in fila con il suo vassoio, davanti a lei altre venti detenute in attesa della propria porzione di pranzo. Si chiese quale sbobba avrebbe mangiato quel giorno, dato che le cucine del carcere non erano in grado di espandere le loro creazioni culinarie oltre ai polpettoni, alle puree di patate ed alla carne dura. Durante i primi mesi il suo fegato aveva dato segni di rivolta riempiendola di fitte di dolore, ma a poco a poco si era abituata, lasciandola definitivamente in pace.
Forse la direzione stava cercando di decimarli avvelenandoli.
Non si può andare un po’ più veloci?”, sentenziò Rachel, alle sue spalle.
Meg la ignorò, le altre detenute si voltarono e sbuffarono scocciate.
Non sei al ristorante!”, le rispose una di loro.
Fatti i cazzi tuoi.”, volle chetarla Rachel, “Hey, Rossa, mi cedi il tuo posto?”
Andiamo, fai la fila come tutti gli altri.”, borbottò Meg, “E stai buona.”
Rachel non controbatté, ma continuò ad agitarsi.
Non ti ho nemmeno chiesto com’è andata con i tuoi, sabato passato.”, cercò comunque di parlarle, molto probabilmente per ridurre lo stress dell’attesa.
Era trascorsa una settimana ma la visita dei suoi sembrava appartenere a dieci anni fa. Rachel se ne era ricordata piuttosto presto.
Bene.”, le fece, senza aggiungere altro.
Che ti hanno detto?”
Le solite stronzate.”
Fecero tre passi avanti.
Era l’ora!”, esclamò Rachel, disinteressandosi immediatamente della sua sorte familiare, “Non voglio morire in fila per mangiare lo schifo che mi date!”
Hey, stronza!”, le si rivolse la detenuta davanti a Megan, “Perché non ti cheti?”
Perché non mi fai venire al tuo posto?”
Vaffanculo!”
Una guardia intervenne prima che altre parole volasser tra le due.
Silenzio!”, tuonò la donna, “E ordine!”, ma non fu sufficiente.
Perché la cucina è così lenta a servirci!”, Rachel chiese spiegazioni, “Sono ore che siamo in fila, non è giusto!”
L’agente fece per controbattere, ma una delle loro compagne più avanti la anticipò.
Il personale è ridotto, non te ne sei accorta? Sei cieca per caso?”, le fece.
Meg alzò le sopracciglia. Sporse l’occhio verso il bancone della mensa e non vide la signorina Kelly, la cinquantenne grassoccia, e la sua collega Deb, che si occupavano di riempire i piatti di dura plastica bianca per poi porgerli a tutte loro con veloce antipatia. C’era bensì un ragazzo, un tipo che non aveva mai visto prima, ed era solo. Meg si chiese chi fosse, dagli abiti che indossava sembrava uno dei cuochi. Anzi, doveva esserlo: se rifletteva con attenzione, le sembrava di averlo visto proprio davanti ai fornelli, quando le era capitato di dare un’occhiata al personale della cucina.
Ah, c’è un novellino!”, notò anche Rachel, che non si trattenne, “Avanti, muoviti!”
Le sue pressioni scatenarono una salva di proteste, ci fu chi si sollevò con lei e chi le andò contro, tanto che Meg cercò di ignorare la confusione tappandosi le orecchie. Continuò a guardarsi intorno, chiedendosi come mai le due tizie della mensa non si fossero presentate al lavoro, e vide qualcosa di strano.
C’erano due uomini a guardia, dall’altra parte della mensa. Due poliziotti uomini. Che fine avevano fatto le loro colleghe donne? La sezione interna femminile era controllata da poliziotte, da donne in divisa, e non da uomini, e viceversa. Al massimo, Rachel li aveva visti sorvegliare le mura, oppure durante le celeberrime ore d’aria, quando nel grande spazio esterno i detenuti uomini e donne erano divisi da due lunghe reti di ferro, nel mezzo alle quali si trovava un’intercapedine di tre metri di larghezza per allontanare ogni possibilità di contatto, ma era molto raro incontrarli al chiuso: la divisione sessuale perpetuata nei confronti dei detenuti era estesa anche al personale. I casi in cui questa regola non veniva rispettata si presentavano in inverno, quando le famose e predette ondate di influenza colpivano anche i sempreverde poliziotti, ma era comunque molto improbabile che ci fosse un ammanco di personale tale da richiedere il supporto della controparte maschile. A Meg non piacevano quei due, così come poco sopportava la presenza del loro collega durante la lezione di giardinaggio.
Vista l’insufficienza delle colleghe donne i due si misero all’azione, gridando per imporre il silenzio sulla confusione scatenata da Rachel. Si avvicinarono piuttosto velocemente.
Ma porca di quella…
Uno dei due lo conosceva piuttosto bene. Concentrò tutta se stessa nell’ignorarli entrambi, era quasi impaurita dalla loro presenza, e fissò la mattonella su cui si trovava. Non mancò però di tenere la situazione sotto controllo.
Facciamo silenzio o no?”, gridò il suo collega, guardando Rachel dritta negli occhi.
Voglio mangiare!”, rispose lei, per niente intimidita, “Perché il servizio è ridotto?”
Non sono affari tuoi. Adesso mettiti in fila e fai silenzio!”
Al posto di Rachel, Meg non avrebbe avuto il coraggio di fiatare, ma la sua compagna di cella non era del medesimo avviso.
E’ mio diritto avere una spiegazione!”, ribatté subito.
Se parli ancora, non avrai il tuo pranzo.”, la minacciò l’agente.
Mi dica perché e starò zitta!”
La volontà di Rachel venne sostenuta da moltissime altre detenute, in coda dietro di lei.
Non sono fatti tuoi!”, gridò ancora l’uomo.
Meg non potè fare a meno di sussultare; chiuse gli occhi e pregò che tutto finisse al più presto.
Le urla maschili erano una tortura per lei.
Lo sono!”, proseguì Rachel, scatenando applausi e fischi.
L’atmosfera da rivolta tacque in un attimo, zittita dalla voce dell’agente Jones del nord.
Una nostra collega ed agente della tua sezione è deceduta ieri sera in un incidente stradale, stava tornando a casa dopo il servizio.”, disse, “Parte del personale sta partecipando alle onoranze funebri, è per questo che ce n’è mancanza. Un po’ di rispetto, per favore.”
I secondi che seguirono furono scanditi da un silenzio gelido, così freddo che Meg rabbrividì. Alzò lo sguardo di poco: l’agente Jones continuava a fissare Rachel, muta dietro di lei, mentre il suo collega sembrava in disappunto. Il motivo era evidente: l’agente più giovane aveva contraddetto l’autorità del più vecchio, riuscendo contemporaneamente a ripristinare una situazione critica che non era riuscito a risolvere.
In un attimo
fugace, Jones lasciò Rachel e posò gli occhi su Meg, che rapidamente li riportò a terra.
Bene.”, disse lui, tornando sull'altra donna, “Adesso tornatene in fila e mantieni il silenzio. Non voglio sentire una sola parola.”
Si allontanò accompagnato dal suo collega, e sotto gli ordini delle poliziotte ognuna prese la propria porzione di cibo. Meg ebbe il tempo di chiedersi chi fosse stata la donna morta in quell’incidente, ma presto avrebbe avuto notizie.
Quando fu il suo turno, non mancò di ringraziare il ragazzo che l’aveva servita. Doveva essere scosso anche lui, a vedere dagli occhi arrossati, molto probabilmente la conosceva.
L’atmosfera tesa e silenziosa non la aiutò nel mangiare quel pranzo scarso e insipido. Oltretutto, le toccò un posto vicino a quei due, accanto a Rachel che si cibò senza fiatare, come le era stato imposto dall’agente. Meg li aveva entrambi davanti agli occhi, ad un paio di metri. Aveva guardato l’agente Jones per almeno un paio di volte, sentendosi la bocca dello stomaco chiudersi. L’aveva impaurita: lo zotico incapace del nord aveva alzato la voce, carica del potere che la sua divisa gli dava, ed aveva imposto la sua autorità. Se fosse stato una donna non avrebbe avuto tutto quell’effetto negativo su di lei: gli strilli delle poliziotte non la sfioravano.
Ma la voce degli uomini sì, con o senza divisa.
Terminò il pranzo, poco dopo venne l’ora di iniziare quelle stupide lezioni di floricoltura. Fu allora che comprese a chi fosse capitata la triste sorte di perdere la vita dopo il turno di lavoro. L’agente Evans non si presentò, né quella volta, né mai più. Tutte le Margherite Due passarono le quattro ore mestamente, Meg non fece nemmeno caso all’agente Jones, che non mancò al suo dovere.
Al termine, venne concesso loro qualche minuto in ricordo dell’agente.
Mi dispiace per Evans.”, disse Carlos, “Era simpatica, mi allungava le sigarette di nascosto.”
Già…”, si accodò Annelise, commossa, “Era una brava donna, aveva un cuore sotto la divisa.”
Andiamo...”, le fece Carlos, passandole un braccio sulle spalle, “Sicuramente sta meglio lassù che quaggiù. D’altronde, la nostra religione ci insegna a vivere in attesa della morte, non così?”
Hai ragione.”, rispose la donna, asciugando rapidamente le lacrime.
Aveva due bimbi.”, aggiunse Jen, “Poveri loro…”
Meg si trattenne, sopportando tutto senza lasciarsi andare. Non era la prima morte che affrontava da quando si trovava alla Holloway, diversi detenuti di ogni sponda, purtroppo, avevano preferito la via più facile e codarda per uscire da quel posto. Ogni volta era stato un ritorno al passato per Meg. Sospirò e chiese alla sostituta di Evans, l’agente Morris, di poterla accompagnare nella sezione. La donna acconsentì e chiamò a raccolta le detenute.



Non si sentiva realizzato quando imponeva la sua autorità sui detenuti, non era quello il suo modo di lavorare, ma spesso e volentieri erano loro stessi a costringerlo. Era necessario comportarsi duramente con loro quando la situazione lo richiedeva, ma non sempre alzare la voce ed urlare era la migliore soluzione. Il suo collega Hills, infatti, non aveva ottenuto alcunché confrontandosi con quella detenuta; lui, che aveva semplicemente risposto alla domanda di lei, non senza aver assunto un tono duro, c’era riuscito. Per questo, una volta tornato in servizio nella sezione maschile, subito dopo il pranzo ed il rientro dei colleghi andati a salutare per l’ultima volta l’agente Evans, Hills non aveva perso tempo per rimproverarlo, accusandolo di aver sminuito la sua persona davanti alle carcerate e di averlo messo in ridicolo. Si era scusato, nonostante avesse voluto ribattere, ma Hills era un agente anziano e la gerarchia, lì dentro, non era fatta solo dai gradi sulla divisa, ma anche dall’età. Se ne tornò a casa di malumore, il groppo in gola fuso in un misto tra rabbia e fastidio. Aveva bisogno di calmarsi e di sfogarsi, di sedersi davanti al suo pc ed elencare tutte le parole che gli frullavano in testa su una pagina bianca elettronica, ma non poteva farlo. Anzi, avrebbe dovuto sfoggiare il suo migliore sorriso.
Sophie lo aveva invitato a cena dalla sorella, voleva fargli conoscere la sua famiglia, o meglio, parte di essa, che viveva nel centro di Londra. Concluso il suo turno, se ne andò frettolosamente a casa. Dopo una doccia, si vestì di camicia e cravatta, tanto che gli sembrò di essere tornato in divisa, ma con un paio di jeans e di sneakers ai piedi l’effetto svanì. Saltò di nuovo in auto e si districò tra le vie londinesi, arrivando lievemente in ritardo.
Ti stavamo aspettando!”, lo accolse gioiosamente Sophie sulla soglia della porta.
Scusami, ma il traffico fa da padrone in questi posti.”, si spiegò.
Le porse la bottiglia di buon vino che aveva comprato qualche giorno prima e di lì a poco conobbe Cynthia, sua sorella, e Gary, il suo marito inglese. Danny aveva sentito
molto parlare  di loro e si era fatto un’idea sui loro volti, che trovò quasi pienamente rispettata: le due sorelle si somigliavano moltissimo, Cynthia aveva un viso più spigoloso di Sophie, e Mark era un tipo biondastro dai lineamenti tipicamente inglesi. Avevano anche un figlio, Gary Junior, che tutti chiamavano J.J…. Stupidamente, pensò Danny, che poco sopportava poco quei soprannomi. Aveva sette anni ed era piuttosto timido, si nascondeva sempre dietro alle gambe fini della zia.
Avanti, accomodati pure a tavola.”, gli fece Cynthia.
Lei e suo marito sembravano tipi cordiali ed alla mano, ma Danny non riusciva a diminuire la tensione che scorreva continua nei suoi muscoli. Si sentiva come oppresso, studiato e valutato in ogni sua mossa, avrebbe preferito sottrarsi a quell’esame ma aveva comunque voluto accontentare Sophie, che lo aveva pregato di dire di sì a quella serata con due occhi dolci e grandi. Si sedette accanto alla sua ragazza, davanti a lui Gary, Cynthia di fronte alla sorella, il bimbo a capotavola, tenuto sotto controllo dalle due donne. Iniziarono la cena con dell’ottima pasta al forno.
Com’è ovvio che accada”, disse Cynthia, “Sophie ci ha parlato molto di te.”
Davvero?”, fece Danny, evitando di aggiungere la classica frase ‘spero che abbia detto cose carine sul mio conto’, supponendo di essere retorico.
Sì.”, disse Gary, “Così tanto che ti odiamo già.”
L’espressione sul suo viso si congelò in un sorriso stupido.
Andiamo!”, esclamò Sophie, “Non è vero!”
Scoppiarono a ridere e Danny si unì, comprendendo lo scherzo.
Ci ha detto che sei un poliziotto.”, riprese Gary, “Grazie per rendere le nostre strade più sicure.”
Notò ancora la punta sarcastica nelle sue parole, ma non ci fece caso.
In che zona di Londra lavori?”
A Danny venne spontaneo buttare uno sguardo su Sophie, alla sua destra. Sì, Gary non aveva sbagliato, lui era un poliziotto, ma doveva esserci un malinteso: lavorava in un carcere, non per le strade. Oppure era lui ad aver capito male, molto probabilmente gli stavano chiedendo in quale penitenziario lavorava.
Beh… Conoscete Holloway?”, domandò loro.
E’ dove hanno costruito il nuovo stadio per l’Arsenal, vero?”, disse Gary, “Sei di servizio in quella zona?”
Diciamo di sì.”, disse Danny, “Lavoro nel carcere di Holloway.”
I due coniugi si guardarono, Danny non seppe interpretare i loro volti, ma erano certamente stupiti. Sophie non glielo aveva detto? Tornò ad osservarla, come per chiederle spiegazioni, ma lei era concentrata sul suo piatto.
Beh… Confesso che avevamo entrambi capito un’altra cosa!”, disse Cynthia, prendendo le redini della conversazione, “Pensavamo fossi un poliziotto di strada, non che lavorassi in un carcere.”
Agente di polizia penitenziaria.”, sottolineò Danny, non senza un certo orgoglio, “Numero di matricola 973240.”
E… Perché questa scelta?”, domandò Gary, “Perché proprio in un istituto di correzione?”
Ho valutato a lungo la possibilità di diventare un vero poliziotto di strada, ma mi sembrava più interessante quello che sto attualmente facendo.”, si spiegò Danny, “E poi… Ci sono meno rischi, non so se mi capite.”
Certamente.”, disse Cynthia, “Con le strade che abbiamo oggi… Non esco mai quando è tramontato il sole.”
Danny notò che Sophie guardava ancora il suo piatto e se ne chiese il motivo, ma soprattutto gli sarebbe piaciuto sapere se quel malinteso era stato voluto oppure no. Suppose la seconda opzione, dato che comunque la verità sarebbe venuta a galla. Sophie avrebbe potuto non presentarlo mai alla propria famiglia, solo in quel caso i suoi non avrebbero mai saputo che lui lavorava in un carcere, pieno di delinquenti ed assassini.
Era il suo lavoro e, nonostante tutto, ne andava fiero.
Holloway è un carcere duro?”, domandò Gary, che sembrava interessante, “Voglio dire, le misure che utilizzate sono sufficienti a correggere i comportamenti dei condannati?”
Holloway ha la sua sezione di massima sicurezza.”, parlò Danny, “Le misure che adottiamo sono sufficienti nel settanta per cento dei casi, mentre nel tenta per cento, purtroppo, falliamo.”
Secondo me sarebbe necessaria una riforma della giustizia.”, disse Cynthia, “Non sopporto quando alla tv sento parlare di scarcerazioni facili… Se hai ucciso una persona, ti meriti l’ergastolo, sempre e comunque.”
Beh… Quello che dici è in parte giusto.”, affermò Danny, “Ma ci sono casi in cui quello che accade va contro la volontà del colpevole, almeno secondo me…”
Ma la vita che uccidi è comunque una vita, appunto.”, continuo la donna, “Paghi con la tua per quella che hai tolto.”
Cynthia…”, Danny sentì la voce flebile di Sophie accanto a lui.
Quello americano è Stato in cui ancora vige la pena di morte ed io sono fermamente contro questo genere di punizione.”, riprese lei, “Ma penso comunque che un assassino rimarrà assassino per sempre…”
Cynthia.”
Sophie alzò il tono della voce, gli occhi si spostarono su di lei, liberando Danny dal peso del giudizio che si stava formando sulla sua testa. La situazione si congelò, la sorella minore guardava con insistenza la maggiore, che trattenne ogni altra parola e bevve il vino contenuto nel suo bicchiere.
Tu guardi i cattivi, vero?”, disse Gary Junior, puntandolo con la sua forchetta sporca, “Quelli che fanno i cattivi…”
Danny non seppe cosa rispondere, ci pensò il padre del piccolo.
Sì, li tiene lontano da tutti noi.”
J.J. gli sorrise e annuì teatralmente con un cenno della testolina bionda.
E voi… Cosa fate nella vita?”, chiese Danny ai due coniugi.
Quando si fosse trovato solo con Sophie, una volta terminata la cena, le avrebbe chiesto spiegazioni, anche se era certo che fosse stato solo un suo errore di valutazione. La conversazione andò così avanti: Danny seppe che Cynthia era un grafico pubblicitario e che molte delle sue creazioni erano diventati marchi di una certa importanza, mentre Gary vendeva auto nuove ed usate, possedeva una concessionaria a qualche isolato da lì. Danny tenne a mente quell’informazione per Tom, che ancora non aveva raccolto abbastanza denaro per potersi permettere una macchina nuova di pacca ma che, forse, facendo una visita alla concessionaria di Gary, avrebbe potuto imbattersi in qualcosa che poteva adattarsi alle sue tasche. Infine, il bambino andava in una delle tante scuole private e sembrava piuttosto calmo ed educato, o forse era solo la sua presenza ad intimidirlo.
Fatto stava che, una volta terminata la cena, mentre le due donne si occupavano dei piatti sporchi, Danny si sistemò con il padre nel soggiorno e Gary Junior con loro, che iniziò un infinito discorso su come la sua squadra di hockey sul prato era stata sconfitta nell’ultima partita. Lo ascoltò con attenzione, spesso ridendo e guardando il padre, che faceva altrettanto ed incoraggiava il figlio nello sport. Una volta stancatosi, il bambino si dedicò ai suoi camioncini ed alle costruzioni invisibili sul tappeto della stanza, lasciando i due adulti a se stessi.
Sei stato fortunato.”, disse Gary, “Si è trattenuto.”
Davvero?”, gli chiese, stupito.
Sì, è un chiacchierone, anche se a prima vista non sembra.”, disse il padre, “Tale e quale alla madre.”
Danny non si espresse, avrebbe potuto essere frainteso e non voleva.
Avevamo capito che eri un poliziotto di quartiere.”, disse Gary, “Non che lavorassi nel corpo penitenziario.”
Oh no, non ti preoccupare.”, lo tranquillizzò subito, “Sono cose che succedono.”
Mai, non succedevano mai, ma evidentemente c’era una prima volta per tutto.
Da quanto lo sei?”, domandò ancora Gary.
Ormai sono cinque anni.”, gli spiegò, “Ma lavoro negli istituti solo da tre.”
Due anni di corso… O quello che è.”, notò Gary.
Sì, esatto. Mi sembrava di essere tornato a scuola.”
Danny non si sentiva affatto a suo agio in quella conversazione, non riusciva a distogliere la mente dal pensiero negativo che molto probabilmente Gary si stava facendo di lui. Forse si era fatto influenzare troppo da Cynthia e dalle sue parole dure, ma provò a cambiare subito discorso.
Si vendono bene le auto, oggigiorno?”, gli domandò.
E Gary non se lo fece dire due volte. Così come il figlioletto, monopolizzò la chiacchierata ed a Danny andò più che bene. Se ne intendeva di auto, a modo suo e non tanto quanto l’altro, ma almeno ci fu un confronto ad armi pari. Quando Sophie apparve sulla soglia del soggiorno, i due interruppero ogni parola.
Era arrivato il momento di andarsene a casa.
Allora? Ti è piaciuta la mia famiglia?”, gli chiese lei, una volta chiuse le portiere della sua utilitaria.
Sì, sono persone semplici e deliziose.”, le rispose, “Spero di aver fatto una buona impressione.”
Certamente.”, disse Sophie, “Ti hanno apprezzato.”
Bene…”, ne volle approfittare per togliersi quel sassolino dalla scarpa, “Perché a tua sorella non devo rimanere molto simpatico.”
Oh no, non ti preoccupare.”, tagliò corto lei, “E’ che ha preso da nostro padre e lui è un politico, lo sai. Non perde mai l’occasione per starsene un po’ zitta, a volte.”
Non essere così dura nei suoi confronti.”, la riprese, “In fondo, era un semplice scambio di idee.”
Lei non rispose, ma in compenso accese lo stereo e lo posizionò su una stazione radiofonica che trasmetteva un vecchio successo della disco anni settanta. Stava iniziando a conoscerla bene, quel piccolo gesto apparentemente insignificante stava bensì a dire ‘non ne voglio parlare’, ma Danny non poteva dargliela vinta.
Io credo nel mio lavoro.”, le disse, “Le mie convinzioni si fondano su solide basi, altrimenti non sarei mai potuto diventare un poliziotto...”, fece una piccola pausa, “Un poliziotto che lavora in un carcere.”
Lo so, Dan.”, si pronunciò Sophie, “Ad ogni modo, mia sorella chiacchiera tanto ma cucina bene, vero?”
Altra potente virata.
Sì, è davvero una brava cuoca.”, la seguì Danny.



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Note dell'autrice.

Eccomi, qua, dopo millemila mesi che non pubblico, ringrazio Ciry che con le sue dolcissime parole mi ha spronato :D E ringrazio anche la Fra!

Spero che la storia non vi annoi, so che sembra non succedere niente, ma se leggete bene stanno accadendo più cose di quanto vi possa sembrare. Capite, si trovano dentro ad un carcere, non possono esserci fatti eclatanti e decisamente fuori luogo.
Se vi va, lasciate un commento :) e di nuovo grazie.


   
 
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