E’ da tanto che lo dico finalmente l’ho fatto. Ho ripreso in mano il Diario,non nella forma ma, in un certo senso, nei contenuti. Per questa storia si potrebbe parlare di una sorta di “ibridazione” fra la storia originale, l’esperienza nel mondo delle FF (e dello yaoi) e una certa [presunta] maggiore maturità da parte mia.
Vorrei precisare tuttavia che questa mini-long non è parte della storia “ufficiale” del diario bensì un suo spin off\what if… anzi, come dice il titolo è “Un’altra possibilità”...
Dedico le pagine che seguiranno a tutti coloro che hanno mostrato interesse per il Diario: lasciando recensioni, inserendolo fra preferiti e simili o magari scrivendomi direttamente. Grazie di cuore, perché questa “saga” per me significa davvero tanto e amo incondizionatamente chiunque la apprezzi. Questa storia è anche un modo per scusarmi del lungo silenzio, ma vi garantisco che prima o poi riprendo in mano tutto!
Ringrazio fin d’ora chi leggerà “sulla fiducia” pur non amando il format *wink*.
Grazie a wakashimazu_ken e agli msn-deliri di cui questo “e se” è figlio… un po’ mi mancano lo sai?
Grazie a Lady Snape e Kianeko che, facendolo comparire nelle loro storie, hanno risvegliato in me l'antica voglia di scrivere di Mune!
Last but not least grazie alla betina rel ormai convertita a etero ed AU. XD
And when the broken hearted people living in the world agree,
there will be an answer, let it be.
For though they may be parted there is still a chance that they will see,
there will be an answer.
let it be.
“Let it be” – The Beatles
Lo
scopo della serata era: passare inosservata. Ma sapeva che non sarebbe
stato facile, non con l’orrendo vestito da sera che sua madre
le aveva
imposto: una brutta caricatura di un abito tradizionale giapponese, per
di più rosa.
Lei lo odiava, il rosa. Ma che poteva saperne sua madre.
Yasu
sospirò: d’altronde la bella vita che da mesi
stava conducendo, prima
ad Amburgo da Genzo e ora a Londra dai suoi genitori, doveva pur
mandarle il conto, una buona volta. E, considerando che, per la maggior
parte del tempo, faceva tutto ciò che le pareva, dover
recitare la
parte della brava figlia per una sera non sarebbe stato poi
così
terribile: si era dunque rassegnata alla festa per il fidanzamento di
suo fratello maggiore, all’orribile vestito rosa e al fuoco
incrociato
delle presentazioni cui sua madre l’avrebbe sicuramente
sottoposta. Il
gioco valeva la candela: fra l’altro, il catering era curato
dal suo
ristorante giapponese preferito e appena possibile, si sarebbe ritirata
nelle sue stanze adducendo la scusa di un lieve malessere.
Si
appuntò i capelli ormai ricresciuti e sistemò il
vestito attorno alle
sue nuove curve: da quando stava in Europa aveva preso qualche chilo
ma, a detta di tutti, si erano depositati nei punti giusti e il suo
corpo non era più atletico e mascolino ma decisamente
più femminile.
Non che ne fosse così felice, le piaceva più il
suo “vecchio” corpo
come le piaceva e le mancava allenarsi quotidianamente ma, anche
quelle, erano cose della sua “vecchia” vita, quella
che si era lasciata
alle spalle con tanta fatica.
Sopportò i complimenti e le smancerie
dei primi cinque o sei “buoni partiti” propinatele
dalla madre, poi,
quando questa si distrasse, sgusciò abilmente sulla terrazza.
L’aria
era fresca, nonostante fosse quasi primavera, ma profumava di mare ed
era molto più pulita di quella di Londra. In effetti quella
villa nella
campagna inglese era molto simile a quella di Nankatsu.
Rabbrividì
leggermente e si strinse nella seta leggera dell’abito,
mentre,
appoggiata alla balaustra, fissava l’immenso giardino,
pensierosa.
Quando sentì dei passi avvicinarsi, un uomo a giudicare dal
rumore,
restò immobile, fermamente decisa a evitare uno dopo
l’altro tutti i
cicisbei inviati dalla madre.
“Do you mind if I smoke?” chiese lo
sconosciuto, ma l’accento giapponese era così
forte che Yasu rispose
quasi di riflesso nella propria lingua.
“Parla giapponese?”
proseguì l’altro, una nota di sorpresa nella voce.
Voce che a Yasu
suonò subito familiare, facendola girare di scatto.
“Katagiri-san!”
gridò felice e stupita al contempo.
“Ci conosciamo?” fece lui. La piega delle
sopracciglia lasciava indovinare uno sguardo sorpreso celato dalle
lenti scure.
La
ragazza fece un passo verso il cono di luce di un lampione: di sicuro
il buio e le lenti da sole non gli erano d’aiuto. E poi da
quel che
sapeva…
“Forse se avessi un cappellino e una sdrucita tuta del Toho
aiuterebbe?” fece, mettendo una mano alla fronte a
mo’ di saluto
militare, per imitare la tesa del berretto.
Stavolta lo stupore era palese, tanto che l’uomo
indietreggiò persino di qualche passo.
“Wakabayashi? La Wakabayashi femmina?”
La ragazza rise, poi, fingendosi arrabbiata, mise le mani sui fianchi e
disse: “Veramente avrei un nome”.
“Yasu…” rispose Katagiri quasi in un
sospiro.
“Ai!” confermò lei accennando un inchino.
“Sei…” la squadrò poco
educatamente. “… molto cambiata”.
“Può dirlo
‘ingrassata’”.
“No” si affrettò a dire.
“Sei… cresciuta…”
“Addirittura? Ma se sono passati solo pochi
mesi…”
“E cosa ci fai qui?” chiese lui, quasi
brusco.
“Beh,
infondo quello che si fidanza è mio fratello, anche se lo
conosco
appena… ma visto che ora vivo qui…”
spiegò. “Lei, piuttosto, cosa ci fa
lontano dalla madre patria?”
“Sono qua per incontrare i dirigenti di
alcune squadre inglesi che sembrano interessati a ingaggiare qualcuno
dei nostri ragazzi…”
“Davvero???” lo interruppe Yasu eccitatissima.
“E chi?” domandò prendendolo
praticamente per le spalle. Salvo
ritrovare, arrossendo, un contegno. “Ehm, mi scusi, stava
dicendo?”
Lui
inarcò leggermente il sopracciglio, poi riprese da dove si
era
interrotto. “Dicevo, siccome passavo da Londra ho chiamato
tuo fratello
Ichirou, che è un mio vecchio amico d’infanzia,
con l’intento di
incontrarlo per un saluto… e lui mi ha invitato a questa sua
festa di
fidanzamento. Ho dovuto accettare per educazione ma credo
resterò poco,
visto che non conosco nessuno”.
“Già, vale lo stesso per me”.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale entrambi si volsero a
osservare il giardino.
“Nitta e Matsuyama” disse all’improvviso
Katagiri.
“Eh?”
“Mi avevi chiesto chi sono i ragazzi voluti dalle squadre
inglesi”.
Fu come soffiare su delle braci quasi spente.
Yasu
si lanciò in una lunga disquisizione su quanto le
capacità dei due
giocatori si adattassero alla Premiere League, per poi passare in
rassegna un po’ tutti i membri della Nazionale, dimostrando
non solo
profonde conoscenze tecniche ma anche di essere notevolmente aggiornata
circa le faccende mondane dei vari giocatori, soprattutto per una che
viveva lontano da circa un anno.
Quando Katagiri, che aveva partecipato attivamente alla discussione,
glielo fece notare con un sorriso, lei arrossì.
“Ken… Wakashimazu… mi scrive sempre
lunghe e dettagliatissime email…”
spiegò, alle quali non rispondo mai,
avrebbe voluto dire ma invece aggiunse solo: “E lui
è un ottimo scrittore e un petteg- ehm un osservatore anche
migliore”.
Il
sorriso sul volto di Munemasa, che si era eclissato un attimo sentendo
il nome del Karate Keeper, si trasformò in una sonora
risata. Non
conosceva la storia nei particolari, ma sapeva che il portiere
c’entrava qualcosa col soggiorno o, meglio, la fuga di Yasu
in Europa.
Ricordava che qualche anno prima i due stavano insieme, era durata
piuttosto a lungo considerata la loro giovanissima età. E se
le voci
che giravano circa Wakashimazu erano vere, capiva bene
perché lei fosse
fuggita così lontano…Qualcosa che, a suo tempo,
anche lui aveva
desiderato fare.
La conversazione continuò amabilmente e dal calcio
passarono a parlare del più e del meno, finché,
mentre raccontava dei
migliori ristoranti giapponesi di Londra, Yasu, quasi senza
accorgersene, aveva iniziato a dargli del tu.
“Il migliore è
senz’altro quello che ha fornito il catering stasera,
è un po’ fuori
Londra, ma se ti trattieni qualche volta possiamo
andarci…”
Munemasa annuì cercando di ignorare lo strano brivido che
non tanto il “tu” quanto quell’ultimo
“noi” gli aveva provocato.
In quel momento la signora Wakabayashi apparve sul terrazzo.
“Yasuko,
ma dove…” strillettò salvo poi
interrompersi scorgendo il signor
Katagiri. Un sorriso le si allargò sul volto.
“Tesooooro” cinguettò.
“Non sapevo fossi in compagnia… Il figlio di
Katagiri, vero?” chiese
civettuola.
“Sì, signora, Munemasa Katagiri” si
presentò con un educato inchino.
Yasu
sorrise arricciando il naso: era buffo pensare al “signor
Katagiri”
come al “figlio del signor Katagiri”, ma
d’altra parte i suoi genitori
erano amici di vecchia data del padre, un facoltoso imprenditore.
“E come sta suo padre?” proseguì la
signora.
“Bene, grazie” rispose lui, sempre estremamente
cortese. “Manda i suoi saluti a lei, a suo marito e ai suoi
figli…”
“E niente per mia figlia? Non è uno
splendore?”
Yasu strabuzzò gli occhi e diventò rossa.
Aprì la bocca per ansimare “Mamma!” ma
Munemasa fu più svelto di lei.
“Davvero, uno splendore” confermò, senza
guardare la ragazza che, intanto, da rossa era diventata viola.
“E di cosa parlavate?” insisté la
signora.
“Dei vecchi tempi” tagliò corto Yasu,
desiderosa di porre fine all’incresciosa situazione.
“Ah!”
esclamò eccitata la madre. “Di quando veniva a
fare i compiti da
Ichi-chan e non poteva fare a meno di prenderti in braccio?”
“Ehm… no, mamma” balbettò
sconvolta. “In effetti si parlava della
Nazionale…”
La signora si ritrasse, stupita, guardandoli a turno.
“Ehm…
mamma… ti ricordi che Genzo gioca a calcio e che
l’hanno anche chiamato
in Nazionale… che vedesti la partita in TV una
volta…”
La donna annuì, non troppo convinta.
“E
ti ricordi che io andavo con lui? E che ero entrata nello staff della
Nazionale? C’era anche Mune- il signor – il figlio
del signor
Katagiri…”.
“Ah, sì… ricordo… anche lei
giocava a calcio come il mio Genzo”.
Yasu si morse le labbra.
Quando
aveva deciso di venire a stare a Londra, sapeva di dover convivere coi
suoi genitori, quelli che se ne erano partiti lasciando lei e suo
fratello in Giappone perché erano troppo piccoli e sarebbero
stati loro
d’intralcio. Non li aveva mai esattamente odiati per quello,
in fondo
lei e Genzo avevano avuto una vita piena e felice, in cui
l’affetto non
era mai mancato, ma talvolta era davvero difficile.
Sapeva che
avrebbe dovuto convivere col fatto che i suoi genitori non conoscevano
niente di lei e del suo gemello. Neppure che lui era uno dei portieri
migliori del mondo. Ma sentirla dire il “mio
Genzo”, la faceva comunque
andare in bestia.
Ma era il prezzo da pagare, si ripeté, quindi
rilassò i muscoli della mascella e il pugno che
istintivamente aveva serrato.
A
Munemasa il movimento non sfuggì. Un po’ di anni
prima avrebbe reagito
allo stesso modo, ora aveva imparato a controllare ulteriormente le
proprie emozioni. Ebbe tuttavia l’istinto di prendere quella
mano
rabbiosamente serrata fra le sue, ma, ovviamente, non lo fece. Si
limitò ad annuire cortesemente all’indirizzo della
signora Wakabayashi,
quindi dette un’occhiata all’orologio.
“Si è fatto molto tardi”
osservò.
“Sì” incalzò Yasu
“Domani hai molti, impegni, no?”
Lo
sguardo che si scambiarono fu eloquente: entrambi sarebbero rimasti
ancora ore a parlare come poco prima, ma la situazione che si era
venuta a creare non piaceva a nessuno dei due.
“Un’infinità… quindi con
permesso…” rispose lui, accennando un inchino e un
saluto.
Yasu
rilassò le spalle, celando appena il sospiro di sollievo.
Gli sorrise,
ringraziandolo segretamente per aver capito l’antifona.
Lo accompagnò fino alla porta, sempre seguita a ruota dalla
madre.
Si
salutarono formalmente e Yasu lo guardò allontanarsi con una
punta di
amarezza. Poi si voltò verso la madre e la salutò
con un brusco: “Vado
a letto, buonanotte”, quindi si addentrò nella
sala alla ricerca di
Ichirou per congedarsi anche da lui.
Munemasa Katagiri rientrò
nella sua camera d’albergo. Gettò il soprabito e
la giacca sul letto e
andò in bagno. Lentamente sfilò gli occhiali,
riempì le mani a coppa di
acqua fredda e si bagnò il viso. Poi appoggiò i
palmi sul lavandino e
rimase a lungo a fissare lo scarico, le gocce che scendevano lungo
le
guance come lacrime, i lunghi capelli che pendevano ai lati del volto.
Rimase lì alcuni secondi, stringendo allo spasimo i bordi
del
lavandino. Quindi inspirò ed espirò
profondamente, infine, alzò la
testa per guardarsi nello specchio.
Contemplò la cicatrice che
occupava l’orbita destra, là dove avrebbe dovuto
stare il bulbo
oculare. Serrò la palpebra sana, quindi la riaprì
per guardare
l’occhio. Lo faceva tanto di rado che aveva dimenticato
persino il
colore della sua iride, quel marrone quasi verde che un tempo aveva un
discreto successo con le donne.
“Già, quando ancora guardavi le
donne, Munemasa, non le ragazzine” mormorò fra
sé. “Quando non eri
sfregiato e neppure pedofilo” ringhiò, prendendo
con rabbia la
salvietta in cui affondò il viso per alcuni istanti.
Trasse ancora
qualche lungo respiro, quindi si spogliò e si distese sul
letto. Aveva
sperato di addormentarsi subito, perché era stanco e aveva
fatto più
tardi del previsto, ma, rilassandosi, il ricordo della serata appena
trascorsa invase la sua coscienza.
E il pensiero andò a lei.
Yasu
Wakabayashi. La ricordava appena come una ragazzina tutta gambe,
così
somigliante al fratello che fino a una certa età li potevi
scambiare.
Il suo atteggiamento da maschiaccio ribelle lo aveva fatto sorridere
più volte, ma aveva anche notato quanto sapesse essere dolce
coi
ragazzi, soprattutto nei momenti più difficili e delicati,
per esempio
quando si infortunavano. Si era stupito quando Mikami aveva proposto di
farla entrare nello staff della Nazionale ma, alla fine, era stato
soddisfatto della scelta, per quanto strana. Era toccato a lui farle
quella proposta ed era stato il primo a sostenerla e, pur
nell’ombra,
aveva sempre cercato di continuare a farlo. Gli era dispiaciuto quando
Gamo l’aveva messa alla porta e a volte rimpiangeva di non
aver usato
la sua autorità per tentare di fare tornare Minato sui suoi
passi.
Soprattutto gli dispiaceva perché quell’abbandono
si era andato a
sommare a quello ben più grave da parte di Ken.
E lui lo sapeva bene che ogni colpo inferto dal destino fa
più male del precedente.
Quel
filo di pensieri aveva preso una brutta piega e ora, non poteva che
arrivare fino a Hinata. La sua mente che vagolava fra il sonno e la
veglia non oppose sufficiente resistenza e la rivide com’era
a
vent’anni, minuta e delicata, col viso come un petalo di
rosa, la bocca
a cuore, i capelli come una cascata di velluto nerissimo, un volto da
dipinto antico, in contrasto e armonia col modo sfacciatamente moderno
che aveva di vestire. Amava il calcio, Hinata e amava lui. Sembrava
divertirsi anche a parlare di partite e schemi per interi pomeriggi.
Gamo, Mikami e gli altri della Nazionale lo prendevano in giro,
perché
era il più piccolo e perché era innamorato. Ma
lui era convinto fosse
tutta invidia.
Poi l’incidente e tutto era cambiato.
Gli dissero
che doveva rinunciare al calcio. Lei l’abbracciò
forte e promise che
gli sarebbe rimasta accanto. Ma Munemasa vide l’ombra che le
attraversò
il viso quando gli tolsero le bende e Hinata vide il volto che amava
sfregiato per sempre.
Lei sorrise, tuttavia, e gli accarezzò la
guancia colpita. Quello che lui percepì, però,
non fu amore ma pietà.
Allora fu lui a chiederle di andarsene, prima a parole, poi, di fronte
al suo rifiuto, coi fatti: si trasformò in un uomo che
nessuno avrebbe
amato. E Hinata capitolò, abbandonandolo, come lui stesso le
chiedeva
ormai da mesi.
Da allora, c’erano state solo avventure. Da allora
–
da quasi dieci anni -, non aveva più provato…
quello che aveva provato
poche ore prima.
Nonostante il sonno che premeva, Munemasa cercava di darsi una
spiegazione razionale: ci sentivamo entrambi soli, ci
mancava qualcuno con cui parlare delle cose che ci piacciono…
Ma c’era di più…
Avevano
molto in comune: la storia familiare, i genitori ricchi e distanti che
ti vorrebbero diverso da quello che sei, il fallimento di un amore
importante, col suo carico di dolori e cicatrici più o meno
visibili…
Aveva avuto voglia di stringerla fra le braccia, per
consolarla, si disse.
Aveva avuto voglia di restare a parlare con lei tutta la
notte… è simpatica, arguta e si
intende di calcio, si giustificò.
Non le aveva chiesto il numero di telefono, e vorrei ben
vedere, si rimproverò prima che il sonno,
finalmente, avesse la meglio.
Yasu
Wakabayashi salì in camera sua col cuore leggero, come non
lo sentiva
da tempo. Rise fra sé quando si rese conto che stava
canticchiando.
Credeva si sarebbe annoiata, quella sera, invece le ore erano
volate…grazie alla compagnia del signor Katagiri. Le era
sempre
sembrato un tipo simpatico, ma non aveva mai avuto
l’occasione di
parlarci, diciamo così, da pari a pari. In effetti
l’unica
conversazione propriamente detta che avessero mai avuta, era stata
quando lui era venuto a proporle il posto nello staff della nazionale.
E anche quella volta, anzi, soprattutto quella volta, si era sentita
come a un colloquio di lavoro.
Invece quella sera era stato come
parlare con un vecchio amico, a parte il modo squisitamente deferente e
formale che aveva sfoderato con sua madre. Yasu ridacchiò:
per quello
le occorreva ancora un po’ di allenamento… e
magari un ripassino di
“buona educazione nipponica”…come aveva
borbottato più di una volta il
padre di Ken, di fronte alla sua “esuberanza
occidentale”.
Ecco.
Ancora una volta aveva pensato a lui: ma proprio come quando
l’aveva
menzionato qualche ora prima, era riuscita a farlo
serenamente… chissà,
magari stava finalmente imparando.
Prima di addormentarsi fra le
coltri morbide, il suo ultimo pensiero era stato che era un peccato non
essersi scambiati il numero di telefono, le sarebbe piaciuto portarlo a
cena in quel ristorante giapponese di cui avevano parlato e passare
un’altra serata piacevole e spensierata come quella appena
trascorsa.
Vi ho intrippato un po'?
Al prossimo cap;)