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Autore: CaskaLangley    13/08/2010    5 recensioni
Raccolta di one-shots su coppie di personaggi (non necessariamente in senso romantico) tra i membri dell'Organizzazione XIII, Naminé e Repliriku.
[ Through looking glass : Axel/Roxas + Demyx ] "Axel non era suo amico, lo realizzai col tempo, né lo amava. Nessuna di queste definizioni era corretta. Axel lo adorava. Davanti a lui era come un cieco che vede per la prima volta il mare." [ Strangeness DSS(M) : Vexen/Repliriku]
"Non proviamo dolore, né pentimento per ciò che abbiamo fatto. Tuttavia abbiamo commesso un errore, e in quanto a scienziati non lo riteniamo giustificabile. [...] Ma poi ho compreso la reale gravità del problema. Senza un cuore, l’estrema fallibilità umana diventa cosa difficilmente sopportabile.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naminè, Organizzazione XIII
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Note (preliminari) incoerenti dell'autrice:
Woah, è davvero strano postare questa storia. Ho iniziato a scriverla almeno tre anni fa (avevo detto che l'avrei postata quando ho chiuso Wasukara...xD), quando avevo ancora un orribile vizio che, passando a Fullmetal Alchemist, mi sono imposta di togliermi: iniziavo settemila storie e ne finivo meno della metà. Non mi perdono le povere bimbe su Kingdom Hearts che non hanno visto un finale :\ Quindi, insomma, questa fic è stata scritta in periodi diversissimi, almeno tre, e quando l'ho finita nel frattempo avevo scritto moltissimo, e quindi avevo cambiato modo di scrivere, e mi sembrava orrenda, così non l'ho più toccata. Sta notte, però, mi sono ricordata che era l'akuroku day, e beh, figuratevi, ora ho scritto ancora di più, quindi mi è sembrata ancora più brutta XDDD però ho comunque pensato che i miei lettori amanti di KH, e che, in parte, hanno iniziato a leggermi proprio grazie a questo fandom, avrebbero gradito lo stesso leggerla, anche se io ne sono molto insoddisfatta. Quindi consideratela un mesto regalo che vi faccio col cuore <3
Dunque, la fic fa riferimento a una di Selina (wah, da quanto tempo non dicevo questa cosa, mi mancava! XDDD): A tangled tale (da qui il titolo appaiato xD). Non è necessaria la lettura per capire la mia (riassunto: Demyx è perso di Axel che non se lo caga), ma dovreste farlo perché è bellissima. Infine, sì, Xion. Vediamo come posso dirlo in modo da sembrare ragionevole...non me ne frega un cazzo. Non c'era quando ho concepito la storia e per quanto mi riguarda non c'è neanche adesso. Amen :D E buon akuroku day <3

THROUGH THE LOOKING GLASS

“Perché l’ha lasciata andare?”
“Perché ne sono innamorato.”

- La Bella e la Bestia

Una volta gli ho chiesto: “Perché non ti sforzi nemmeno di provare qualcosa?”
Axel era seduto sul bordo del letto e si stava riallacciando il soprabito. Mi aveva guardato con fastidio quando durante il rapporto avevo compiuto l’azzardo di aprirglielo in parte, ma anziché richiuderlo si era limitato a cambiare posizione, cosicché non potessi più nuocere alla sua intimità –o almeno quella che, con i suoi canoni, lui riteneva tale. Non era spogliarsi il problema, era che io lo spogliassi. Axel aveva l’ossessione del controllo. E in quanto a me, sono semplice da controllare.
“Perché dovrei farlo?”
“Per essere vivo, tanto per cominciare.”
“Non lo sarei comunque, o almeno non nel patetico senso che intendi tu. Sono sufficientemente vivo per il semplice fatto di respirare.”
Ho abbassato lo sguardo e ho risposto, nel tono con cui mi ero guadagnato l’assidua presenza del termine patetico nelle sue frasi: “…ma è uno spreco.”
E allora lui aveva riso. Quel riso che era come ghiaccio secco, cinico, amaro, il soffio ironico e sornione di un gatto. “Non essere idiota. E’ proprio non facendo niente che non spreco niente.”
Poi lui se ne andò, senza ulteriori convenevoli, lasciando nella stanza solo l’odore di zolfo.
No, Axel non provava nulla, certamente.
Avrei voluto avere il coraggio di rinfacciarglielo, il giorno in cui portò Roxas a Word that Never Was. 


Quando Roxas arrivò era solo un cucciolo, e non nella più classica e tenera eccezione del termine. Aveva, dei cuccioli, la tendenza a distrarsi, lo sguardo spesso sopito fino alla soglia dell’intontimento, e una traccia di menefreghismo misto a leggera soggezione di fronte all’autorità che lo rendeva contemporaneamente strafottente e intimorito. 
A quel tempo, Roxas non sapeva niente della vita.
Aveva l’aspetto di un adolescente, ma i ricordi di un neonato e una coscienza sociale appena più radicata, che si limitava alla conoscenza dei principi base dell’esistenza, come la capacità di parlare, leggere, scrivere e conoscere i nomi delle cose, pur senza necessariamente comprenderle. Ogni cosa, per lui, era nuova o quasi, e sembrava in perenne lotta col desiderio di chiedere agli altri di spiegargli ciò che non sapeva.
In quel metro e cinquanta scarso di pelle e ossa, che il soprabito troppo grande schiacciava ulteriormente verso il basso rendendolo più simile ad un funghetto che non a un ragazzo, erano racchiusi il loro guerriero più potente e la loro unica speranza. 
La chiave del destino, l’aveva chiamato Xemnas.
Marluxia aveva insinuato sottovoce –ma non troppo- all’orecchio di Larxene che sì, le dimensioni di una chiave c’erano. Demyx aveva riso, ma discretamente; non conosceva bene Marluxia - per quanto bene si potesse dire di conoscere un guscio vuoto, privo persino del privilegio di conoscere sé stesso- ma quanto gli aveva detto Axel di lui gli bastava per non provare il desiderio di rischiare. 
Mancavano poche settimane alla partenza dei designati per Castle Oblivion, e avrebbe mentito dicendo che non aveva aggiunto ogni singola notte una tacca immaginare alla superficie lucida e legnosa del suo cervello. 
Era rimasto seduto con le gambe larghe, in silenzio, chiedendo a se stesso di non notare il modo in cui Axel aveva presentato Roxas – toccandogli la schiena per spingerlo dolcemente in avanti, esitando poi per un momento sulla curva inarcata all’interno.
Era alto il doppio di lui, non per esagerare. Una differenza drastica, quasi ridicola…o tenera, forse - e quel pensiero gli rimase attaccato nel tempo a venire. 

*

Avevo cercato di raggiungere Axel, dibattendomi come se i suoi modi corrosivi fossero stati la corrente che mi trascinava verso il basso e il delirante miraggio del suo sorriso la superficie.
Avevo bussato a ogni porta sbarrata a mani nude, per sentire almeno il freddo del metallo - l’unica cosa vera potessi avere di lui- ma le mani mi si erano sfasciate senza ricevere risposta, e la sola cosa calda che avevo potuto stringere infine era stato il mio sangue. 
Avevo smesso di pretendere, mi andava bene anche così.
Persino il senso di sconfitta può diventare caro a chi delle sensazioni non ha che un’approssimazione per difetto, e anche quel dolore straziante non era niente in confronto al ricordo del dolore vero. Quello che può distruggerti, e il cui ricordo adesso sembra dolce come zucchero. 
Di un solo dolore efficace avevo fatto la conoscenza, da quand’ero rinato incompleto, ed era il dolore che il corpo di Axel poteva causare al mio. M’illudevo che spingesse più forte, a volte, che fosse più brusco, perché l’idea di farmi del male gli arrecava in qualche modo piacere, ma non era così. Non c’era niente che Axel volesse darmi, se non un po’ del suo tempo quando ne aveva da perdere. Nemmeno altro dolore.


La prima volta che li aveva visti da soli era stato sulla scalinata, che da Word that never was cedeva il passo ai grattacieli inghiotti dalle ombre della Dark City.
Stavano parlando.
Demyx ancora provava, a volte, a parlare con Axel, ma ogni sua parola sembrava specificatamente atta a sbriciolare le sue speranze, e lo faceva con una tale precisione, una tale costanza, che a volte lui si era chiesto se in fin dei conti non ne avesse bisogno. Come per una contorta forma di autolesionismo.
Ma Axel non sarebbe stato brusco col ragazzino, non troppo almeno, perché chiaramente se ne voleva servire. Demyx non avrebbe saputo esattamente dire per cosa, ma la mente di Axel gli sembrava un luogo sufficientemente oscuro da lasciare spazio a qualunque tipo di macchinazione ben più fantasiosa di quelle che non avrebbe abbozzato lui; quello che era chiaro era che Roxas era davvero la chiave del destino –del loro destino- e che se c’era un alleato che valeva la pena di avere in quella guerra, quello era lui.
Axel sapeva di avere un vantaggio su tutti gli altri, in quel senso. Era stato lui a trovarlo ed era troppo furbo per non sfruttare la cosa a suo favore.
Demyx si avvicinò cautamente, in silenzio, come si sarebbe avvicinato a degli animali per non farli scappare. E vide che Axel non fissava un punto nel vuoto, come se in realtà ne stesse fissando uno dentro ai suoi stessi occhi, ma lo guardava. Lo guardava sempre. Con curiosità, quasi, indugiando su ogni particolare della sua figura, come se lo stesse studiando e non capisse che cosa lo facesse muovere.
Quando Roxas parlava, Axel lo ascoltava.
Il ragazzino non se ne rendeva conto, ma quando anche lui si girava, e i loro sguardi s’incrociavano, non lo rifuggiva mai. Era questo che avrebbe notato più facilmente di Roxas, nel tempo: guardava chi gli stava attorno in modo ossessivo, come se si fosse aspettato di doverlo riacciuffare da un momento all’altro. 
Demyx aveva riso amaramente, solo per un secondo, al pensiero di quello a cui il piccolo andava incontro fidandosi di Axel, ma poi…
…stentò per giorni a crederlo, ma lui gli sorrise.


Roxas era tutto ciò che un Nobody normalmente non era.
Era curioso, brillante, faceva quello che gli si diceva di fare, ma altrettanto spesso metteva il muso e se ne andava fuori a colpire l’aria con il suo Keyblade. Ma cosa ancora più importante, era impossibile da prevedere. Il suo visino a forma di cuore, un attimo rabbuiato e pensieroso, poteva scoppiare in una risata in qualsiasi momento, e qualunque cosa facesse i suoi occhi brillavano. Per la furia della battaglia, o il sollievo di girarsi e rendersi conto che Axel non se n’era andato mentre era distratto. 
Roxas non ricordava niente di ciò che era stato in passato. Per questo, a differenza di tutti noi, non aveva niente a cui sentisse il bisogno di restare fedele. Lui non aveva un ruolo da rispettare per non perdersi, si era già perso, e in quel caos primordiale che a noi faceva paura lui, a volte, sorrideva.
Era il Nobody di una persona il cui cuore, che era stato preso dall’oscurità, era riuscito a ritrovare la via verso la luce. Era la foglia danzante sull’equilibrio delle stagioni, un abitante dell’oscurità che più di chiunque altro conservava dentro di sé il riverbero della luce sul pelo dell’acqua, e credo che molti di noi –io compreso- lo trovassero fastidioso per questo. Ma non era odio. Era invidia. Invidia di qualcosa che lui, pur non ricordandolo, conservava dentro di sé, mentre noi, proprio perché lo ricordavamo, sapevamo essersi spento per sempre.
Col senno di poi credo di capire perché Axel si fosse interessato a lui.
Perché a volte, con lo spettro di una risata che gli affiorava sulle labbra, lo guardasse come se stesse per dirgli con sorpresa e soddisfazione: “Merda, proprio non ti capisco.”
Axel non era suo amico, lo realizzai col tempo, né lo amava. Nessuna di queste definizioni era corretta. 
Axel lo adorava. Davanti a lui era come un cieco che vede per la prima volta il mare.
Roxas lo abbagliava, come aveva abbagliato tutti, ma mentre noi avevamo solo potuto allontanarci diffidenti Axel era il fuoco, e non aveva paura di bruciarsi. Lo si vedeva benissimo dal modo in cui lo guardava: anche se avesse dovuto chiuderlo in un barattolo come una lucciola, non l’avrebbe mai lasciato andare.



La prima volta che Demyx li vide – li vide davvero- fu durante una notte di temporale. 
No, non era una novità per loro. Di tutti quelli che potrebbero essere definiti come luoghi dimenticati da Dio, quel buco infame ricettore di scarti, pattumiera del mondo civile - luminoso, giusto - era certo tra i più adeguati. La pioggia scrosciava sempre, quasi la stereotipata desolazione fosse un obbligo a cui adempiere in una città di fantasmi, e ognuno vi era abituato come ci si abituerebbe inconsapevolmente a una malattia o alla povertà.
Tutti a eccezione di Demyx, che ancora ogni tanto sognava la musica, e l’oceano che la trasportava ogni luogo.
E Roxas.
Roxas che aveva il mare negli occhi, anche se lui non lo sapeva. Demyx avrebbe voluto dirgli la verità, a volte, almeno quel pezzetto che gli era stato dato di sapere, ma non avrebbe saputo affrontare le sue domande. Non aveva abbastanza risposte. E comunque chi era lui per dirgli qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita, chi era, lui, per doverne portare le conseguenze?
Non c’era un motivo preciso che lo spingesse a volergli parlare, eccetto il ricordo di quella vocina che i loro Others avrebbero definito coscienza.
Ma quella notte, sentendo esplodere i tuoni, Roxas cominciò a urlare. No, non a urlare: a latrare
Demyx cercò di farsi strada verso di lui, impietosito e preoccupato, ma anche quando fu abbastanza vicino le sue urla disperate continuavano a squarciare l’oscurità del corridoio come i tuoni squarciavano il cielo.
Poi sentì Axel chiamarlo. Roxas, tra le grida, singhiozzava.
Una manciata di secondi dopo c’era una fiammella tremolante a illuminarli.
Era luminosa, ma discreta, confortante e non pericolosa, come non ci si aspetta che il fuoco possa essere.
Roxas si era trasformato in un nodino convulso sul pavimento e Axel lo stava abbracciando.
L’Axel che a lui aveva sempre e solo spezzato le ossa con la tagliola delle sue mani pesanti, l’Axel dalla rapacità implacabile, priva di rimorsi, l’Axel come un pozzo vuoto, profondo e freddo, dove risuona insensibile l’eco di richiami destinati a non essere ascoltati.
Quell’Axel.
Adesso era in ginocchio, e porgeva a un ragazzino in lacrime la fiammella che aveva creato per lui. La teneva sul palmo della mano, come un dono, mentre lo stringeva e gli ripeteva di stare tranquillo, non gli sarebbe successo niente, lui l’avrebbe protetto.
Lui.
Quell’Axel.
Roxas gli si aggrappò al braccio e annuì, tirando su col naso mentre si sforzava di smettere di piangere, e in modo estremamente furtivo, come se gli stesse rubando qualcosa, Axel appoggiò la guancia contro i suoi capelli color grano e sussurrò: “Non avere paura, non andrò da nessuna parte. Il buio non può farti niente se mi stai vicino.”
Demyx non sapeva se non lo avessero visto o semplicemente non gli avessero badato, ma in qualunque caso rimase in silenzio.

*

Quando diventi un Nobody le cose a cui da vivo non davi importanza assumono una rilevanza nuova, alla quale è impossibile abituarsi. Non è sempre spiacevole, ma ti urta, come il contatto con troppa gente in uno spazio ristretto. E’ perché non esiste più l’insieme, credo. O l’insieme è così desolante che vorresti non guardarlo. Comunque sia, finisci per nutrirti di dettagli.

Cominciai da quella sera a notare i dettagli che Axel e Roxas abbandonavano dietro di loro come formiche poco attente, lungo il tragitto che compievano segretamente ogni giorno per accumularli nella loro tana. Non ero l’unico a notarli, anche se avevo creduto il contrario. Ero, semplicemente, l’unico a cui la cosa importasse.


Era sera e stavano cenando.
Si scambiavano parole di circostanza, a tavola, spesso con una sorta d’imbarazzo e –per qualcuno- sarcasmo, come se si stessero sforzando di parlare una lingua straniera che solo alcuni di loro conoscevano in modo passabile. 
Erano sulla stessa barca, ma non avevano niente da dirsi.
Quella sera solo Marluxia e Larxene parlavano. Nessuno prestava loro attenzione, tranne Demyx, che li invidiava e in un certo senso ce l’aveva con loro; erano arrivati per ultimi e non avevano il diritto di stare più a suo agio di lui, che mangiava guardando il piatto e rubando schegge al profilo aguzzo di Axel.
Sia lui che Roxas erano seduti al suo fianco, entrambi in silenzio, almeno finché il ragazzino non fece qualcosa di assurdo. 
Si era versato un bicchiere d’acqua e, prima di riporre la caraffa, fece lo stesso per Axel.
Lui prese a fissarlo, attonito, e rimase così a lungo, con gli occhi quasi sgranati, finché Roxas non se ne accorse e gli chiese, sbattendo le ciglia come se tutto fosse stato normale: “Scusa, non avevi sete?”
Ma niente era normale, e lui non sembrava rendersene conto.
In un mondo in cui ognuno pensa per sé, un bicchiere d’acqua non è soltanto un bicchiere d’acqua.
E’ la prova che qualcuno si ricorda che esisti.
Axel scosse la testa e ancora incerto disse “grazie”, mentre portava il bicchiere alla bocca.

I Nobody in forma umana non smettono di essere persone, contrariamente a quanto gli stessi Nobody in forma umana credono. I Nobody sanno che cos’è la solitudine, la riconoscono, la sentono e la temono così come la sentivano e temevano i loro originali, ma con un’unica e terribile variante: non possono fare niente per lenirla, poiché la materia prima della felicità è venuta a mancare.
Ricordiamo il principio, però, per sconfiggere la solitudine, e lo dimostra il fatto che alcuni di noi abbiano localizzato un loro altro. Qualcuno con cui essere in contatto.
Non è una questione di amore o di affetto, non si tratta di un sentimento romantico. Potrebbe essere qualcosa che ha a che fare con la chimica, con una precisa e irripetibile combinazione di atomi.
E’ come un’alleanza.
Il Superiore e il numero VII. I numeri V e VI. Marluxia e Larxene. 
Loro negano esattamente come tutti gli altri di avere un cuore, eppure a differenza degli altri hanno volontariamente accettato in qualcun altro uno specchio, un compagno, un complice, un supporto, qualsiasi cosa - purché sia qualcosa.
Non c’entra con l’essere vivi. Non c’entra nemmeno con l’essere morti. 
C’entra con l’essere umani.
Anch’io avevo cercato quella persona, e troppo precipitosamente mi ci ero avventato sopra, come un naufrago con il frammento sgangherato di una nave. Avevo creduto che Axel potesse essere il mio alleato.
Mentre lui si rigirava il bicchiere tra le dita, e Roxas continuava a mangiare, mi resi conto di quanto clamorosamente mi fossi sbagliato.

*

C’erano momenti in cui qualsiasi cosa accadesse tra loro poteva sembrarmi un miracolo o un castigo. 
A volte li vedevo ridere senza nessun motivo, seduti per terra o su un tavolo come ragazzini indisciplinati, uno accanto all’altro senza mai toccarsi. Credetemi se vi dico che non serve avere un cuore per provare gelosia. La gelosia è una questione di cervello, di stomaco e viscere, agisce come un geyser e corrode la logica con la quale dovresti difenderti dal suo potere distruttivo.
Ma a volte non ero geloso, al contrario. Li guardavo e mi sentivo…pacifico. Sereno.
Bene, quasi.
Ma c’erano anche dei momenti – terribili, lunghissimi momenti- in cui solo guardare il faccino rotondo di Roxas mi dava il voltastomaco. E questo non perché lo odiassi, o perché odiassi l’interesse che Axel aveva per lui, ma perché a volte – senza che lo volessi- per me era estremamente facile vederlo così come lo vedeva Axel, e allora capivo tutto. 
Quanto fosse carino quando il cipiglio severo delle sue sopracciglia si scioglieva in un’espressione distesa, o il fascino innocente delle fossette che si formavano agli angoli della bocca quando sorrideva o metteva il broncio, così infantili. Il modo in cui la frangia gli cadeva davanti agli occhi e lui la soffiava, anziché spostarla con le mani.
Per me Roxas era poco più che un bambino con problemi di postura, ma per Axel…so che gli piaceva il modo in cui camminava, trascinando i piedi come se fosse sempre stato stanco. E gli piacevano i suoi occhi enormi, incastonati in quel faccino così piccolo, insieme al bocciolo fresco delle labbra.
L’ho sorpreso a guardarlo, una volta, ma non come lo guardava sempre.
L’ho visto scivolare come la lingua di un serpente lungo la sua gola fragile e palpitante, esitare bramoso sul solco tra le clavicole e il resto della pelle fragrante che il soprabito lasciava scoperta, stuzzicandolo fino al limite del suo controllo, invitandolo a scartare i doni che quel giovane corpo celava. 
Ho visto, nel modo in cui lo guardava, una dolcezza feroce, un’efferata violenza soppressa nel languore e nel sangue. 
Sì, avrei torto il collo di Roxas in quel momento, perché se Axel mi avesse guardato in quel modo io sarei caduto ai suoi piedi per adorarlo. E avrei torto anche il collo di Axel, perché quando lui si girava addolciva lo sguardo, standogli alla larga come da una tentazione fatale. 
Se Axel se lo fosse trascinato in camera e lo avesse rivoltato a faccia in sotto sul letto come aveva fatto con me, allora sarebbe finita. Invece era attento a non farsi scoprire. Era intenzionato a lasciare che quei brevi attimi di desiderio rimanessero un segreto. 
L’unica cosa che mi consolava era sapere che sarebbe finita presto. Prima o poi anche il riguardo sacrale che Axel aveva per Roxas si sarebbe sbriciolato davanti a un semplice gesto, perché questa era la sua natura - bruciare, non languire nell’ombra- e l’avrebbe montato come un animale.
Allora lui lo avrebbe odiato. O avrebbe perdonato la sua foga, sorridendo.
Di sicuro non sarebbe stato fermo come me, ad aspettare che il tempo passasse e che le cose non cambiassero. No, Roxas non avrebbe agito passivamente. Non sapevo se augurarmelo o no.


Un giorno, mentre Demyx aiutava Roxas ad allenarsi mandandogli contro cloni d’acqua, successe qualcosa che sfuggiva a ogni catalogazione.
Il ragazzino era instancabile quando si trattava di combattere, si disfaceva dalla fatica e la maggior parte delle volte finiva in ginocchio a riprendere il fiato, ma non si fermava mai, almeno finché non era Axel a costringerlo. Lui li stava guardando come al solito, e come al solito Roxas guardava solo Demyx, ansimando e stringendo il suo Keyblade come se fosse stata la l’unica cosa vera del mondo. Le sue guance erano rosse come mele mature.
Axel andò loro incontro e Demyx ridendo disse a Roxas che era ora di riposarsi, mentre lui indietreggiava e li guardava con aria offesa, infastidita, lamentandosi perché voleva continuare.
Ma invece di fermarlo, Axel si tolse un guanto e gli toccò una guancia.
Con il dorso delle dita, prima, poi col palmo. 
Pelle contro pelle, a lungo, senza motivo.
Pelle contro pelle, come con lui non era mai stato; mai.
Demyx avrebbe voluto avventarsi su quella mano e stringerla, baciargliela – strappargliela, anche- ma lui stava toccando la guancia di Roxas, non la sua, e lo faceva in un gesto che non conteneva né l’ardore del sesso né il contatto confortante e platonico dell’amicizia. Lo toccava mosso da una genuina curiosità, soltanto per sapere com’era fatto. 
In modo puro. Avrebbe mai pensato di associare queste parole ad Axel?
Dopo un attimo, come ripresosi da un vago stordimento, Roxas sbatté gli occhi e chiese “Cosa c’è?”, un po’ infastidito, ma senza sottrarsi.
“Sei meno caldo di quello che sembra…” rispose Axel cogitabondo, per poi strizzagli scherzosamente la guancia, “Ma più morbido.”
Roxas si piegò appena percettibilmente contro il suo palmo, guardando in basso con dissimulato interesse: “Tu invece scotti e sei anche un po’ duro.”
Axel rise e senza spostare la mano gli domandò dolcemente: “Per oggi può bastare, non credi?”
Roxas, invece di opporsi come avrebbe fatto di solito, fece sparire il Keyblade e non si mosse.
Guardandoli mentre si separavano lentamente, dopo aver a lungo trovato scuse per prolungare il contatto, Demyx strinse i pugni e per non essere di troppo aprì un portale, in cui sparì salutando a voce bassa. 
Loro, probabilmente, neanche se ne accorsero. 

Nelle notti di temporale Roxas andava nella stanza di Axel al primo vagito del primo tuono. Lo so bene, perché le nostre camere sono vicine e il mio orecchio è sempre teso.
Il terrore di Roxas per i temporali era atavico, radicato come un organo, ed essendo lui un essere lindo, privo di ricordi, potevo solo supporre si trattasse di qualcosa che il suo Other gli aveva lasciato. Axel forse lo sapeva, e di certo non si era sprecato a renderne qualcuno partecipe; nutriva per lui un possesso che poteva essere paragonato solo a quello di una madre per il proprio figlio, e conservava gelosamente tutto di lui, dai suoi momento d’allegria alle sue debolezze.
Sapevo che era lui che Roxas cercava quando aveva paura, e allo stesso modo sapevo che ormai Axel doveva avergli mostrato un modo in particolare per scacciarla. 
Io li vedevo chiaramente, ogni notte, e quelle immagini a volte nitide, altre brevi e profonde come una pugnalata nel petto, mi toglievano il sonno.
Vedevo i loro corpi ansiosi, completamente nudi, sfregarsi sul letto in un mormorio di baci umidi e respiri. Vedevo Roxas cavalcarlo e appoggiare la fronte contro la sua spalla pur continuando a muoversi, esausto, e vedevo Axel sdraiarlo sul letto e imbracciare le sue gambe magrissime per alleviarlo dalla fatica. Lo vedevo baciargli le cosce, adorare ogni centimetro di quel corpo splendente di gioventù, e trattarlo con un riguardo che non si sarebbe mai nemmeno sognato di usare con me. Riuscivo a sentire Roxas godere a voce bassa, con picchi impossibili da trattenere quando Axel colpiva quel punto dentro di lui che corteggiava con insistenza, e sentivo lui ripetergli ossessivamente “sei bellissimo”.
Non so per quale motivo avessi questa fissazione, forse solo perché dire che Axel lo trovasse effettivamente bellissimo sarebbe un eufemismo. 
Axel stravedeva per lui. 
Era un ragazzino sproporzionato e alto come due mele messe una sopra l’altra, ma per lui era la cosa più incantevole che Kingdom Hearts avesse concesso alla nostra fogna, popolata dagli Heartless e da tutti gli altri scarti che gli esseri umani si lasciano indietro prima di andarsene. 
Noi eravamo spazzatura, Axel lo sapeva, ma sapeva anche che Roxas era diverso.
Lui era lì per errore, soltanto per una serie di coincidenze sfortunate.
Lui aveva ancora un’altra metà, da qualche parte, un incastro col quale infine i suoi bordi rotti avrebbero combaciato, e sarebbe stato di nuovo completo.
Axel sapeva anche questo.
Doveva essere per questo che quando il temporale finalmente taceva, e cominciavo a scivolare nel sonno, l’ultima immagine che mi accompagnava era quella di Roxas ancora arrossato e scomposto che dormiva beatamente tra le braccia di Axel, mentre lui lo stringeva in un modo che era tornato del tutto privo di delicatezza, con gli occhi chiusi e le labbra premute forte contro la sua testa, come se gli stesse dicendo addio. 

*

Demyx era sdraiato sul proprio letto, che era ancora disfatto dalla notte prima e da quella prima ancora. Era appena tornato da Agrabah, luogo infernale che aveva stritolato tra le sue dita aride e voraci ogni molecola d’acqua nel suo corpo, spingendo addirittura Xigbar a muoversi a compassione (o a capire che avrebbe altrimenti dovuto spiegare al Superiore il decesso del membro che gli era stato affidato, non faceva differenza) e a riportarlo a Castle That Never Was in spalla, come un sacco di patate, perché non gli era rimasta energia abbastanza da aprire un portale.
Ad attenderlo aveva trovato un silenzio innaturale, opprimente, come se l’aria fosse diventata densa perché non c’erano passi a smuoverla né voci a farla vibrare. E loro non erano persone quiete, al contrario; i Nobody sono l’incontestabile prova del fatto che un vaso vuoto fa più rumore di uno pieno. 
Evidentemente quel pomeriggio avevano tutti qualcosa da fare, fosse anche solo guardare il soffitto ponendosi domande che non avrebbero mai espresso ad alta voce, e ora che anche Xigbar era ripartito Demyx era rimasto solo con la sensazione che avrebbe provato il suo Other venendo abbandonato sotto il sole di mezzogiorno a ferragosto. Bruciature di sigaretta avevano contraddistinto ogni cosa avesse provato a guardare in quell’ultima ora, e stava finalmente ricominciando a vederci abbastanza bene, quando sentì dei rumori venire dalla stanza di Axel.
Senza pensarci saltò giù dal letto e corse fuori, poi bussò alla porta di Axel, ma non ebbe la pazienza di aspettare una risposta; per essere tornato così presto, doveva essere ferito. 
Quando entrò, vide che ci era andato vicino.
Roxas era sul letto, bagnato come un pulcino, e Axel stava tentando di togliergli il cappotto con una sola mano mentre con l’altro braccio lo sosteneva. Il corpo minuscolo di Roxas tremava in modo convulso e aveva il viso sporco, pieno di graffi. Sulla fronte aveva un taglio che sanguinava copiosamente e aveva sporcato la guancia di Axel, a cui però non importava. 
“Che c’è successo?” chiese titubante, già consapevole che avrebbe avuto una pessima risposta, ma non si sarebbe mai aspettato quel tono di voce infuriato, trafelato, quasi del tutto privo di respiro.
“Cosa cazzo ti sembra che sia successo?!, Xemnas l’ha mandato in un’altra missione suicida del cazzo!”, senza curarsi della sua presenza tolse finalmente il cappotto a Roxas e lo strinse forte a sé, per sollevarlo poi in modo da poter strappare le coperte dal letto e avvolgercelo come in un bozzolo. Anche se aveva gli occhi aperti lui sembrava privo di sensi, e si lasciò cadere sul letto senza opporre resistenza.
“Apri il cassetto.”
Demyx trasalì: “Che cosa?”
Lui si girò e gli urlò contro: “Il cassetto, cazzo, il cassetto, aprilo e passami l’Elisir che c’è dentro!”
“Sì!” fu la sua unica risposta, anche se avrebbe voluto dire qualunque altra cosa, qualunque, perché Axel non lo aveva fatto mai nemmeno sedere sul suo letto e adesso gli ordinava di frugare tra le sue cose perché il povero piccolo Roxas non stava bene. Anche lui non era stato bene, ma non aveva sbraitato niente a nessuno!
Nonostante questi pensieri eseguì velocemente l’ordine. Quando gli portò l’Elisir, Axel glielo strappò di mano e dopo averlo stappato coi denti lo accostò alle labbra bluastre di Roxas, parlandogli dolcemente nonostante la fretta: “Bevilo piccolino, starai subito meglio, avanti.”
La sua voce tremava, e a dispetto della logica che diceva a Demyx quanto fosse stupido preoccuparsi -erano sopravvissuti tutti a ferite ben più gravi di quella- provò invece come una sensazione di disagio davanti a un’intimità violata, ma anche un principio di quella che una volta avrebbe definito tenerezza, rendendosi conto che in quel momento Axel si era dimenticato di non essere vivo.
Roxas schiuse debolmente le labbra e si lasciò imboccare come un uccellino. Quando la boccetta fu vuota Axel la lasciò cadere sul pavimento. Un rivolo verde che scintillava di luce fioca in procinto di spegnersi colava dall’angolo della bocca di Roxas. Axel si tolse un guanto, lo asciugò con un dito e lo leccò. 
Demyx rimase a fissarli, infastidito dalla loro intimità, rimase a fissare Roxas che nonostante l’Elisir rimaneva stretto nel suo bozzolo respirando velocemente, e Axel che lo guardava con un’apprensione esagerata e contemporaneamente una totale e manifesta incapacità, come se non avesse avuto ben chiaro nemmeno dove fosse in quel momento, che cosa stesse facendo e perché. 
Perché un ragazzino che conosceva da pochi mesi potesse farlo preoccupare così.
Perché la sua sola presenza non bastasse a guarirgli ogni male come lui stava guarendo i suoi.
“Forse hai la febbre?” - non lo lasciò rispondere e con la mano nuda gli toccò la fronte, sulla quale esitò a lungo, finché con fastidio non la allontanò rubandogli nel mentre una carezza e ordinò: “Toccalo tu.”
Demyx trasalì: “Che cosa?”
“Non posso sentire se è caldo, toccagli la fronte!”
Demyx annuì e si avvicinò lentamente. Non si sedette né si inginocchiò, per non dare l’impressione di voler prolungare il contatto, si sporse e gli sfiorò la fronte per un momento, uno soltanto, prima di ritrarre velocemente la mano e dire: “E’ caldo, sì.”
Per la prima volta da quando lo conosceva, Axel sembrava avercela con lui. Lo odiava, forse, ma nemmeno il suo sguardo infastidito gli fu concesso, perché lui tornò immediatamente a guardare il suo fagottino tremolante rimuginando su una soluzione alle sue pene. Demyx azzardò: “Gli passerà presto, noi guariamo velocemente e--”
“E dovrei lasciarlo così finché non passa?”
La domanda era talmente auto conclusiva che Demyx si limitò ad arretrare e a guardarsi attorno con falsa incuranza. Poi fece un imperdonabile errore. Disse sibilando tra i denti, velenoso: “D’altra parte non vedo che cos’altro dovremmo fare. Il Superiore non può stare a preoccuparsi di ogni graffietto che si fa soltanto perché tu te lo scopi.”
Axel, che in quel momento stava pettinando con le dita le punte fradice e disordinate dei capelli di Roxas, si freddò come una bestia impallinata. Si alzò in piedi, dopo un ultimo sguardo a Roxas che teneva gli occhi chiusi e la testolina sprofondata nel cuscino, e dopo avergli afferrato il gomito lo sbatté letteralmente fuori dalla stanza, come un sasso scagliato in acqua, si chiuse con forza la porta alle spalle e quando finalmente lo guardò Demyx si rese conto che in quel momento stava avendo quello che aveva sempre voluto: che Axel lo guardasse come un potenziale nemico.
Era una sensazione viva, forte, bruciante come il desiderio che aveva per le sue labbra, ma non piacevole come aveva immaginato. 
“Non dire mai più una cosa del genere.”
“Perché, non--” quell’unico stralcio di ribellione venne soffocato da una spinta, che gli fece sbattere la testa contro il muro e lo chiuse in trappola, ma in quel frangente in cui rischiava concretamente la vita Demyx ebbe persino la pazzia di notare che quella era la prima volta che Axel l’aveva toccato con qualcosa che potesse essere definita passione. 
“Fatti sentire di nuovo da lui mentre dici una cosa del genere, e io ti ammazzo.”
Demyx sapeva con assoluta sicurezza che l’avrebbe fatto.

Potrei dire che una parte di me non si fosse mai rassegnata all’idea di non poter avere Axel, ma che si fosse invece contorta ritorta e deformata a cospetto della sua fiamma fino a diventare un surrogato del desiderio; desideravo, più di ogni altra cosa, essere parte di loro. Dell’impressione che disegnavano nell’aria le loro bocche quando si sorridevano. Di quella cosa bella che stavano creando. Di quella speranza.
Potrei anche dire di essere stato preda di un momento di acuto autolesionismo sfociato in un tentativo di suicidio, e sarebbe già qualcosa, in un mondo dove le persone non sentono loro stesse abbastanza da provare altro che un acuto e primordiale bisogno di difendersi. 
Qualsiasi cosa fosse, quella notte aprii un passaggio e mi materializzai in camera di Axel.
Credevo di sapere che cosa avrei trovato, cosa avrei sentito, quale odore mi si sarebbe attaccato addosso.
Ma Roxas stava dormendo. 
Occupava da solo il letto, avvolto in più coperte di quante normalmente non ne avessimo, e le teneva fin sotto al naso, nascosto come un neonato nella sua culla.
Axel mi guardava incredulo. Era seduto su una sedia della sala da pranzo – di legno, scomoda, una gamba sembrava sul punto di staccarsi e scricchiolava, producendo con le altre una macabro coro che era la colonna sonora dei loro pasti- e teneva in mano una fiamma che anziché spegnersi crebbe.
“Non posso ucciderti adesso, lo sveglierei” disse prima ancora che potessi muovermi.
Quella visione, in quel momento, fu la più tragica e incantevole per me.
Axel che vegliava Roxas nel sonno, lontano…senza toccarlo.
Era stata una forza che voleva il mio bene o il mio male a spingermi là, ma che cosa aveva ottenuto alla fine? Me ne andai senza saperlo.



Per tutto il giorno seguente Axel lo aveva guardato come se avesse aspettato una sua piccola distrazione per spezzargli il collo. Ovviamente, non era così: Demyx non poteva certo vantare i poteri di Marluxia, o l’abilità in battaglia di Xaldin, e se Axel avesse voluto veramente ucciderlo non avrebbe dovuto fare altro che schioccare le dita e farlo evaporare.
Invece, come sempre, aspettava ogni piccola distrazione di Roxas per guardarlo, ma qualcosa era cambiato; anziché sorridergli quando si girava, adesso Axel sorrideva sempre, solo perché lui era lì, poteva toccarlo, e stava bene. 
Un pomeriggio che erano rimasti soli, davanti alla finestra da dove si vedeva Roxas allenarsi con Xaldin, Demyx gli disse: “Proprio non capisco.”
“Nemmeno io” borbottò Axel “Dovrebbe starsene a letto, è ancora in convalescenza. Ha la testa così dura che forse dovremmo provare a usare quella, per aprire Kingdom Hearts.”
Rise appena, leggermente, un soffio che esplose in una nuvoletta nell’aria gelida che entrava dalla finestra.
“No, non intendevo questo.”
E allora cosa, avrebbe dovuto chiedere Axel, ma era troppo concentrato su ciò che stava guardando. Demyx sospirò.
“Quello che non capisco, è…beh, credevo che volessi il suo corpo, ecco. Che voi due…”
Axel non rispose così a lungo da far pensare che, assorto com’era, non l’avesse nemmeno sentito. Ma proprio mentre Demyx se ne stava andando gli disse: “Non voglio niente da lui, solo che si fidi di me.”

Malgrado quello che aveva detto, però, Axel continuava a guardarlo come se solo annusare il suo collo avrebbe potuto dargli un piacere sconvolgente. Non capivo perché non se lo prendesse e basta. Temeva un rifiuto? No, non era possibile: Roxas si comportava in modo assurdo, a volte, quasi con schizofrenia, e così come poteva tenergli il muso per un giorno intero e gridargli contro di lasciarlo in pace, quello seguente avrebbe anche potuto lasciare che lui lo spogliasse, senza fare domande, accettandolo come fino a quel momento aveva accettato tutte le spiegazioni che gli erano state date, anche le più ridicole. E comunque, nessuno avrebbe rifiutato Axel. Nessuno. Nella nostra condizione si smette di pensare in termini di uomo o donna, adulto o bambino, giusto o sbagliato. Si dà retta all’istinto, e Axel è puro istinto, impossibile da ignorare.
Ma giorno dopo giorno, Roxas ce l’aveva sempre più spesso con lui. 
All’inizio fu una cosa impercettibile, nulla più di una normale discussione dovuta a una provocazione, ma divenne via via sempre più evidente, e sempre più frequente.
E più Roxas era arrabbiato, meno Axel si scomponeva.
Più Roxas gridava, meno Axel parlava.
Più Roxas si allontanava, meno Axel cercava di colmare la distanza.
Vedevo accadere questa cosa, senza capirla, come non avevo capito il resto.
La cosa assurda era che qualche tempo prima avevo assistito a un momento di indicibile tenerezza, tra loro, una cosa che mi aveva scosso, e questa volta non per gelosia. Avevo visto, in Axel, lo sforzo di un essere privo di un cuore di comportarsi come se ne avesse avuto uno, e l’avevo visto completamente, in quel momento, in tutta la sua disarmante vulnerabilità; avevo visto che era dolce, e irritante, e patetico. Avevo visto ciò che vedevano gli altri in me, e il motivo per cui mi trattavano con sufficienza, addirittura con fastidio, come se trovandomi nel reparto terminali di un ospedale avessi spergiurato l’esistenza di una cura che però non conoscevo.
E’ stato una volta che stavo andando in biblioteca apposta per cercarli, e loro erano lì.
Roxas era seduto sulla poltrona e tendeva una gamba davanti a sé. Era nuda, perché si era risvoltato i pantaloni fino alla coscia, e anche lo stivale era stato abbandonato sul pavimento e si piegava molle su un lato. Axel la teneva saldamente in una mano, era talmente piccolo che quasi la avvolgeva completamente, e con l’altra gli medicava un ginocchio sbucciato.
Roxas sembrava un po’ contrariato, ma anche incuriosito, e lo fissava con interesse, chiedendogli come mai non potesse usare una pozione e basta. Axel sosteneva che abusare delle pozioni per una sciocchezza del genere era assurdo, non erano infinite, e inoltre rischiava di abituare il suo fisico al punto che non avrebbe più risposto adeguatamente alle cure. “Oh” disse lui, e annuiva seguendo la sua spiegazione come se fosse stata assolutamente sensata e non una bieca scusa per toccarlo.
Era evidente dal modo in cui le sue mani, inizialmente indifferenti, cominciarono prima a diventare malferme, poi a seguire la curva del polpaccio lievemente, solo con le dita, e ad accarezzarlo, infine, fermandosi sempre prima della coscia come se fosse stato il limite invalicabile oltre il quale sapeva che non si sarebbe fermato. La sua mano, avvicinandosi, tremava.
Si chinò sul suo ginocchio, a un certo punto, e lo leccò.
Così, all’improvviso.
Solo in quel momento mi resi conto di starli spiando, e di quanto intima fosse la situazione per assorbirli al punto che non si accorgessero di me, così mi feci il più piccolo possibile dietro lo spiraglio della porta.
Roxas lo guardò in modo strano, un po’ schifato, ma divertito.
“Che ti prende?” gli chiese ridendo.
Axel soffocò una risata, ma si vedeva benissimo che stava soffocando tutt’altro.
“Come, non lo sai? La saliva è disinfettante.”
“Bleah!”
“Come
bleah! Invece di ringraziarmi!”
Roxas rise e Axel lo leccò ancora, più a lungo, indugiando con estrema lentezza sulla ferita. 
Roxas non disse più niente.
Axel non smise di leccarlo, al contrario. I suoi divennero baci esitanti, poi espliciti, che si trasformarono anche in piccoli morsi, mentre le sue carezze diventavano sempre più ansiose. 
Roxas restava lì, adesso per niente divertito e di sicuro per niente schifato, con la gamba immobile e lo sguardo fisso su Axel, ma anche assorto, indeciso su come comportarsi. Sembrava curioso, non preoccupato.
Non capiva.
A un certo punto rise, sembrava per spezzare la tensione, ma non era così. Lo trovava buffo. Anche se le guance gli erano diventate rosse, e con le dita aveva stretto i cuscini quando Axel in preda al desiderio aveva gettato ogni remora per accarezzargli con ardore la coscia, non capiva.
“Tu fai un sacco di cose strane” gli aveva detto.
“Ti dà fastidio?” – la sua sicurezza era minata dalla voce spezzata, arrochita, dal respiro ansante, ma Roxas non sembrava assolutamente in grado di decifrare anche solo uno di quei segnali. Si limitò a fare spallucce: “Ci sono abituato.”
“E se facessi delle cose stranissime?”
“Mi abituerei pure a quelle, credo.”
“E’ una promessa?”
“In che senso?”
Axel non rispose e lo baciò. 
L’aveva lasciato appena finire la frase, prima di alzarsi sulle ginocchia e calcare prepotentemente la bocca sulla sua con un’urgenza devastante, che tentava in vano di frenare accanendosi sulla coscia rosea che non aveva mai smesso di stringere. Dopo un inutile sforzo per trattenersi l’avevo visto forzargli le labbra con la lingua, spingersi dentro di lui con una forza che lo fece arretrare, e dopo aver sospirato di frustrazione nella sua bocca l’aveva afferrato e se l’era trascinato addosso.
Non aveva chiuso gli occhi un solo secondo. Aveva continuato a guardarlo, con un misto di assoluta contrizione e passione. 
E in mezzo a tutto questo, Roxas ricambiava perplesso lo sguardo.
Si era spaventato, quando era stato trascinato sul pavimento, ma era una paura puramente fisica, come se fosse inciampato in uno scalino. 
Axel continuava ad accarezzarlo e a baciarlo, guardandolo con una devozione cieca e masochista, che gli faceva vivere quel momento con l’ansia che lui volesse porvi fine.
Ma se Roxas non partecipava, nemmeno si sottraeva.
Anzi si strusciava contro di lui, probabilmente in modo del tutto inconsapevole, attizzando oltre ogni limite un incendio che già così non era in grado di gestire. 
Rimasi lì a fissarli, impietosito dalla condizione di totale sottomissione e impotenza di Axel, dalla sua fame che anziché placarsi diventava sempre peggiore, e invidioso del suo piacere, del modo in cui –inevitabilmente- di tanto in tanto gli cedeva, ansimando e spingendo il bacino contro quello di Roxas, ridendo –di pura estasi- contro le sue labbra.
E Roxas era lì, sdraiato sopra di lui, tentato dalle sensazioni del suo corpo e dalle gioie che queste gli promettevano, ma ancora incerto, sempre abbastanza distante da poter tornare indietro, incuriosito, ma sempre con la guardia alzata. Eppure ogni tanto si separava da lui, solo un po’, per farsi riprendere oppure per andargli nuovamente incontro, per leccargli le labbra come un gattino oppure offrirgli le sue.
Axel stava impazzendo, potevo vederlo chiaramente. I suoi nervi stavano cedendo, potevo sentirne il crack quando lo stringeva più forte o lo baciava più profondamente, quando stava per compiere movimenti bruschi e poi si fermava, oppure quando Roxas si allontanava e lui sospirava, rassegnato, e sembrava aver quasi trovato la pace, finché Roxas tornava ad offrirsi come un frutto dolcissimo che lui non poteva mangiare.
Lo stava torturando.
Lo teneva in tensione fra l’estasi e disperazione così, con un semplice bacio.
E fu ancora più evidente quando Axel cedette, se lo strinse addosso e lo ribaltò, sovrastandolo, e Roxas come se non l’avesse stuzzicato oltre ogni limite fino a quel momento- puntò i gomiti sul pavimento e indietreggiò, come davanti a un pericolo.
Axel sospirò e appoggiò la fronte contro la sua.
“Sta calmo” gli disse, con la voce che ormai aveva perso del tutto la fermezza che la caratterizzava. “Non voglio farti del male, voglio…”
Voglio farti godere. Potevo sentirlo perfettamente, anche se non aveva parlato. Ti prego, permettimi di farlo. Ti prego, ti prego, ti prego.
“Adesso sta diventando un po’ troppo strano” si lamentò Roxas, come si sarebbe lamentato di una spinta accidentale. E quella fu la fine. Axel non avrebbe mai usato la forza su di lui, mai, ormai era chiaro. Invece fece sfregare le loro fronti e disse: “Sì, forse hai ragione, è meglio se ci fermiamo. Non c’è limite alle cose strane che potrei farti.”
Roxas lo spinse via, come se stessero giocando. Sembrò per un attimo deluso dal fatto che Axel non ingaggiasse subito battaglia così, per divertirsi un po’. Fece spallucce e si srotolò i pantaloni. 
Axel, dopo essersi faticosamente alzato dal pavimento, lo guardava riprendendo fiato.
Era trafelato, annientato dal desiderio, tanto da non sembrare più lui.
E Roxas ne era totalmente inconsapevole.
Roxas che pure aveva il viso arrossato, il respiro accelerato. Si puliva i pantaloni chiedendogli se non gli andasse di allenarsi un po’.
Era solo un bambino, questo realizzai. Cristo, no, era molto meno di un bambino, il suo Other era un bambino, lui era…lui era quello che restava di un bambino. 
Axel non temeva un rifiuto, temeva di non essere capito.
Temeva di approfittare di lui, senza che lui lo sapesse, di non sapersi controllare e di prendersi più di quanto lui non fosse pronto per dargli, di traumatizzarlo. 
“Frena il tuo animo romantico, principessa, non sono una creatura così pura” mi avrebbe detto un giorno “E’ solo questione di tempo, prima o poi lo sentirai urlare. Del resto, proprio tu dovresti sapere che non sono il più gentile degli amanti.”
Ho riso perché…beh, che dovevo fare? 
Parlava così perché non sapeva che lo avevo visto annuire mestamente, quel pomeriggio in biblioteca, dire “ok” con un soffio di voce, mentre Roxas muoveva il ginocchio constatante che non gli faceva più tanto male. Parlava così anche dopo che cominciarono a discutere sempre più frequentemente, anche quando –persino a chi non interessava affatto- era chiaro come fossero improntati i rapporti di forza.
Axel poteva uccidere con un morso e leccarsi soddisfatto il sangue dalle zanne, ma Roxas poteva far mangiare la tigre dal palmo della sua mano e grattargli la testa come a un micino.
Axel poteva passare minuti, ore, giorni a spasimare le sue labbra, ma era Roxas a scegliere se e quando concedergliele, dandogli –in quelle rarissime occasioni- bacini piccoli, casti, innocui, che lo lasciavano insoddisfatto.

“Chi è Sora?!”
La voce di Roxas tuonò nel silenzio della sala da pranzo. Ci fermammo a guardarlo, solo per un attimo, e sollevati da sapere che tenerlo a bada non era compito nostro ricominciammo a mangiare come se niente stessa accadendo. 
Avere la responsabilità di Roxas era strano, come averla di un’arma di cui non si conosce esattamente la potenza. Poteva essere innocua, ma anche mortale. Nessuno lo avrebbe detto –parliamo di un ragazzino con gli occhi grandi e l’aspetto tutt’altro che pericoloso- ma lo temevamo. Era il Nobody del Custode. Era la parte più tenace, l’essenza priva di remore e coscienza, della sola persona fosse riuscita a fare ritorno dall’oscurità dopo essere diventato un Heartless. Del custode aveva il potere e senza il controllo, la furia senza capacità di distinguere tra bene e male. Che Roxas non arrivasse mai a comprendere la reale portata del proprio potere era nostra assoluta priorità. Qualora l’avesse capito, avrebbe anche capito che lui poteva fare a meno di noi, ma non noi di lui.
“Chi diavolo è Sora?!”
Strillò di nuovo, così forte che la sua voce adolescente si spezzò per un attimo in un tono adulto, che rivelava l’uomo che forse se fosse esistito sarebbe diventato. Axel ne fu turbato. Ma continuò a guardarlo per un attimo, poi lo ignorò, dicendo soltanto: “Siediti, si fredda.”
Successe in un attimo: Roxas sguainò il Keyblade e Axel saltò abbastanza velocemente da evitarlo. La sedia su cui era seduto si frantumò in pezzi che si dispersero per la stanza come frammenti di una bomba. Roxas aveva il fiatone per la rabbia, non ritirò l’arma. Axel rise, perché era questo che dovevamo fare, non prenderlo sul serio, mai. Sarebbe stata la fine.
“Ti sei sfogato?”
“No, non l’ho fatto, non l’ho fatto per niente! Tu sai chi è Sora, dimmelo!” 
Axel non rispose. Roxas sembrava sull’orlo di una crisi isterica e le sue mani tremavano. La catena dell’Oathkeeper tintinnò quando si girò di scatto verso di noi.
“Che avete da guardare?!”
Restammo in silenzio. Solo Xemnas parlò con tono quasi condiscendente, come davanti ai capricci di un bambino: “Se tu e Axel avete dei problemi, sarebbe chiedere troppo domandarvi di risolverli altrove?”.
In tutta risposta Roxas calò il Keyblade sul tavolo come un’ascia, spaccandolo in due. Restammo chi attonito chi infastidito a guardare i nostri pranzi che scivolavano miseramente sul pavimento, mentre le sue sopracciglia si aggrottavano al punto da sembrare un’incisione sulla fronte. Il suo sguardo bruciava come in allenamento, perché lui era così, non si risparmiava. Esattamente come il suo Other, non si risparmiava mai.
Potrebbe ucciderci, questo pensai. Fu talmente chiaro che nessuno si mosse, nemmeno Marluxia, di solito insofferente all’autorità. Eppure ancora ci sforzavamo di non badargli troppo, di non fargli sentire la paura come non la si fa sentire ai predatori. A lui. A quel bambino piccolissimo.
Che cosa avevamo raccolto? Eravamo in grado di gestirlo?
Mi sembrava di leggere questo, nello sguardo solitamente impassibile di Xemnas, mentre quello cristallino di Roxas diceva fin troppo.
Diceva: maledetti.
Diceva: vi odio tutti.
Guardò di nuovo Axel, un’ultima, volta poi se ne andò. 
“Bambini” disse Xemnas, mentre Xigbar si chinava per raccogliere il tavolo distrutto. Axel rimase in piedi ancora per un attimo, come se avesse voluto raggiungerlo, poi strinse i denti e lasciò stare.

*

La figura di Axel si stagliava al centro del corridoio proiettando la sua ombra lunghissima, la sporgenza inequivocabile dei suoi fianchi, e la luce stranamente clemente di un mattino seppur grigio conferiva al suo profilo un che di aguzzo e tagliente. 
“Non devi venire a Castle Oblivion. Per nessuna ragione, Roxas, stai lontano da quel posto, siamo intesi?”
“Perché?”
Roxas era davanti a lui, e lo guardava in un misto di fastidio e tristezza. Non si aspettava più risposte, ormai.
Axel sospirò: “Non posso dirtelo, adesso. E’ per il tuo bene, cerca di credermi.”
“Perché dovrei farlo? Non mi raccontate altro che bugie.”
“Roxas, ti prego.”
Lui abbassò gli occhi. Erano parole così poco adeguate alla lingua tagliente di Axel che persino lui, arrabbiato com’era, ne aveva riconosciuto lo sforzo. La sofferenza, forse. 
Sbuffò: “Non m’interessa che cosa c’è a Castle Oblivion. Restaci e crepa.”
Axel rise. Quella era normale amministrazione, per lui. 
“Bene, ora vado.”
Roxas annuì e fece per allontanarsi. Axel gli afferrò il polso, e la disparità nella loro forza fisica era tale che lui vene trascinato indietro come un cagnolino.
“Che c’è?” si lamentò.
Axel fece un ghigno che però nascondeva poco efficacemente una flebile speranza: “Non mi saluti?”
“Ciao.”
Cercò di andarsene e Axel lo tirò ancora. Roxas questa volta fece una risata, anche se appena accennata, e questo spinse Axel a sorridere. Si chinò e appoggiò la fronte contro la sua. Roxas lo guardò per un attimo, poi i suoi enormi occhi scivolarono su pavimento e il suo viso riprese una smorfia crucciata. Axel rimase lì ancora per un attimo poi sospirò, allontanandosi molto lentamente, come nella speranza che all’ultimo momento lui cambiasse idea. 
Non la cambiò.
Però lo chiamò, quando si aprì il portale: “Axel…?”
“Dimmi.”
“…sai, non è vero che voglio che tu crepi.”
Axel rise. Una risata tenera. Quante sfumature nella sua voce aveva reinventato esclusivamente per lui? Ogni gesto che faceva, ogni cosa che diceva, anche dal suo respiro trapelava la paura di ferirlo. Eppure Roxas non si faceva scrupoli a ferire lui. Era giusto?
Chissà, forse lo era. Forse Axel meritava di essere ferito, e forse proprio perché Roxas poteva farlo era così importante, per lui. 

In quei giorni, Roxas uccideva Heartless con particolare accanimento. Quello che gli avevo sempre visto svolgere come un compito noioso, ma necessario, adesso sembrava diventata una questione personale. Potevo comprendere la sua rabbia. Roxas aveva capito da un pezzo quello che io avevo cominciato a capire quel giorno in sala da pranzo: fin dal principio, Axel non aveva mai avuto intenzione di dirgli la verità. E non perché erano gli ordini di Xemnas, o per la riuscita del piano. Lo faceva per un motivo molto più patetico ed elementare: perché era doloroso.
Il cielo, nerissimo, venne squarciato da un tuono così improvviso che trasalii. 
“Roxas” lo chiamai, alzandomi dai gradini da cui lo stavo guardando, dal momento che non sembrava decisamente in vena d’avere un compagno di giochi, “Sta scoppiando un temporale, rientriamo!”
Lui non mi diede retta, uccise anche gli ultimi Heartless e infine tirandosi su il cappuccio per coprirsi dalla pioggia che cominciava a cadere mi chiese: “Perché? Non ho ancora finito, qui.”
“Credevo aves si paura dei temporali.”
“Ah, quello…”borbottò, come se la cosa gli creasse un po’ d’imbarazzo, “No, non ne ho più paura. Mi ci sono abituato.”
Si stava allontanando, probabilmente per cercare altri Heartless, ma qualcosa lo trattenne e tornò dov’ero io. Mi guardò dritto negli occhi – con fiducia, quasi- e chiese risentito: “Non dirlo ad Axel, ok?”
Fu in quel momento che lo vidi – che lo vidi davvero, forse per la prima volta da quando ci conoscevamo- e vidi ciò che Axel aveva visto in lui: il suo profondo e incolmabile bisogno d’affetto. Un bisogno primitivo, purissimo, che non c’entrava niente con l’egoismo, la solitudine o la necessità di possesso. Dipendeva forse dal fatto che il suo Altro era stato amato troppo? In questo caso – pensai sentendomi triste per lui- allora anche tutto l’amore di Axel non sarebbe bastato. Anzi, probabilmente era appena sufficiente a tenerlo lì, in quel momento. Chissà per quanto.
“No, certo che non glielo dico.”
Roxas mi ringraziò e corse via, sotto la pioggia. In quel momento, non so perché, realizzai che il motivo per cui Axel era andato a Castle Oblivion non era più quello per cui Xemnas credeva di averlo mandato.


Un giorno gli aveva chiesto: “Se fossi costretto a scegliere tra la tua vita e la sua, che cosa sceglieresti?”
“Che cosa mi stai chiedendo, Demyx?”
“Se moriresti per lui.”
“E’ una domanda troppo idiota, persino per te. Dovresti saperlo, un Nobody muore come il suo Other ha scelto di vivere.”
“E questo che vuol dire?”
“Che Roxas morirà provando a fare del suo meglio. E allo stesso modo, io morirò pensando per me stesso.” 
Allora ne sembrava perfettamente convinto.


L’ultima volta che li ho visti insieme è stato in corridoio, dove Axel lo aveva stretto durante il suo primo temporale.
Adesso Roxas era appoggiato contro la parete, e lo guardava da sotto la frangia col visino scostante e un po’ imbronciato. Axel era chinato sopra di lui, con un braccio sopra la sua testa, e cercava il suo sguardo. A un certo punto si abbassò abbastanza da essere alla sua altezza, e Roxas gli stampò un bacino sulla guancia. Asciutto, brevissimo, casto in modo quasi ridicolo. 
Axel esitò soltanto un attimo. “Posso dartene uno anch’io?”
Roxas ci pensò un attimo, poi gli porse la guancia. Axel rise con disperazione e gliela baciò. Poi, prima che potesse allontanarla, gliela morse. Roxas trasalì, mentre lui rideva, avvicinò una mano alla guancia per controllare fosse integra, ma lui gliela trattenne e la baciò. Lentamente, come se fosse esattamente quello che voleva. 
Quando si accorse di me, Roxas ritrasse velocemente la mano. Fu un gesto che mi colpì, perché non l’avrebbe fatto, un tempo, non percependone la malizia. Era cambiato. Era stato Axel a farlo, o era semplicemente cresciuto? Era riuscito a corromperlo, alla fine, a entrargli dentro, anche se non come avrebbe voluto, oppure stava lui stesso soccombendo all’inevitabile?
Dal modo in cui lui lo guardò, così semplicemente triste, non ebbi dubbi a riguardo.
Axel se ne andò, e Roxas, forse per salvare le apparenze, o forse perché era sincero, chissà, mi corse incontro chiedendomi se mi andasse di allenarci, visto che non aveva niente da fare.
Io lo guardai a lungo, finché non ne fu stranito, esitai sui suoi occhi grandissimi, limpidi, i lineamenti morbidi del viso, le guance rosa da bambino, e mi chiesi: è possibile che tu l’abbia tratto in inganno col tuo aspetto dolce? Chi sei tu per farlo supplicare per un bacio, tu che lo consumi nell’attesa di una parola, di uno sguardo, tu che con un gesto puoi sgretolare la sua vita e decidere del suo futuro?
Ma Roxas sbatté soltanto gli occhi e io gli dissi di sì, e non parlammo né di lui, né di Axel né di nient’altro.


Roxas se ne andò da lì a poco. 
Se Axel ne parlava diceva: “Non fatene un dramma, è un ragazzino. Tornerà.”
Demyx non capiva se ne fosse convinto, o tentasse disperatamente di convincersene, ma forse, come nel suo caso, la speranza a volte può annullare la ragione e ridicolizzarla. E’ quasi pericoloso. Quasi umano. 
Quindi, poteva supporre, quasi bello.

“Il motivo per cui Roxas se n’è andato è che si è comportato come gli hai insegnato a fare, e adesso verrà braccato per questo. Non sei un po’ pentito?”
Un’altra domanda idiota in un sacco pieno di domande idiote. Le faceva senza più pensarci, perché era raro che Axel rispondesse o anche solo che ascoltasse. In quel caso rimase in silenzio a lungo, guardando fuori dalla finestra con una mano sul vetro. Fuori era scoppiato un temporale atroce, di quelli che sembravano volerli condannare. E non lo erano già, in fin dei conti?
“Avrei potuto dirgli la verità, ma non l’ho fatto.”
“Perché non volevi che se ne andasse…?”
“Perché non riuscivo a sopportare che la verità contemplasse l’eventualità che lui sparisse.”
“Capisco. Era troppo doloroso.”
Axel alzò la testa, come scuotendosi da un lungo torpore. Lo guardò, senza parlare. Demyx si fece coraggio e continuò: “Volevi vivere illudendoti che sareste stati felici per sempre. Non posso biasimarti.”
Al suono della parola illuderti Axel rise, ma non lo interruppe.
“Hai agito per il suo bene, lasciandolo andare. Non hai nulla di cui rimproverarti.”
“Tu dici? Allora perché lo sto odiando?”
“Sei triste, ti senti abbandonato. Questo non è odio.”
“Siamo Nobody, fa differenza?”
“Sì, credo di sì.”
Axel non rispose, però non rise neanche, forse per la prima volta. Poteva interpretarla come una vittoria?
Un lampo illuminò il corridoio, poi l’esplosione fece tremare i vetri. Axel digrignò i denti: “Roxas ha paura dei temporali. Avrebbe dovuto restare con me. L’avrei protetto.”
L’aveva detto in un soffio roco, guardando il pavimento. Le sue dita, chiudendosi, avevano lasciato una traccia come una ferita sul vetro.
Demyx sapeva qualcosa, sui Roxas e i temporali. Ma non sapeva se Axel potesse esserne consolato o ucciso. Decise di non parlare.
Si sedette sul pavimento, invece, con le ginocchia al petto, e rimasero ad ascoltare la pioggia per chissà quanto tempo. Questo, realizzò, era il massimo che poteva ottenere da Axel, e forse…sì. 
Forse gli andava bene così.

  
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