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Autore: iLARose    10/08/2010    2 recensioni
“Buongiorno Baby. Forse è meglio se con la nostra storia ci fermiamo un attimo. Ecco, forse dobbiamo entrambi fermarci a riflettere su tutti gli incidenti che abbiamo incontrato in questo ultimo periodo. Scusa.”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Hello Guuuys!
Rieccomi qui, con il fatidico capitolo del concerto.
Uhm, per descrivere quello che Miriam prova durante il concerto ho seguito un po' quello che la fantasia mi diceva, e un po' ho scritto quello che ho provato al concerto dei Tokio Hotel lo scorso Aprile.
Tadada, beccata. Sì, sono fan dei Tokio Hotel. Ora datemi della bimbamichia o qualsiasi altra cosa, me non interessa. I TH sono stati il primo gruppo che ho amato e mi hanno catapultata nel mondo della musica. Quindi, dite quello che volete, ma per me loro sono sacri e guai a chi me li tocca.  Tornando al capitolo ho provato a scrivere anche un po' le emozioni che penso di provare il 5 Settembre a Milano. (-26 giorniii <3) Poi mi sono affidata anche a qualche video del concerto a Tokyo del 92. Purtroppo a San Diego non c'ero, quindi non posso sapere realmente come sono andate le cose.
Del resto non so più cosa dire.
Un bacione e buona lettura ^^

9. IL CONCERTO.

Più la data del concerto si avvicinava, più io diventavo nervosa e agitata. Con Sebastian non ne parlavo, perché sapevo che a lui non piaceva l’idea che io me ne andassi da sola a un concerto con così tanta gente (Come se avessi cinque anni, pensavo io..) e soprattutto non gli andava che io rivedessi Duff. E lui non ne parlava a me perché sapeva che altrimenti mi agitavo di più.
Passò Settembre. Passò Ottobre e passò anche Novembre. Arrivò Natale e così passò anche Dicembre. Arrivarono anche Capodanno e l’Epifania e da lì il tempo restò immobile. Quei ventuno giorni sembravano non passare mai. Davvero, era come il tempo si fosse fermato completamente. Io non facevo altro che pensare al concerto, ma non solo perché volevo rivedere Duff e gli altri quattro, ma anche perché mi elettrizzava l’idea di sentire dal vivo quelle canzoni che ascoltavo in continuazione. Avevo anche iniziato a tenere il conto alla rovescia su un foglietto. Stavo letteralmente impazzendo.
Ventisei Gennaio.
Mi svegliai. Aprii gli occhi lentamente. Mi trovai di fianco il faccino di Sebastian che dormiva placidamente. Ma quanto era bello quel ragazzo?? Dio.. (tanto, Miriam, tanto. xD) Aveva insistito che quel giorno andassi a dormire con lui, “per tenerti d’occhio, mica che ti viene una crisi di nervi” aveva detto lui. Quant’era tenero. Quel giorno saremmo partiti per andare a San Diego e ci saremmo accampati davanti al palazzetto per la notte, dopodiché Seb sarebbe tornato a Los Angeles e io sarei rimasta lì una giornata intera in mezzo a quella folla di Gunners ad aspettare. Mi alzai piano piano per non svegliare quell’angioletto che dormiva accanto a me e andai a preparare la colazione. Preparai due spremute d’arancia e farcii due brioches con la Nutella. Sapevo che Seb andava matto per queste cose. Consumai la mia colazione in silenzio, canticchiando a bassa voce qualsiasi canzone di Use Your Illusion mi venisse in mente, mischiandole tutte. Andai in bagno, feci la doccia e tornai in camera a vedere se Sebastian si fosse svegliato. Niente. Quel ragazzo dormiva tantissimo. Anche se durante il giorno non faceva niente e andava a dormire presto, non c’era verso di svegliarlo ad un orario decente.* Sistemai il cuscino sulla testata del letto e ci appoggia la schiena, stendendo le gambe sul letto. Rimasi lì così a pensare per un po’, dopodiché decisi di svegliare il Bello Addormentato nel Bosco: era decisamente insopportabile vedere il mio migliore amico che dorme tranquillamente, mentre io ero lì a rodermi il fegato dall’ansia e dal’agitazione. Dopo vari tentativi invani, riuscii a farlo svegliare. Fece colazione con moltissima calma, apprezzando la mia spremuta e la brioche. Con altrettanta calma e lentezza si fece la doccia e si vestii. Molto probabilmente ero io che ero troppo nervosa e agitata, ma questo suo fare tutto con calma mi stava dando sui nervi. Rimanemmo in casa un po’ a cazzeggiare. Io preparai la borsa, mi preparai e tutto. Seb sembrava totalmente indifferente al fatto che stavo per vivere uno dei concerti più importante della mia vita, ma, dopotutto, lui non poteva sentire quello che provavo io. Vero mezzogiorno andammo in stazione e pranzammo lì. Eravamo in largo anticipo, ma non volevamo lasciarci scappare il treno dell’una meno dieci. Finalmente il treno arrivò. Il viaggio passò, tra risate, cazzate varie e momenti di silenzio a guardare fuori dal finestrino e pensare. Quando arrivammo a San Diego il cuore iniziò a battermi forte. Mi sentivo come una ragazzino alla prese con il primo appuntamento. Mi sentivo patetica da sola. Probabilmente Sebastian percepì che la mia agitazione stava aumentando e mi mise un braccio intorno alle spalle come per tranquillizzarmi. Lo guardai e gli sorrisi. Ero felice di averlo al mio fianco, era una persona speciale, davvero. E c’era sempre, sempre, sempre. Prendemmo l’autobus per il palazzetto. Di Gunners non ne avevo visti, anche se non mi illudevo di essere la prima ad arrivare, però ero sicura di essere una delle prime, almeno speravo. L’autobus face una curva molto larga e comparì il San Diego Sports Arena. Il cuore fece una tuffo e iniziò a battere fortissimo e sentivo i brividi su tutta la schiena, le braccia e le gambe. Se reagivo così alla vista del palazzetto, come avrei reagito quando le luci si sarebbero spente e la musica sarebbe iniziata? Non lo sapevo, e non lo volevo sapere. Scendemmo dal bus che ci lasciò proprio davanti al palazzetto. C’era pochissima gente, eravamo forse trenta, quaranta. Ero contentissima, sapevo di avere la prima fila in mano. Volevo la prima, solo e unicamente la prima, non mi sarei neanche accontentata della secondo, volevo, pretendevo la prima. Io e Seb ci sedemmo lì, insieme agli altri. L’attesa sarebbe stata lunga, interminabile. Per un giorno e mezzo quel cemento e quelle transenne sarebbero state la mia casa e quei Gunners la mia famiglia. Mi sentivo davvero come in una famiglia. Il pomeriggio passò abbastanza in fretta. Io e Seb facemmo conoscenza con un paio di ragazzi e avevamo ingannato il tempo parlando. Mi stavo preparando per la notte. Io e Seb ci eravamo armati di sacchi a pelo e decine di coperte. Dopo cinque minuti che ero rannicchiata nel sacco a pelo iniziai a pentirmi della scelta di rimanere lì a dormire: si moriva di freddo. E credo che Seb si stesse maledicendo per avermi accompagnata. Durante la notte mi svegliai più volte per il freddo, ma anche per l’agitazione. Quando sentii che anche Sebastian era sveglio, aprii gli occhi. Guardai l’orologio: sette e mezza. Ancora tredici ore e mezza. Era un’eternità, non potevo farcela. Ma dovevo. Seb restò con me ancora un paio d’ore, poi tornò a Los Angeles. E io Rimasi da sola, circondata da estranei. Mi appoggia con la schiena alla transenna e chiusi gli occhi. Riuscii a dormire ancora un po’, fino a quando qualche cretino ebbe la bellissima idea di accendere lo stereo a massimo volume e mettere su le canzoni dei Guns. Non le conoscevo, perché probabilmente erano dei primi due cd che io non avevo, ma riconobbi la voce di Axl. Rimasi ad ascoltarle attentissima, mentre tutti quelli intorno a me cantavano. La giornata passò così, a imparare le canzoni dei Guns N’ Roses. Quando finalmente i cancelli si aprirono per lasciarci entrare, le sapevo tutte. Dopo aver dato il biglietto alla security, corsi con tutte le forze che avevo, e riuscii ad arrivare in prima fila. Sentivo la gente dietro che spingeva per arrivare davanti, ma non mi importava: ero in prima fila. Era quello che volevo. Dopo quasi tre ore a essere spinta, le luci si spensero. Avevo tutte le braccia, le gambe, i piedi, le costole e la pancia doloranti, ma d’un tratto non sentii più niente. Dalla folla si era alzato un grido maniacale, ma io ero rimasta muta, a fissare il palco senza quasi riuscire a respirare. Avevo una paura fottuta di svenire. Dopo non so quanto tempo che luci si erano spente, una voce grossa e roca disse “Ladies and Gentleman, Guns ‘Fucking’ Roses!”. La folla impazzì, sentì spingere forte da dietro, ma non mi mossi, non emisi neanche un suono. Ero lì, ferma, immobile, con gli occhi spalancati e il respiro corto. Si udì un suono come un fischio del treno e le prime note di Nightrain iniziarono. Davanti a me comparve Axl che teneva l’asta del microfono in alto, Slash con la sua chitarra e la maglietta di Pepè che adoravo, un chitarrista con i capelli neri un po’ lunghi che per cinque secondi scambiai per Izzy, ma poi mi accorsi che non era lui. Ma dov’era? Guardai verso la batteria. C’era un ragazzo con i capelli biondi più o meno ricci, ma non era Steven. Oh, Steve, dov’eri anche tu? Spostai lo sguardo un po’ a destra e vidi un tastierista. Un tastierista? Boh. Mi stava già sul culo, così a pelle, solo perché si era aggiunto ai Guns. E poi guardai a sinistra, ed eccolo là. Eccolo là il mio Duff. Era bellissimo, come sempre, alto, biondo, magro e con il suo basso. Aveva tinto un po’ i capelli di nero verso il fondo delle punte. Era vestito tutto di nero, con un cappello nero a falda larga e.. e attaccata ai pantaloni aveva una bandana rossa. Era la mia, quella che gli avevo regalato io. Oddio! Ce l’aveva ancora? Wow.. Axl intanto cantava, ma io non lo sentivo quasi, mi sembrava lontanissimo. Stavo fissando Duff e come si muoveva. Iniziai a piangere e a tremare. Un tizio di fianco a me, a cui non avevo neanche fatto caso, mi guardò perplesso e, vedendomi in quello stato, mi chiese “Hey, dolcezza, stai bene?”. “Eh? Sì sì” gli risposi. “Ah beh, non sembra. Perché guardi in quel modo Duff?” oh, ma i cazzi tuoi non ti hanno insegnato a farteli? “Eh? No no, niente. Sto benissimo grazie.” E la conversazione finì lì. E per fortuna, perché se fosse andata avanti ulteriormente avrei tirato due cazzotti sui denti a ‘sto tizio. La canzone finì, e la folla esultò, questa volta me compresa. Ogni canzone era per me una pugnalata. Ad un certo punto, Axl sparì dal palco. C’erano due luci che puntavano su Duff e Slash. Oddio no, no, no. Duff disse qualcosa che non riuscii a capire al suo microfono e poi iniziarono a suonare. Era il loro assolo, il loro momento. Piansi, piansi tutte le lacrime che potevo. Mi faceva male la testa in un modo impressionante per il troppo piangere. Alla fine Axl ricomparve, canticchiò qualcosa e Slash partì con l’intro di Sweet Child O’ Mine. Quella canzone era fantastica. La cantai con tutta la voce che avevo nei polmoni. In tutte quelle ore fuori, in fila, con la musica a palla l’avevo imparata tutta. Quando finì, il pubblico impazzì. Io sorrisi, felice. Ero felice di una felicità che ormai non provavo da tanto. Dopo un momento di silenzio, rieccheggiarono le prime note tranquille di Don’t Cry. Mi trasformai in una statua. Immobile, ad ascoltare la mia canzone preferita. “Don't you cry tonight, I still love you baby, Don't you cry tonight , Don't you cry tonight, There's a heaven above you baby, And don't you cry tonight..” mi diceva Axl, io lo guardavo e piangevo anche se lui mi diceva di non farlo, poi spostavo lo sguardo su Duff e piangevo ancora di più. Ad un certo punto Axl si sporse verso il pubblico, verso di noi, verso di me. Mi stava guardando negli occhi, studiando le mie lacrime. Mi sorrise e tornò a saltellare al centro del palco. Mi aveva sorriso. Aveva sorriso, a me. Non riuscivo crederci. Com’era possibile che mi aveva riconosciuta? Erano sei anni quasi che non ci vedevamo ed ero cambiata: mi ero tinta i capelli di rosso chiaro, quasi arancione e attorno agli occhi avevo un sacco di eye-liner, che probabilmente adesso era tutto sbavato sulle guance. O, magari, non mi aveva riconosciuta a mi aveva sorriso perché ero una ragazza in prima fila che piangeva come una dannata. Boh. Lasciai un po’ da parte i miei pensieri e continuai a godermi il concerto. Ad un certo punto Axl si sedette al piano e iniziò a suore qualcosa. E poi partì con November Rain. Sentii i brividi percorrermi tutta la schiena. Ero un capolavoro November Rain, non una canzone. La voce di Axl, mischiata al piano, a tutti gli strumenti e alle voci di quelle cazzo di coriste che avrei ucciso molto volentieri, erano una cosa fenomenale. “’Cause nothing lasts forever, even cold November rain..”. Già, niente dura per sempre.. Sentii altre lacrime che mi bagnavano il viso e finivano in bocca, lasciandomi sulle labbra il sapore salato. Erano le lacrime più belle che avessi mai pianto. Quando piangevo lo facevo per frustrazione, rabbia, dolore, adesso, invece, per gioia. Ed era anche la prima volta che piangevo così tanto. Nonostante avessi imparato a piangere da quando Duff era scomparso nel nulla, non avevo mai pianto così a lungo. E poi quell’assolo così perfetto, da far venire la pelle d’oca. Bravo Slash, come sempre. Ero fiera di loro, fiera di quei ragazzi che per qualche mese della mia vita mi avevano tenuto compagnia. Se lo meritavano di essere arrivati al punto in cui erano, se lo meritavano davvero perché erano delle persone fantastiche.
Piano piano, canzone dopo canzone, il concerto finì. Ero contentissima di esserci stata, di aver vissuto questa esperienza, di essere stata in prima fila, di aver potuto rivedere Duff e tutti gli altri. Ma avrei voluto stare lì ancora per ore, ad ascoltare quella musica. E avrei voluto anche salire sul palco, infilarmi nel backstage e passare tutto il tempo con i miei Guns. Avrei voluto riabbracciarli tutti. E avrei voluto fissare Duff negli occhi e baciarlo ancora una volta. Ma tutto questo era impossibile, allora rassegnata ma felice cercai di uscire da quell’inferno di gente schiacciata verso l’uscita e di raggiungere la stazione. Avrei dovuto starmene lì, sulle panchine fredde della stazione di San Diego per due ore ad aspettare che l’unico treno notturno mi riportasse a Los Angeles. (Guys, scrivendo questo mi è venuto in mente: treno notturno, nightrain. Ahahah che idiota che sono xD).
Quando finalmente in treno arrivò a L.A. mi fiondai giù e corsi a casa di Sebastian. Stavo morendo dal freddo e non vedevo l’ora di andare sotto l’acqua calda della doccia, poi infilarmi sotto le coperte del letto di Seb e appiccicarmi a lui tutta la notte.
Quando chiusi gli occhi per addormentarmi, ripensai a quella folle giornata. Era stato tutto bellissimo. Avrei dormito ancora cento, mille notti in un sacco a pelo fuori dal San Diego Sports Arena a congelare, avrei rifatto tutto quelle ore di attesa, mi sarei ripresa tutti quegli spintoni, pur di rivivere quel concerto. “Grazie Guns N’ Roses”, pensai e mi addormentai felice.


* Ripeto che, purtroppo, non conosco Sebastian Bach, quindi non so quali siano le sue abitudini, quanto dorme, cosa gli piace mangiare, ecc., quindi mi sono lasciata guidare dalla fantasia anche nel descrivere Seb.

  
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