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Autore: PunkGirl_    17/08/2010    0 recensioni
Due ragazzi punk, una storia drammatica, un amore eterno.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arrivata a casa sua suonai il campanello. Ero arrabbiata, perchè non aveva mantenuto la promessa, ma sapevo che ero già pronta a perdonarlo. Non rispose nessuno. Mi aveva detto che la madre era costantemente a casa... Riprovai. Stavo per rinunciare, a malincuore, quando vidi che la tenda della finestra della sua stanza si mosse. Digrignai i denti, e presi a suonare all’impazzata. Perchè non rispondeva?! Notai per la prima volta l’albero che si arrampicava e coi rami raggiungeva le finestre più alte. Ebbi un’idea spaventosa e adrenalinica. Sbattei a terra la mia borsa e mi avvicinai al tronco. Appoggiai i palmi sulla corteccia e sospirai. Aiutami, chiesi col pensiero. Iniziai ad arrampicarmi. All’inizio fu complicato poi, raggiunti i rami, sempre più facile. Mi trovai davanti alla finestra della sua camera indenne, solo con un bel po’ di schegge nelle mani e i capelli scompigliati. Mi allungai. Pochi, pochi centimetri. E... la finestra si aprì. Non feci in tempo a guardare chi era, perchè persi l’equilibrio. Gridai, un grido strozzato, e iniziai a scivolare. Mi attaccai per un pelo a uno dei rami, mentre la maglietta salì e mi scoprì il ventre. “Cazzo”, sussurrai. Rimasi in quella assurda posizione finchè non sentii la porta aprirsi. Allora, cautamente, lasciai la presa del ramo con una mano, e mi aggrappai all’ampio tronco. Scivolando giù mi scorticai mezza pancia e le braccia, sentendo fra l’altro che mi stavo graffiando la guancia. Quando atterrai, mi sentii sfiorare da una mano calda, che però si allontanò subito. Dopo essermi assicurata di stare bene, mi alzai e mi girai, pronta ad arrabbiarmi davvero: sapevo che era lui. Ma mi bloccai. Il suo volto era tempestato di lividi, così come le braccia. Aveva gli occhi rossi. Non riuscii a parlare. Le lacrime iniziarono a scendere sulle guance come piccoli fiumi. “Cosa...?”. Non potei proseguire. Mi sfiorò le braccia, su cui i tagli sanguinavano, e poi la guancia. Rabbrividii, ma non riuscii a distogliere gli occhi da quei lividi. “Cos’è successo?”. Mi tremava la voce. “Alice, devi disinfettarti questi tagli”. “No! Voglio sapere...”. Non riuscii ad andare avanti. Mi coprii gli occhi con le mani e iniziai a piangere di dolore, accasciandomi a terra, in ginocchio. Lo sentii mentre faceva lo stesso, di fianco a me. “Mi dispiace di non essere venuto. Mio padre... ha capito che vorremmo denunciarlo e non ce l’ha permesso. Ho fatto andare via mia madre e me la sono vista con lui. Mi ha... beh, si vede. Scusa, avrei dovuto chiamarti, ma quando è andato via non sapevo se sarebbe tornato, e non volevo metterti in pericolo...”. Si interruppe. Asciugò con le dita una piccola goccia di sangue che colava via dal mio braccio. “Devi fare qualcosa”, riuscii a dire. Annuì. “Ci ho provato”. Non potei ribattere: aveva ragione. Guardai di nuovo quei lividi. Seduto lì, in quel modo, sembrava solo e disperato. Sfiorai i lividi sulle guance, sorprendendolo. Riprese a fissare l’erba solo qualche secondo dopo. Quando una lacrima gli colò sulla guancia, la sfiorai senza dire nulla. Passai le dita anche sulla fronte, e sui capelli vicino alle orecchie. Chiuse gli occhi. Delicatamente accarezzai il mento bluastro e gonfio. Con un momento di esitazione, passai, lentamente, le dita sul suo labbro inferiore, tagliato, e poi su quello superiore. Respirava sulle mie dita. Staccai quel contatto con un certo dolore, e feci per appoggiare la mano sull’erba, il cuore in tumulto, quando sentii la sua mano intorno al mio polso. Appoggio le mie dita sulla sua guancia ancora umida di lacrime e tenne premuto il mio palmo contro quella superficie morbida. Gli occhi ancora chiusi, vi appoggiò tutta la testa. Deglutii. “Dimmi se ti do fastidio”, sussurrò. Non risposi nemmeno, e non mi mossi. Staccò la presa dalla mia mano e mi guardò. Sentivo il cuore esplodermi nel petto. “Troveremo una soluzione. Io ti starò vicino”, sussurrai. Sorrise, un sorriso debole che gli illuminò gli occhi. Mi abbracciò esitante, e dopo essersi staccato rimase vicino a me. “Mi sento in dovere”, iniziò, “di ringraziarti”. Mi sfiorò la guancia con le dita. “Devo a te tutta la mia felicità”. Quella frase mi lasciò senza parole. Sentivo il suo respiro lento, e le mie orecchie erano scosse dai potenti battiti del mio cuore. Ci avvicinammo all’unisono, senza che nessuno dovesse fare il primo passo. E così, da seduti sfiorammo insieme le nostre labbra. Il tocco fu delicato, ma mi infiammò. Fu come se un incendio stesse divampando nelle mie vene; lo volevo, dal primo giorno. Dischiuse leggermente le labbra e si avvicinò, muovendo le ginocchia, finchè non mi cinse timidamente la schiena con un braccio. Rimanemmo in quella posizione per qualche minuto, le labbra che si univano nell’oblio del desiderio, i sensi annebbiati da piacere e gioia. Se ero felice? Sì, per la prima volta nella mia vita. Quando ci staccammo appoggiò la sua fronte alla mia, e lo vidi sorridere. Aveva il respiro affannato... come me. “Quand’è stata l’ultima volta che hai avuto una ragazza?”, sussurrai. “Mai. Forse troppo stronzo?”. Sollevò gli occhi e mi guardò, vicinissimo. “E tu?”. “Idem”. Sorrise di nuovo e mi strinse a te. “Penso proprio di amarti”, sussurrò, come se mi stesse chiedendo i compiti di scuola. Alzai gli occhi, e sentii un groppo in gola. “Anche io”, mormorai. Non c’era altro da dire.
  
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