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Autore: berlinene    26/07/2010    2 recensioni
Uno spin off-what if delle vicende del "Diario"... o, come dice il titolo, un'altra possibilità: per i protagonisti, in un momento in cui ormai nessuno di loro ci sperava più, e per voi. E per me. Enjoy. [Munemasa Katagiri; Personaggio originale femminile]
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Diario di Irene Price genera storie'
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E’ da tanto che lo dico  finalmente l’ho fatto. Ho ripreso in mano il Diario,non nella forma ma, in un certo senso, nei contenuti. Per questa storia si potrebbe parlare di una sorta di “ibridazione” fra la storia originale, l’esperienza nel mondo delle FF (e dello yaoi) e una certa [presunta] maggiore maturità da parte mia.

Vorrei precisare tuttavia che questa mini-long non è parte della storia “ufficiale” del diario bensì un suo spin off\what if… anzi, come dice il titolo è “Un’altra possibilità”...

 

Dedico le pagine che seguiranno a tutti coloro che hanno mostrato interesse per il Diario: lasciando recensioni, inserendolo fra preferiti e simili o magari scrivendomi direttamente. Grazie di cuore, perché questa “saga” per me significa davvero tanto  e amo incondizionatamente chiunque la apprezzi. Questa storia è anche un modo per scusarmi del lungo silenzio, ma vi garantisco che prima o poi riprendo in mano tutto!

Ringrazio fin d’ora chi leggerà “sulla fiducia” pur non amando il format *wink*.

Grazie a wakashimazu_ken e agli msn-deliri di cui questo “e se” è figlio… un po’ mi mancano lo sai?

Grazie a Lady Snape e Kianeko che, facendolo comparire nelle loro storie, hanno risvegliato in me l'antica voglia di scrivere di Mune!

Last but not least grazie alla betina rel ormai convertita a etero ed AU. XD

 


Note dell'Autore:

And when the broken hearted people living in the world agree,

there will be an answer, let it be.

For though they may be parted there is still a chance that they will see,

there will be an answer.

let it be.

“Let it be” – The Beatles

 

 

 



Lo scopo della serata era: passare inosservata. Ma sapeva che non sarebbe stato facile, non con l’orrendo vestito da sera che sua madre le aveva imposto: una brutta caricatura di un abito tradizionale giapponese, per di più rosa.
Lei lo odiava, il rosa. Ma che poteva saperne sua madre.
Yasu sospirò: d’altronde la bella vita che da mesi stava conducendo, prima ad Amburgo da Genzo e ora a Londra dai suoi genitori, doveva pur mandarle il conto, una buona volta. E, considerando che, per la maggior parte del tempo, faceva tutto ciò che le pareva, dover recitare la parte della brava figlia per una sera non sarebbe stato poi così terribile: si era dunque rassegnata alla festa per il fidanzamento di suo fratello maggiore, all’orribile vestito rosa e al fuoco incrociato delle presentazioni cui sua madre l’avrebbe sicuramente sottoposta. Il gioco valeva la candela: fra l’altro, il catering era curato dal suo ristorante giapponese preferito e appena possibile, si sarebbe ritirata nelle sue stanze adducendo la scusa di un lieve malessere.
Si appuntò i capelli ormai ricresciuti e sistemò il vestito attorno alle sue nuove curve: da quando stava in Europa aveva preso qualche chilo ma, a detta di tutti, si erano depositati nei punti giusti e il suo corpo non era più atletico e mascolino ma decisamente più femminile. Non che ne fosse così felice, le piaceva più il suo “vecchio” corpo come le piaceva e le mancava allenarsi quotidianamente ma, anche quelle, erano cose della sua “vecchia” vita, quella che si era lasciata alle spalle con tanta fatica.
Sopportò i complimenti e le smancerie dei primi cinque o sei “buoni partiti” propinatele dalla madre, poi, quando questa si distrasse, sgusciò abilmente sulla terrazza.
L’aria era fresca, nonostante fosse quasi primavera, ma profumava di mare ed era molto più pulita di quella di Londra. In effetti quella villa nella campagna inglese era molto simile a quella di Nankatsu.
Rabbrividì leggermente e si strinse nella seta leggera dell’abito, mentre, appoggiata alla balaustra, fissava l’immenso giardino, pensierosa. Quando sentì dei passi avvicinarsi, un uomo a giudicare dal rumore, restò immobile, fermamente decisa a evitare uno dopo l’altro tutti i cicisbei inviati dalla madre.
“Do you mind if I smoke?” chiese lo sconosciuto, ma l’accento giapponese era così forte che Yasu rispose quasi di riflesso nella propria lingua.
“Parla giapponese?” proseguì l’altro, una nota di sorpresa nella voce. Voce che a Yasu suonò subito familiare, facendola girare di scatto. “Katagiri-san!” gridò felice e stupita al contempo.
“Ci conosciamo?” fece lui. La piega delle sopracciglia lasciava indovinare uno sguardo sorpreso celato dalle lenti scure.
La ragazza fece un passo verso il cono di luce di un lampione: di sicuro il buio e le lenti da sole non gli erano d’aiuto. E poi da quel che sapeva…
“Forse se avessi un cappellino e una sdrucita tuta del Toho aiuterebbe?” fece, mettendo una mano alla fronte a mo’ di saluto militare, per imitare la tesa del berretto.
Stavolta lo stupore era palese, tanto che l’uomo indietreggiò persino di qualche passo. “Wakabayashi? La Wakabayashi femmina?”
La ragazza rise, poi, fingendosi arrabbiata, mise le mani sui fianchi e disse: “Veramente avrei un nome”.
“Yasu…” rispose Katagiri quasi in un sospiro.
“Ai!” confermò lei accennando un inchino.
“Sei…” la squadrò poco educatamente. “… molto cambiata”.
“Può dirlo ‘ingrassata’”.
“No” si affrettò a dire. “Sei… cresciuta…”
“Addirittura? Ma se sono passati solo pochi mesi…”
“E cosa ci fai qui?”  chiese lui, quasi brusco.
“Beh, infondo quello che si fidanza è mio fratello, anche se lo conosco appena… ma visto che ora vivo qui…” spiegò. “Lei, piuttosto, cosa ci fa lontano dalla madre patria?”
“Sono qua per incontrare i dirigenti di alcune squadre inglesi che sembrano interessati a ingaggiare qualcuno dei nostri ragazzi…”
“Davvero???” lo interruppe Yasu eccitatissima. “E chi?” domandò prendendolo praticamente per le spalle. Salvo ritrovare, arrossendo, un contegno. “Ehm, mi scusi, stava dicendo?”
Lui inarcò leggermente il sopracciglio, poi riprese da dove si era interrotto. “Dicevo, siccome passavo da Londra ho chiamato tuo fratello Ichirou, che è un mio vecchio amico d’infanzia, con l’intento di incontrarlo per un saluto… e lui mi ha invitato a questa sua festa di fidanzamento. Ho dovuto accettare per educazione ma credo resterò poco, visto che non conosco nessuno”.
“Già, vale lo stesso per me”.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale entrambi si volsero a osservare il giardino.
“Nitta e Matsuyama” disse all’improvviso Katagiri.
“Eh?”
“Mi avevi chiesto chi sono i ragazzi voluti dalle squadre inglesi”.
Fu come soffiare su delle braci quasi spente.
Yasu si lanciò in una lunga disquisizione su quanto le capacità dei due giocatori si adattassero alla Premiere League, per poi passare in rassegna un po’ tutti i membri della Nazionale, dimostrando non solo profonde conoscenze tecniche ma anche di essere notevolmente aggiornata circa le faccende mondane dei vari giocatori, soprattutto per una che viveva lontano da circa un anno.
Quando Katagiri, che aveva partecipato attivamente alla discussione, glielo fece notare con un sorriso, lei arrossì.
“Ken… Wakashimazu… mi scrive sempre lunghe e dettagliatissime email…” spiegò, alle quali non rispondo mai, avrebbe voluto dire ma invece aggiunse solo: “E lui è un ottimo scrittore e un petteg- ehm un osservatore anche migliore”.
Il sorriso sul volto di Munemasa, che si era eclissato un attimo sentendo il nome del Karate Keeper, si trasformò in una sonora risata. Non conosceva la storia nei particolari, ma sapeva che il portiere c’entrava qualcosa col soggiorno o, meglio, la fuga di Yasu in Europa. Ricordava che qualche anno prima i due stavano insieme, era durata piuttosto a lungo considerata la loro giovanissima età. E se le voci che giravano circa Wakashimazu erano vere, capiva bene perché lei fosse fuggita così lontano…Qualcosa che, a suo tempo, anche lui aveva desiderato fare.
La conversazione continuò amabilmente e dal calcio passarono a parlare del più e del meno, finché, mentre raccontava dei migliori ristoranti giapponesi di Londra, Yasu, quasi senza accorgersene, aveva iniziato a dargli del tu.
“Il migliore è senz’altro quello che ha fornito il catering stasera, è un po’ fuori Londra, ma se ti trattieni qualche volta possiamo andarci…”
Munemasa annuì cercando di ignorare lo strano brivido che non tanto il “tu” quanto quell’ultimo “noi” gli aveva provocato.
In quel momento la signora Wakabayashi apparve sul terrazzo.
“Yasuko, ma dove…” strillettò salvo poi interrompersi scorgendo il signor Katagiri. Un sorriso le si allargò sul volto. “Tesooooro” cinguettò. “Non sapevo fossi in compagnia… Il figlio di Katagiri, vero?” chiese civettuola.
“Sì, signora, Munemasa Katagiri” si presentò con un educato inchino.
Yasu sorrise arricciando il naso: era buffo pensare al “signor Katagiri” come al “figlio del signor Katagiri”, ma d’altra parte i suoi genitori erano amici di vecchia data del padre, un facoltoso imprenditore.
“E come sta suo padre?” proseguì la signora.
“Bene, grazie” rispose lui, sempre estremamente cortese. “Manda i suoi saluti a lei, a suo marito e ai suoi figli…”
“E niente per mia figlia? Non è uno splendore?”
Yasu strabuzzò gli occhi e diventò rossa. Aprì la bocca per ansimare “Mamma!” ma Munemasa fu più svelto di lei.
“Davvero, uno splendore” confermò, senza guardare la ragazza che, intanto, da rossa era diventata viola.
“E di cosa parlavate?” insisté la signora.
“Dei vecchi tempi” tagliò corto Yasu, desiderosa di porre fine all’incresciosa situazione.
“Ah!” esclamò eccitata la madre. “Di quando veniva a fare i compiti da Ichi-chan e non poteva fare a meno di prenderti in braccio?”
“Ehm… no, mamma” balbettò sconvolta. “In effetti si parlava della Nazionale…”
La signora si ritrasse, stupita, guardandoli a turno.
“Ehm… mamma… ti ricordi che Genzo gioca a calcio e che l’hanno anche chiamato in Nazionale… che vedesti la partita in TV una volta…”
La donna annuì, non troppo convinta.
“E ti ricordi che io andavo con lui? E che ero entrata nello staff della Nazionale? C’era anche Mune- il signor – il figlio del signor Katagiri…”.
“Ah, sì… ricordo… anche lei giocava a calcio come il mio Genzo”.
Yasu si morse le labbra.
Quando aveva deciso di venire a stare a Londra, sapeva di dover convivere coi suoi genitori, quelli che se ne erano partiti lasciando lei e suo fratello in Giappone perché erano troppo piccoli e sarebbero stati loro d’intralcio. Non li aveva mai esattamente odiati per quello, in fondo lei e Genzo avevano avuto una vita piena e felice, in cui l’affetto non era mai mancato, ma talvolta era davvero difficile.
Sapeva che avrebbe dovuto convivere col fatto che i suoi genitori non conoscevano niente di lei e del suo gemello. Neppure che lui era uno dei portieri migliori del mondo. Ma sentirla dire il “mio Genzo”, la faceva comunque andare in bestia.
Ma era il prezzo da pagare, si ripeté, quindi rilassò i muscoli della mascella e il pugno che istintivamente aveva serrato.
A Munemasa il movimento non sfuggì. Un po’ di anni prima avrebbe reagito allo stesso modo, ora aveva imparato a controllare ulteriormente le proprie emozioni. Ebbe tuttavia l’istinto di prendere quella mano rabbiosamente serrata fra le sue, ma, ovviamente, non lo fece. Si limitò ad annuire cortesemente all’indirizzo della signora Wakabayashi, quindi dette un’occhiata all’orologio.
“Si è fatto molto tardi” osservò.
“Sì” incalzò Yasu “Domani hai molti, impegni, no?”
Lo sguardo che si scambiarono fu eloquente: entrambi sarebbero rimasti ancora ore a parlare come poco prima, ma la situazione che si era venuta a creare non piaceva a nessuno dei due.
“Un’infinità… quindi con permesso…” rispose lui, accennando un inchino e un saluto.
Yasu rilassò le spalle, celando appena il sospiro di sollievo. Gli sorrise, ringraziandolo segretamente per aver capito l’antifona.
Lo accompagnò fino alla porta, sempre seguita a ruota dalla madre.
Si salutarono formalmente e Yasu lo guardò allontanarsi con una punta di amarezza. Poi si voltò verso la madre e la salutò con un brusco: “Vado a letto, buonanotte”, quindi si addentrò nella sala alla ricerca di Ichirou per congedarsi anche da lui.

Munemasa Katagiri rientrò nella sua camera d’albergo. Gettò il soprabito e la giacca sul letto e andò in bagno. Lentamente sfilò gli occhiali, riempì le mani a coppa di acqua fredda e si bagnò il viso. Poi appoggiò i palmi sul lavandino e rimase a lungo a fissare lo scarico, le gocce che scendevano lungo le  guance come lacrime, i lunghi capelli che pendevano ai lati del volto. Rimase lì alcuni secondi, stringendo allo spasimo i bordi del lavandino. Quindi inspirò ed espirò profondamente, infine, alzò la testa per guardarsi nello specchio.
Contemplò la cicatrice che occupava l’orbita destra, là dove avrebbe dovuto stare il bulbo oculare. Serrò la palpebra sana, quindi la riaprì per guardare l’occhio. Lo faceva tanto di rado che aveva dimenticato persino il colore della sua iride, quel marrone quasi verde che un tempo aveva un discreto successo con le donne.
“Già, quando ancora guardavi le donne, Munemasa, non le ragazzine” mormorò fra sé. “Quando non eri sfregiato e neppure pedofilo” ringhiò, prendendo con rabbia la salvietta in cui affondò il viso per alcuni istanti.
Trasse ancora qualche lungo respiro, quindi si spogliò e si distese sul letto. Aveva sperato di addormentarsi subito, perché era stanco e aveva fatto più tardi del previsto, ma, rilassandosi, il ricordo della serata appena trascorsa invase la sua coscienza.
E il pensiero andò a lei.
Yasu Wakabayashi. La ricordava appena come una ragazzina tutta gambe, così somigliante al fratello che fino a una certa età li potevi scambiare. Il suo atteggiamento da maschiaccio ribelle lo aveva fatto sorridere più volte, ma aveva anche notato quanto sapesse essere dolce coi ragazzi, soprattutto nei momenti più difficili e delicati, per esempio quando si infortunavano. Si era stupito quando Mikami aveva proposto di farla entrare nello staff della Nazionale ma, alla fine, era stato soddisfatto della scelta, per quanto strana. Era toccato a lui farle quella proposta ed era stato il primo a sostenerla e, pur nell’ombra, aveva sempre cercato di continuare a farlo. Gli era dispiaciuto quando Gamo l’aveva messa alla porta e a volte rimpiangeva di non aver usato la sua autorità per tentare di fare tornare Minato sui suoi passi. Soprattutto gli dispiaceva perché quell’abbandono si era andato a sommare a quello ben più grave da parte di Ken.
E lui lo sapeva bene che ogni colpo inferto dal destino fa più male del precedente.
Quel filo di pensieri aveva preso una brutta piega e ora, non poteva che arrivare fino a Hinata. La sua mente che vagolava fra il sonno e la veglia non oppose sufficiente resistenza e la rivide com’era a vent’anni, minuta e delicata, col viso come un petalo di rosa, la bocca a cuore, i capelli come una cascata di velluto nerissimo, un volto da dipinto antico, in contrasto e armonia col modo sfacciatamente moderno che aveva di vestire. Amava il calcio, Hinata e amava lui. Sembrava divertirsi anche a parlare di partite e schemi per interi pomeriggi. Gamo, Mikami e gli altri della Nazionale lo prendevano in giro, perché era il più piccolo e perché era innamorato. Ma lui era convinto fosse tutta invidia.
Poi l’incidente e tutto era cambiato.
Gli dissero che doveva rinunciare al calcio. Lei l’abbracciò forte e promise che gli sarebbe rimasta accanto. Ma Munemasa vide l’ombra che le attraversò il viso quando gli tolsero le bende e Hinata vide il volto che amava sfregiato per sempre.
Lei sorrise, tuttavia, e gli accarezzò la guancia colpita. Quello che lui percepì, però, non fu amore ma pietà. Allora fu lui a chiederle di andarsene, prima a parole, poi, di fronte al suo rifiuto, coi fatti: si trasformò in un uomo che nessuno avrebbe amato. E Hinata capitolò, abbandonandolo, come lui stesso le chiedeva ormai da mesi.
Da allora, c’erano state solo avventure. Da allora – da quasi dieci anni -, non aveva più provato… quello che aveva provato poche ore prima.
Nonostante il sonno che premeva, Munemasa cercava di darsi una spiegazione razionale: ci sentivamo entrambi soli, ci mancava qualcuno con cui parlare delle cose che ci piacciono…
Ma c’era di più…
Avevano molto in comune: la storia familiare, i genitori ricchi e distanti che ti vorrebbero diverso da quello che sei, il fallimento di un amore importante, col suo carico di dolori e cicatrici più o meno visibili…
Aveva avuto voglia di stringerla fra le braccia, per consolarla, si disse.
Aveva avuto voglia di restare a parlare con lei tutta la notte… è simpatica, arguta e si intende di calcio, si giustificò.
Non le aveva chiesto il numero di telefono, e vorrei ben vedere, si rimproverò prima che il sonno, finalmente, avesse la meglio.


Yasu Wakabayashi salì in camera sua col cuore leggero, come non lo sentiva da tempo. Rise fra sé quando si rese conto che stava canticchiando. Credeva si sarebbe annoiata, quella sera, invece le ore erano volate…grazie alla compagnia del signor Katagiri. Le era sempre sembrato un tipo simpatico, ma non aveva mai avuto l’occasione di parlarci, diciamo così, da pari a pari. In effetti l’unica conversazione propriamente detta che avessero mai avuta, era stata quando lui era venuto a proporle il posto nello staff della nazionale. E anche quella volta, anzi, soprattutto quella volta, si era sentita come a un colloquio di lavoro.
Invece quella sera era stato come parlare con un vecchio amico, a parte il modo squisitamente deferente e formale che aveva sfoderato con sua madre. Yasu ridacchiò: per quello le occorreva ancora un po’ di allenamento… e magari un ripassino di “buona educazione nipponica”…come aveva borbottato più di una volta il padre di Ken, di fronte alla sua “esuberanza occidentale”.
Ecco. Ancora una volta aveva pensato a lui: ma proprio come quando l’aveva menzionato qualche ora prima, era riuscita a farlo serenamente… chissà, magari stava finalmente imparando.
Prima di addormentarsi fra le coltri morbide, il suo ultimo pensiero era stato che era un peccato non essersi scambiati il numero di telefono, le sarebbe piaciuto portarlo a cena in quel ristorante giapponese di cui avevano parlato e passare un’altra serata piacevole e spensierata come quella appena trascorsa.



Note di chiusura:

Vi ho intrippato un po'?

Al prossimo cap;)

   
 
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