Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    25/08/2010    4 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La sala comandi era gremita. Atys si fece largo tra lo stuolo di tecnici e il personale specializzato che brulicava attorno alla plancia nel tentativo di decifrare i dati che arrivavano praticamente a flusso continuo. Non appena lo intravide in mezzo a quella folla, Lucano gli si mosse incontro, spostando rudemente quanti lo accerchiavano e gli sbarravano il passaggio.

«Comandante, benvenuto sul ponte» fece, scattando sull'attenti e affiancandolo prontamente. «Tutti i preparativi sono quasi ultimati. Siamo pronti a procedere».

«Novità sull'attività della Pietra?» domandò Atys, chinandosi a studiare sulla plancia le mappe di bordo e gli ultimi rapporti tecnici. «Si mantiene stabile?»

«Non proprio» lo informò Lucano, indicandogli alcune cifre che brillavano sullo schermo. «Da quando siamo atterrati, sembra che la sua energia abbia subito un incremento progressivo, piuttosto sostanziale. L'attività magnetica che stiamo registrando attualmente, è ai massimi livelli».

«Ci siamo, dunque».

Atys sollevò il busto. Gli occhi incavati per il sonno di cui si era privato negli ultimi tempi lasciavano cadere sul suo viso un'ombra fosca, esasperata dalla smorfia severa che gli piegava la bocca.

«Non resta che lei,» sospirò. Sembrava quasi sollevato. «La nostra Regina».

«Vuole che mandi qualcuno a chiamarla?»

Atys sembrò notare Lucano per la prima volta. Sbatté le palpebre appesantite, come per scacciare un'immagine fastidiosa e ricorrente.

«No. Lasciate che riposi ancora un po'» disse. «Credo che abbia avuto una giornata piuttosto intensa».

«Come comanda».

Atys abbassò gli occhi. La plancia gli illuminava il volto, emettendo un bagliore ipnotico e costante che lo trascinò nel vortice indistinto dei propri pensieri, da dove ben presto si ritrovò a fissare un punto imprecisato avanti a sé. Perso ogni altro riferimento, tutte quelle cifre che ballavano risplendendo davanti ai suoi occhi, cessarono di avere significato, limitandosi a brillare confuse come uno sciame di lucciole nel buio.

«Ci pensa?» mormorò, praticamente rivolgendosi a se stesso. «Siamo a un passo dal recuperare l'ultima delle nove Pietre Sacre. Finalmente potremo tornarcene a casa e mettere fine a questa fottutissima guerra».

Di fianco a lui, Lucano si chinò sulla plancia, come a cercare conferma in essa di quanto diceva il suo comandante.

«Speriamo che sia così», esalò. Atys strinse i pugni.

«Deve essere così» disse, mostrando i denti. «È solo per questo che ho resistito fino ad ora. Se non sono ancora impazzito e se non ho ancora mandato tutto al diavolo, è solo perché ho continuato ad attaccarmi disperatamente a questa singola speranza, la speranza che esistesse ancora qualcuno in grado di salvare il nostro mondo. Perciò, deve per forza essere così».

Lucano tacque. Il volto del suo comandante aveva assunto un'espressione tetra, che lui non conosceva.

«Avete avviato i calcoli per la traiettoria di passaggio?» chiese Atys, gli occhi aperti su un luogo della sua anima inaccessibile a chiunque. Lucano annuì.

«Li stiamo ultimando» rispose. Con rapidi gesti, afferrò una tavoletta luminosa ed estrasse i dati che gli servivano. «I tecnici hanno già avviato la simulazione, ricalibrando la struttura propulsiva della nave. Resta comunque da vedere quanto tempo la Merkaba resterà attiva, una volta aperta».

«Il tempo necessario» fece Atys. «Non dobbiamo preoccuparci di questo. Penserà a tutto la nostra sovrana».

Lucano assunse un'aria perplessa. Scrutò dubbioso il volto deciso del comandante, inarcando le spalle. «Crede davvero che ne avrà la forza?» azzardò. «In fondo, non è che una semplice ragazza e non credo che abbia mai avuto davvero a che fare con un potere del genere. Per quel che ne sappiamo, potrebbe addirittura uscirne distrutta».

«Lo so benissimo» affermò Atys, aggrottando. «Generare un'apertura dimensionale di tali entità e attraverso la sola forza psichica, richiede uno sforzo che potrebbe risultare fatale per chiunque. Ma si ricordi che lei non è una persona qualunque. Nadia Ra Arwol è la nostra Regina. L'ultima sopravvissuta dell'antica Casa Regnante. Nelle sue vene, scorre il potere che gli dei hanno trasmesso a quanti tra i nostri progenitori furono scelti per questo, per governare le Pietre. Lei è l'unica a poter istituire la Merkaba. Senza il suo intervento, sarebbe impossibile aprire il varco spazio-temporale necessario a ricondurci a casa. Ma io so che lei può farlo, e lo farà. Ho piena fiducia in quella ragazza».

«Allora, speriamo che non si sbagli» commentò Lucano, per nulla convinto.

«Non posso sbagliarmi» fece Atys. «Significherebbe che tutti noi, e questo intero mondo, periremmo nel tentativo. E questo non posso permetterlo, non a un passo dal successo. Non ho accettato questa missione per morire su un pianetucolo dimenticato dall'ultimo degli dei».

Lucano indugiò per un istante, meditando su quelle parole senza esprimere alcuna opinione. Alla fine, Atys ruppe il silenzio che si era creato, emettendo un debole sospiro.

«Mi mandi Faloe» disse, avvolgendosi nel mantello e voltando le spalle a Lucano. «È tutto il giorno che è come scomparsa. Ho bisogno di parlarle dei nostri ospiti».

«Cosa ha intenzione di fare, a proposito?» chiese Lucano, inarcando un sopracciglio. «Ormai il momento della partenza si avvicina, e non abbiamo ancora ricevuto disposizioni adeguate, al riguardo».

«Ho dato la mia parola che li avrei lasciati andare vivi, ed è quello che farò» affermò Atys, voltandosi indietro una volta raggiunta l'uscita. «Ma per quanto mi riguarda, una volta fuori da questa nave, la sorte di quegli uomini non sarà più affar mio».

«Quindi, se riusciranno a sopravvivere...»

«Tanto meglio per loro» fece Atys un attimo prima che la porta si chiudesse, sottraendolo alla vista.

 

 

*

 

 

«Ti ho fatto male?»

Nadia si strinse nelle spalle. John le passò dolcemente una mano sul braccio, stringendola da dietro.

«No» mormorò lei, dopo un attimo di esitazione. «No, davvero».

«Ti è piaciuto?»

Non sapeva cosa rispondere. Se avesse dovuto dire la verità, non è che avesse sentito granché. Non le aveva fatto esageratamente male, ma non era stato neppure esaltante.

«Sì» disse alla fine. Era meglio così. In certi casi, la verità non serviva a nulla, se non a complicare le cose.

Lui sorrise, aggrondando. «Sai, non sembri particolarmente convinta».

«Ma sì, sì, è stato bello» si schermì lei. «Molto».

John restò a guardare assorto la morbida curva delle sue spalle. Gli giaceva accanto, ma sentiva che in realtà lei si trovava altrove. Persino il suo corpo, quel corpo che aveva così intensamente assaporato e con cui si era fuso nel modo più completo possibile, sembrava quasi avvolto su se stesso e completamente abbandonato. Un guscio vuoto, come una conchiglia sulla spiaggia.

Con il palmo della mano, accarezzò la linea sinuosa dei suoi fianchi, percorrendone l'interno e risalendo su fino alla pancia. Sotto le sue dita, la pelle di lei era morbida e calda. Nadia gli bloccò la mano e intrecciò le dita a quelle di lui.

«Bello come ti aspettavi?» insistette John. Lei si voltò a guardarlo.

«Ma perché mi fai tutte queste domande?» chiese. Era irritata. Lui scrollò le spalle, come per dare poco peso alla cosa.

«Beh, in fin dei conti era la tua prima volta».

«E cosa c'è di così sensazionale, in questo? Ne parli come se avessi vinto un trofeo».

«Scusa, non lo ritieni importante?»

Lei sbuffò. «Cosa? Aver fatto del sesso?»

«No. Averlo fatto la prima volta».

Nadia scrollò le spalle, infossando il mento e nascondendo il volto tra le pieghe del cuscino.

«Prima o poi doveva pur succedere».

John sospirò. Si distese al suo fianco, sistemandosi il cuscino dietro la testa.

«Avresti preferito farlo con lui, non è vero?»

Nadia si irrigidì. Volse la testa, a guardarlo. Lui le sorrise.

«Guarda che non me la prendo» disse. «Anche se, sinceramente, mi secca un po' essere stato usato in quel modo».

«No» fece lei, drizzandosi su un gomito. «No, ti sbagli. Era con te che volevo farlo. Mi spiace averti dato l'idea che non fosse così».

John le passò un braccio intorno alle spalle e lei si girò tra le lenzuola, appoggiando la testa al suo petto.

«Io ti amo, Nadia» le disse John, stringendola a sé. «Sono felice per quello che è successo, ma non posso esserlo da solo. Vorrei che lo fossi anche tu».

Lei non rispose. Si limitò a sbattere lentamente le palpebre.

«Vuoi dormire?» le chiese John. Lei scosse la testa.

«Non è che non ti ami» fece Nadia, sommessamente. «È solo che mi sento molto confusa. Tutto quello che mi sta succedendo, ogni cosa» sospirò «mi sento così sola e incapace di affrontare la realtà. La verità, è che non so che fare».

Lui le accarezzò i capelli. Nadia respirò a fondo, come per farsi coraggio. Ormai aveva cominciato a confidarsi, non c'era ragione di smettere proprio ora.

«Anche mentre facevo l'amore con te, era come se non fossi veramente io. Scusa se te lo dico così, ma è la verità. Ero lì, ma in realtà mi trovavo altrove. Non è che fosse colpa tua, o che non provassi piacere... ma vivevo tutto dall'esterno, come se il mio corpo non mi appartenesse. È stato... strano».

«Ti va di parlarne?»

Lei impallidì. John le spostò i capelli dalla fronte, e le diede un bacio.

«Parlare?» fece lei. «E di che cosa?»

«Di come ti senti».

Lei restò a guardarlo come sospesa, ma all'ultimo si rimangiò quello che stava per dire. Con un movimento secco del capo si rintanò sul petto di lui.

«No, non credo che servirebbe a qualcosa».

«O forse sì, chi può dirlo».

«Ti ho già detto che ciò che provo non dipende da te, o da quello che abbiamo fatto. Perché insisti?»

«Perché insisto?» fece lui, sorpreso. «Perché mi interessi, no? Mi sembra piuttosto evidente».

John attese pazientemente che lei rispondesse qualcosa, ma Nadia sembrava essersi calata in un silenzio improvviso e ostinato. Era come se un'ombra fosse discesa su di lei, racchiudendola e occultandola al resto del mondo.

«Allora?» incalzò lui. Lei sembrò farsi ancora più distante, ma alla fine la sua voce lo raggiunse, tiepida e lontana, come se sgorgasse da un luogo remoto ad entrambi.

«Cinque anni fa, ho per la prima volta capito cosa fosse quella pietra azzurra che portavo con me sin da quando ero bambina» mormorò. Sorpreso, John si raddrizzò, ascoltandola attento. «Per tutta la vita, avevo sempre creduto che fosse solo un gioiello, l'ultimo ricordo di mia madre, che non avevo mai conosciuto. Credevo di dover proteggere quella pietra come si proteggono i ricordi, perché era l'unica cosa che ancora mi legava a lei, e a una vita che avevo vissuto solo per poco, pochissimo tempo».

Nadia fece una pausa. Accavallò una gamba a quelle di lui, posandogli una mano sul petto ed esplorandolo con il tocco lieve dei polpastrelli.

«Quando incontrai Gargoyle, avevo quindici anni. Non avevo idea di chi fosse quell'uomo. Mi aveva rapito e rinchiuso nella sua fortezza, dove mi parlava continuamente di cose che non conoscevo, di un passato che non mi apparteneva. Lui aveva vissuto insieme a mia madre e a mio padre, io no. Non sapevo niente di lui, né di loro. Perché voleva la pietra? Perché voleva me? Non ne avevo idea. L'unica cosa certa era che, dentro di me, qualcosa mi spronava a nascondermi da lui e a fuggire. Almeno, fino a un certo punto».

John le spostò i capelli dal volto, percorrendo con un dito il profilo elegante della sua piccola orecchia. Era la prima volta che Nadia gli parlava del suo passato. La sentiva incredibilmente vicina, ora, e fragile. Un'immagine di lei che non conosceva, ma che sentiva di apprezzare profondamente.

«Cosa intendi?» chiese. «Non eri convinta?»

«C'è qualcosa» mormorò lei, atterrita «qualcosa che non ti ho mai detto. Che non ho mai detto a nessuno. È qualcosa che sento dentro di me da quando ho preso consapevolezza per la prima volta di chi fossi realmente. È come una forza oscura e potente, che cresce in me e che da sempre cerco di controllare e di sopire. È una voce, che mi parla e mi dice cose terribili, che non ho mai voluto sentire».

John strinse gli occhi. «Spiegati meglio».

«Dopo che Gargoyle mi ebbe svelato chi ero in realtà» riprese lei, «e dopo che finalmente ebbi scoperto cosa significava quella pietra che da sempre mi portavo appresso, avvertii che in me si era verificato un mutamento profondo. Non accadde subito. Le prime avvisaglie le ebbi quando entrai in contatto con le rovine della mia antica città natale. Raggiunsi ciò che restava di Tartesso casualmente, insieme a Jean e agli altri, proprio mentre cercavo di fuggire da Gargoyle. Si potrebbe dire il destino» rise, debolmente. «Ma una volta là, mi resi conto che non ero sola. Udivo distintamente la voce delle anime degli atlantidei che ancora giacevano insepolti in quel luogo, attendendo disperatamente che qualcuno li riportasse a casa. Per la prima volta, in quel luogo di miseria, avvertii tutto il peso della storia del mio popolo, un peso che ricadeva interamente sulle mie spalle. Era a me che si rivolgevano quelle voci, a me sola; e a me chiedevano giustizia per quanto era accaduto, per il fatto che mio padre aveva causato la loro morte, nel vano tentativo di uccidere Gargoyle. Fu allora che me ne accorsi. C'era qualcosa in me, qualcosa che, per quanto fossi terrorizzata, mi spingeva a farmi carico del destino di quei morti e delle spoglie vuote e desolate della nostra antica civiltà. Sapevo che avrei potuto riportare in vita il regno di Atlantide, sentivo dentro di me quella forza e quasi ne gioivo. Era come se una parte di me avesse cominciato a sentirsi improvvisamente viva, come se quella lacerazione profonda che avevo avvertito in me per tutta la vita avesse finalmente acquistato un senso, ricomponendosi. C'erano due anime in me, una consapevole e l'altra che aveva atteso dormiente nel mio cuore per anni. In quel momento, quella parte di me così segreta e inaccessibile si era risvegliata: e non era qualcosa che conoscessi. Mi mostrava una persona completamente diversa da quella che credevo di essere. Era come se avessi davanti un'altra me stessa, l'esatto contrario dell'immagine che avevo di me. Eppure, mi esaltava. Ogni volta che lasciavo quella Nadia sconosciuta libera di affiorare alla mia coscienza, seppur debolmente, mi sentivo invadere da un'energia incredibile, quasi esasperante. È difficile da descrivere, ma potevo sentirla scorrere in tutto il mio corpo, quell'energia, nelle mani che mi formicolavano, o nelle gambe che chiedevano di correre, e di muoversi. Mi sentivo euforica, ma anche spaventata, perché sapevo che se solo l'avessi lasciata fare, se non l'avessi contrastata, mi avrebbe senz'altro sopraffatto. Per questo fui felice, quando distrussi sia la pietra azzurra che avevo con me, sia quella di mio padre. Credetti che liberandomi di esse, sarei finalmente sfuggita a quel destino, a quella parte di me che pretendeva da me cose tanto terribili. E infatti, da allora non sentii più quella forza. Almeno per un po', la sua voce smise di tartassarmi».

Nadia sospirò chiudendo gli occhi. John la ascoltava senza mai interromperla, osservando affascinato le ombre che la dura luce artificiale gettava sul suo corpo, illuminandola come in un quadro al chiaroscuro.

«Passava il tempo e io dimenticai quanto avevo vissuto. C'era una vita nuova ad attendermi, e nuove emozioni. Finalmente, ero libera di affermare me stessa, e di trovare il mio posto nel mondo. Eppure, qualcosa non mi soddisfaceva. Un giorno mi accorsi che una parte di me era come morta. Cercai di scoprire cosa mi affliggeva e credetti di trovarlo in ciò che ancora mi legava a quel passato che non riuscivo veramente a dimenticare. Fu allora che fuggii. Fuggii lasciandomi alle spalle tutto quanto mi parlava della Nadia che ero stata, e che non volevo più essere. Mi rifugiai in un nuovo paese, in un nuovo lavoro e in un nuovo amore, il tuo, credendo di poter finalmente essere libera, ma mi ingannavo. Non perché non ti amassi. Oh, John, dio solo sa quanto ti ho amato, ma il motivo era un altro. Era la parte di me più nascosta, che era tornata a parlarmi. Era lì, che chiedeva di essere ascoltata, che pretendeva la parte della mia vita che ancora le spettava. Mi rifiutavo di ascoltarla, ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che tante cose che mi erano state dette, tante cose che avevo sempre ostinatamente liquidato come menzogne, in realtà si stavano avverando».

«Quali cose?» fece John, incuriosito. Nadia impallidì, abbassando lo sguardo.

«Quando incontrai Gargoyle, insieme a lui c'era anche mio fratello. Per me fu uno shock incontrarlo. Non sapevo di avere un fratello, anche se da sempre, dentro di me, nutrivo la sensazione che non fossi sola al mondo, e che da qualche parte esisteva qualcuno che mi stava disperatamente cercando.

Quando lo incontrai, scoprii che era stato proprio lui a salvarmi tanti anni prima, facendomi allontanare da Tartesso prima che la città venisse distrutta. Tuttavia, per me non era che un mostro, esattamente come Gargoyle, perché aveva causato la morte di centinaia di persone innocenti, tra cui mia madre, nostra madre. Eppure, più ascoltavo le sue parole, più esse scendevano dentro di me, posandosi lentamente nel mio cuore. E da lì non riuscivo più a toglierle. Mi disse che ciò che da sempre lo guidava, era la speranza in un mondo migliore, e la convinzione che l'umanità non avrebbe mai potuto salvarsi, se fosse stata lasciata a se stessa. Tutte frasi che avevo già sentito ripetere a Gargoyle, e che fino a quel momento avevo reputato solo sciocchezze. Ma oltre a questo, mi disse qualcosa che rispose immediatamente a tutte le domande che ancora mi angosciavano. Mi disse che io e lui eravamo diversi. Che nessuno mi avrebbe mai accettato. Che ero una aliena, e che come tale non sarei mai appartenuta al genere umano e a questo pianeta. Sul momento, io mi rifiutai di accettare una cosa del genere; e quando mio fratello morì, insieme a Gargoyle, credetti che tutto fosse finito e di essermi lasciata finalmente alle spalle quella terribile esperienza. Ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che quello che mio fratello mi aveva detto, quel giorno, non era che la verità».

Nadia si sollevò, cercando il contatto con lo sguardo di John. Lui strinse gli occhi, fissandola direttamente e senza timore, incitandola a proseguire.

«Guardati intorno, John» gli disse lei, aggrappandosi nervosamente al cuscino. Il lenzuolo le scivolò dalla schiena, rivelando così il suo corpo completamente nudo. «Quante volte nel tuo lavoro hai dovuto assistere a cose orribili? Quante volte sei venuto a conoscenza di eventi disgustosi, legati all'egoismo e alla bramosia dell'uomo? Per tutto il tempo in cui io credevo di affermare me stessa, non ho fatto altro che scontrarmi contro l'egoismo, l'arrivismo, e la sozzura della razza umana. Ovunque vai, qualcuno è pronto a ingannarti, a truffarti, o a servirsi di te per i suoi scopi. Nessuno mi ha mai accettato, nessuno mi ha mai offerto aiuto in modo completamente disinteressato. Anche le persone che credevo amiche... anche loro si sono dimostrate pronte ad abbandonarmi, quando hanno visto chi ero e cosa ero in grado di fare. Ora, hanno paura. Nei loro occhi leggo il disprezzo, e la diffidenza. Credevo di poter sempre contare su di loro, loro che erano la mia speranza, ciò che ancora mi permetteva di credere nell'uomo e che mi faceva desiderare di essere come loro. Ma ora...»

Tacque. John le posò una mano sulla spalla. Lei torse gli occhi, torva.

«Ora sono così disgustata. Vedo solo esseri disprezzabili attorno a me, persone che sono in grado di pensare solo ai propri interessi. Ogni giorno, nel mondo, scoppia una nuova guerra. Persone innocenti muoiono a causa di qualcosa che qualcuno, dall'altra parte del mondo, giudica indispensabile per la propria felicità. In Africa, la vita di uomini, donne e bambini viene venduta al peso dei diamanti; altrove si fa altrettanto per l'oro, o per l'argento. Ognuno è pronto a vendere la propria famiglia e i propri valori per due soldi... e per cosa?»

Lei ansimò. Era pallida in volto, e sudava. Stringeva il cuscino con le mani, tesa, mentre la luce le tagliava lateralmente gli occhi, oscurandole il volto.

«Recentemente, da quando sono entrata in contatto con la pietra che Kurtag ha ritrovato, ho ricominciato ad avere strani sogni. Gli stessi sogni che facevo quando avevo la pietra azzurra. Sogni terribili, ma anche chiarificatori. È come se la parte di me che avevo sempre temuto avesse ricominciato a parlarmi, a distanza di tanti anni. Con la differenza che io, stavolta, non voglio più nascondermi. Ho cominciato ad ascoltarla, e sai cos'ho scoperto? Che quella che mi spaventava così tanto è forse la parte più vera di me. È così. Io non sono umana. Io non appartengo a questo mondo, un mondo che disprezzo e detesto, che non mi ha mai accettato per quello che sono. Un mondo dove la gente muore per nulla, e dove chiunque è pronto a uccidere il suo prossimo per convenienza. Sì, è vero, io sono diversa. Sono un'atlantidea. Non voglio più essere umana, non voglio più credere che ciò che sono sia sbagliato. Essere diversi da ciò che si è, questo è sbagliato».

«Sei molto arrabbiata...» intervenne John, nel tentativo di quietarla. Ma lei lo interruppe, battendo seccamente con la mano sul cuscino.

«Ho sognato Gargoyle» disse. «Un sogno così vivido e vero che sembrava reale. Era lì, davanti a me e mi parlava. Mi diceva le stesse cose di sempre solo che, stavolta, io non le trovavo così assurde. Trovavo strano il mio tentativo di controbatterle. In realtà, dentro di me, sentivo che le approvavo, che aveva ragione lui. Eppure, continuavo a mentire a me stessa, confutandolo, difendendo l'indifendibile. Ma lui sapeva. Forse, tra tutte le persone che abbia mai incontrato, lui era l'unico a sapere la verità. Per quanto mi ripugni ammetterlo».

Nadia tacque, pallida e tesa. John sospirò, lasciando che il silenzio tra di loro desse il tempo alle parole di lei di depositarsi. In fondo, non era necessario dire qualcosa. Forse, tutto era già stato detto.

«Tu sei davvero come me?» fece lei, improvvisamente dura e con un lampo di diffidenza negli occhi. «Davvero facevi sul serio, quando dicevi di appartenere ad Atlantide?»

Lui esitò. Per un attimo pensò a quanto stava per fare. Lei aveva bisogno di lui in quel momento e qualunque cosa lui le avesse detto, lei gli avrebbe creduto. Per la prima volta sentì di averla nelle sue mani, e che la direzione che lei avrebbe impresso alla sua vita, dipendeva da quello che lui le avrebbe confidato. Sorrise e annuì, deciso.

«Sì,» fece «io sono esattamente come te. Questa, è l'unica verità che conosco».

«In questo caso» fece lei «tu sei l'unico che può capirmi. Solo tu puoi darmi quello che cerco».

John la scrutò perplesso. Avvertiva tutta la forza e la decisione di lei, raccolte dietro il suo sguardo, ora non più timido, ma duro, e determinato.

«E cos'è che cerchi, esattamente?»

Nadia gli si avvicinò. Sul volto, aveva un'espressione indecifrabile.

«Solamente me stessa» disse.

 

 

*

 

 

«Jean, posso entrare?»

Lui alzò gli occhi verso la porta. Alex aspettava sulla soglia, incerta se entrare oppure no. Con un sorriso, la invitò ad accomodarsi.

Non si sentiva a suo agio, era evidente. Poteva capirlo da come la vedeva muoversi, così stranamente defilata per una come lei. Senza volerlo, Jean si addolcì.

«Ti faccio paura, per caso?»

Alex esitò. Vagava con gli occhi lungo la stanza, le mani dietro la schiena.

«No, è che...»

Stette per un po' sovrappensiero, mordendosi le labbra, come a cercare le parole giuste.

«Non ero sicura che volessi incontrarmi» si decise, alla fine. Lui aggrottò la fronte.

«E per quale ragione, scusa?»

«Non lo so. Forse, è perché ti ho baciato, prima».

Arrossì, mentre lo diceva. Jean se l'era completamente scordato. Non era davvero un granché in quelle situazioni. Chissà perché, ma riusciva sempre a deludere le donne che lo amavano, in qualche modo.

«Ma figurati se sono arrabbiato».

«Già, nemmeno te lo ricordavi, vero?»

Lui avvampò, distogliendo lo sguardo. Era vero. C'era poco da dire.

Alex sospirò, andandosi a sedere accanto a lui. Si lasciò cadere lunga distesa sul letto, facendo penzolare le gambe. Jean la osservò curioso. Per quanto gli fosse accanto da quasi tre anni, spesso dimenticava che, in fondo, era poco più che una ragazzina. Forse era per via della sua intelligenza, che arrivava a dimostrare più dei suoi diciassette anni.

Ricordava ancora la prima volta che l'aveva vista. Una quattordicenne seduta senza vergogna tra centinaia di studenti universitari molto più vecchi di lei. Ma se Jean, professore a nemmeno vent'anni, rappresentava un'eccezione, Alexandra Galvani era molto di più. Una ragazzina capace di risolvere uno studio di funzione senza bisogno di appuntarsi un singolo calcolo, era semplicemente un miracolo.

«Sei proprio incorreggibile, non dai tregua alla stupidità» mormorò lei, mettendo su il broncio. Si portò le mani dietro la nuca e spostò gli occhi su di lui, che la guardava da dietro la spalla. Quindi, aggrondò.

«Ma insomma...»

«Che c'è?»

«Jean, vuoi svegliarti?» sbottò lei, tirandosi a sedere. «Per la miseria, ti ho baciato. Possibile che tu non abbia nulla da dire?»

Lui scrollò le spalle. Per quanto si sforzasse, non trovava proprio niente da dire. Lei sbuffò, rassegnata.

«Non smetterai mai di amarla, vero?»

Jean sussultò. Avvertiva il suo sguardo, dietro la nuca. Tuttavia, non si voltò. Preferì abbassare gli occhi, e fissarsi le punte dei piedi.

«È così, per quanto una faccia, o per quanto si possa sforzare, non potrà mai competere con la perfettissima Nadia, l'unica e la sola donna che il professor Lartigue abbia mai amato!»

«Non conoscevo questa tua vena sarcastica» fece lui. Lei rise.

«E io non ti facevo così inaccessibile».

Jean decise di non controbattere. Non c'era nulla da aggiungere.

«Sai, se non fossi così arrabbiata con te, ti direi che mi fai pena» ammise lei. Lui si schermì.

«Chissà cosa mi diresti se fossi davvero molto arrabbiata».

«Non scherzare. Io sono serissima».

«A-ah...»

Lei ammiccò. «Nadia ti sta solo usando. Possibile che tu non te ne accorga? Quante volte, da quando vi conoscete, ha mai fatto qualcosa per te? E quante volte, invece, tu hai fatto qualcosa per lei?»

«Il discorso non è così semplice».

«Certo che non lo è. Non pretendo affatto che lo sia. Ma non è nemmeno così difficile».

Alex raccolse le gambe, incrociandole sul letto. Allungò la mano sul comodino e prese la caraffa d'acqua, quindi riempì il bicchiere fino all'orlo, portandoselo alle labbra e mettendosi a bere lentamente, con gli occhi socchiusi.

«Anche se la ragione mi dice che dovrei lasciarti perdere e cercarmi un uomo migliore di te, proprio non ce la faccio, sai?»

Jean si mosse sul letto, voltandosi con l'intero corpo a guardarla. Alex sorrise, timida.

«Perché non puoi provare ad amarmi, Jean?» gli chiese. Lui indugiò per un istante.

«Credi davvero che non vorrei?»

«No, credo che tu abbia paura di provarci».

Lui rise. «A dirla tutta, credo di avere paura di fare molte cose» ammise. Alex restò con le labbra appoggiate al bordo del bicchiere, indecisa su cosa dire.

«Hai parlato con lei, prima?»

Jean la guardò. Alex lo fissava, attendendosi una risposta.

«Sì».

«Che vi siete detti?»

Lui sospirò. Non è che avesse una gran voglia di fare quella conversazione. Avrebbe preferito gettarsi a letto e scomparire sotto le coperte per il resto della giornata.

«Alcune cose» buttò lì, vagamente. Alex nicchiò.

«Puoi essere più preciso?»

«Lei mi ha detto che era indecisa se partire, andarsene insieme a queste persone. Io le ho detto che avrebbe fatto bene a farlo. Tutto qui».

Come risposta fu piuttosto concisa, ma Alex sembrò decisamente sorpresa. Lo fissò con un misto di incredulità e interesse.

«E perché gli hai detto una cosa tanto assurda?»

Lui scosse la testa. Avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo. Sul momento gli era parsa la cosa migliore da fare, ma ora non ne era più tanto sicuro.

«Forse è come dici tu. Magari ho solo voglia di rifarmi una vita, lontano da lei».

«Oh...»

Alex posò il bicchiere, dopo esserselo rigirato per qualche istante tra le mani. Con un balzo, scese dal letto, lisciandosi la gonna e lanciando a Jean un'occhiata divertita.

«Quando avrai capito se sei pronto a lasciarti il ricordo di Nadia alle spalle, vienimi a cercare. Forse sarò ancora disposta a prenderti in considerazione, anche se confesso che mi sembri davvero senza speranze».

Lui era sconcertato.

«Che ti prende?» fece. «Perché fai così, adesso?»

«Jean, tu non vuoi veramente quello che hai detto» gli disse lei, improvvisamente seria. «Tu stai solo scappando. Stai scegliendo la soluzione migliore, quella che ti permette di evitare i problemi. Non è questo quello che voglio, né quello che mi aspetto da te».

«E cosa diavolo è che vuoi?» sbottò lui. Alex non parve affatto intimidita. Anzi, sorrise.

«Io voglio essere scelta» disse. «Voglio che tu mi scelga, pur potendo scegliere lei. Ecco quello che voglio».

«Alex, io non posso farlo» rispose lui, con fare atono. «Per quanto mi sforzi, non riesco a smettere...»

«... di amarla. Non è così?»

Lui abbassò gli occhi. Lei scosse la testa.

«Patetico» mormorò.

«Che cosa?»

Alex si morse le labbra.

«Tu» scattò, livida. «Tu sei patetico. Lei ti ha rovinato la vita, e tu continui a correrle appresso come un cagnolino».

«Ti sbagli. Le ho appena detto che per me può anche andarsene».

«Ma non ti rendi conto, che proprio per questo tu continui a scegliere lei?» fece Alex, ora davvero furibonda. «Tu vuoi che si allontani perché non hai la forza di abbandonarla. Vuoi che sia lei a decidere per te. Sei solo un vigliacco, uno stupido fantoccio senza volontà! Se la ami, vai e fai di tutto per prenderla. Se ami me, fammi vedere che ho il diritto di avere qualcosa di meglio, di quello che mi hai offerto fin'ora».

Lui la fissò desolato. Odiava farla soffrire. Alex gli aveva sempre fatto capire con sincerità quello che provava per lui; perché non poteva fare altrettanto? Perché non poteva amarla, e basta? Era consapevole che se solo ne fosse stato in grado, sarebbe stato felice. Lei era perfetta. Eppure, lui non riusciva a compiere il passo decisivo, per quanto sentisse di esserle profondamente legato.

«Io non so cosa dire» fece. «Mi dispiace».

Lei lo fulminò con lo sguardo.

«Ho io qualcosa da dirti» disse, dura. «Va' all'inferno, Jean».

E con sua grande sorpresa, gli rifilò un bel calcio.

 

 

*

 

 

Il capitano Dario Lucano non era tipo da scomporsi più di tanto. Di solito, era uno che si limitava a fare quanto gli veniva chiesto, nel modo migliore e più rapido possibile. Nella sua particolare visione del mondo, le cose funzionavano in un modo molto preciso: ad ogni comando, corrispondeva un'azione; ad ogni azione, un risultato. Per questo, era convinto che non avrebbe avuto problemi a risolvere la questione riguardante i prigionieri, così come gli era stato ordinato di fare. Questo, almeno, finché non aprì la porta dell'alloggio del tenente Faloe Anuri.

«Ma che diavolo...»

Con sua enorme sorpresa, sgranò gli occhi sul pavimento della stanza. Era completamente ricoperto di fotografie. Faloe se ne stava in ginocchio nel mezzo, semi svestita, gli occhi fissi su un un foglio da disegno che stringeva tra le mani.

«Sei del tutto impazzita?» esordì Lucano. Richiuse prontamente la porta, guardandosi nervosamente intorno. Se qualcuno avesse osservato quella scena, le voci avrebbero cominciato a correre e lei avrebbe corso il rischio di veder sminuita la sua autorità. Un danno che non avrebbe fatto bene a nessuno, sulla nave.

«Attento a non pestare nulla» mormorò lei, senza alzare neppure lo sguardo. Lui si irrigidì. Contrariato, cercò di farsi strada tra le fotografie, mettendo i piedi nei pochi spazi da lei lasciati vuoti.

«Si può sapere che diavolo ti ha preso?» ringhiò. «Cosa significa questa messinscena? Sembri quasi malata».

«Perché scattiamo delle fotografie?» fece Faloe, all'improvviso. Lucano sussultò. Il volto di lei era quasi trasfigurato, ma stranamente spento, come se un'oscurità invisibile avesse risucchiato tutta la luce che solitamente lo illuminava.

«Come dici?» deglutì. Lei mosse gli occhi. Se non fosse stato per quel movimento impercettibile con cui sbatté le palpebre, si poteva quasi credere che si fosse tramutata in una statua.

«Perché scattiamo fotografie?» ripeté lei, debolmente. «Proprio non lo capisco».

Lucano abbassò gli occhi sulle foto sparse intorno a loro. Si chinò, avvicinandosi al volto di lei e guardandola fissamente. Lei non alzò mai gli occhi su di lui.

«Beh, per ricordare, immagino».

«Perché?»

Lucano si ammutolì. Perché gli faceva quelle domande? Non era mica un filosofo.

«Insomma... perché non possiamo ricordarci tutto. E le foto ci aiutano a conservare i momenti migliori. Ma si può sapere che hai?»

Faloe posò il foglio che teneva tra le mani. Lucano intravide il disegno e capì che doveva averlo fatto la bambina umana. Con una smorfia, si passò la mano dietro la nuca.

«Sei così per colpa di quella bambina, vero?» disse. Lei tacque. Innervosito, Lucano prese a guardare le foto che lei aveva sparso tutt'intorno. Erano foto scattate durante il suo servizio da soldato. In tutte le foto, Faloe vestiva l'uniforme ed era in compagnia di qualche commilitone. Ma la cosa più incredibile, era che in nessuna di esse Faloe sorrideva.

«Perché hai tirato fuori questa roba?» fece lui. Di fronte al suo silenzio ostinato, Lucano strinse i denti e si mise a raccogliere le foto. Scossa, Faloe gli afferrò delicatamente la mano.

«No» disse. «Lascia».

«Tu non stai bene» fece lui, teso. «Non lo capisci? Devi smetterla di tormentarti così».

«Se è vero che le foto servono per ricordare i momenti migliori, perché io non ricordo di essere mai stata felice?»

«Cosa?»

Lei sollevò gli occhi a guardarlo, smarrita. Di fronte al suo sguardo vuoto, lui si sentì atterrire.

«Guardo queste foto, e non ricordo il motivo per cui sono state scattate. Se fosse come dici tu, se ricordassero un momento felice, me lo ricorderei, no?»

Lucano abbassò gli occhi sulle fotografie. Non capiva.

«Ebbene, non è così» concluse lei.

«Sei solo stanca».

«Non sono stanca» obiettò lei. «Sono sola».

Lucano restò a fissarla in silenzio. Cosa avrebbe potuto dirle? Che non era vero? Che poteva contare sui suoi compagni?

Che scemenza.

«Faloe...»

«Guardo queste foto, e mi accorgo che non ce n'è una in cui io sia con la stessa persona. Non ho una famiglia, non ho nessuno a cui tornare. La mia vita, guardando queste immagini, sembra che l'abbia trascorsa indossando questa divisa. L'esercito è la mia famiglia. È come se a un certo punto della mia vita io fossi morta, per poi rinascere con indosso questi abiti. Ognuno di voi ha qualcuno. Tu hai i tuoi genitori, i tuoi fratelli... il comandante ha i suoi ricordi. Io, invece... cosa mi rimane?»

«Non è vero che non hai niente. Anche tu hai i tuoi...»

Si fermò. Stava per dirle che anche lei aveva i propri ricordi, come tutti. Ma si rese conto che i ricordi che aveva lei, sarebbe stato meglio non esistessero neppure.

«Mi dispiace» mormorò. Lei sorrise, inaspettatamente, e gli strinse delicatamente la mano. Lui si irrigidì, avvampando.

«Non devi» lo rassicurò lei. E ritornò triste. «Dopo quello che mi è successo, dopo la violenza» mormorò «ho deciso di chiudermi al mondo. Se c'è qualcosa che queste foto ricordano, è quella decisione. Io mi guardo, attraverso queste immagini, e ciò che vedo è una persona dura, diffidente, anzi, indifferente. Così diversa da quella che ero tanto tempo fa».

Lucano strinse i pugni. Si aspettava di vederla piangere, ma non fu così.

«Una volta mi hai detto che ho passato tutta la vita a inseguire il fantasma di mia sorella» fece lei. «È vero. Non sono mai riuscita a cancellare il ricordo di quello che le hanno fatto, davanti ai miei occhi. Nemmeno una foto potrebbe essere tanto vivida. È sufficiente l'odio, a rendere tutto sempre presente e doloroso, come se ciò che di più terribile ti è accaduto non fosse mai passato. E se c'è qualcosa che ho imparato, in tutti questi anni, è che l'odio è bravissimo ad alimentarsi da solo».

«Faloe...»

«Era solo una bambina» disse lei. Alzò gli occhi e lo guardò. In quel momento, Lucano avrebbe dato qualunque cosa per capire cosa doveva fare. Se si fosse trovato sul campo di battaglia, tutto sarebbe stato chiaro. Avrebbe caricato e caricato, e caricato ancora, finché gli fosse rimasto un briciolo di energia in corpo. Finché il nemico non fosse stato annientato, o finché lui stesso non fosse rimasto ucciso. Ma lì, davanti a lei, tutto quello che credeva di poter fare, gli sembrava semplicemente inutile e stupido.

«Credevo che non sarei mai più stata capace di ritrovare me stessa, sai?» gli confessò. «Fino ad ora».

Faloe sorrise. E con un movimento delicato, gli appoggiò la testa sulla spalla.

«Stringimi, ti prego» mormorò. Lui esitò, sorpreso, ma alla fine allargò le braccia, e la strinse a sé. Mentre stavano così, in silenzio, lui udiva solo il respiro regolare di lei. Un suono sottile e delicato, che lo rincuorò. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì, lo sguardo gli cadde sul disegno che giaceva accanto a loro. Con stupore, si accorse che era un ritratto di Faloe, un ritratto eccellente. Ma la cosa più singolare non era che quel ritratto fosse stato fatto da una normale bambina. Ciò che lo colpì, con l'evidenza di un fulmine, fu che in quel ritratto Faloe sorrideva.

In quel momento, si udì uno scatto. Un suono familiare, che lo allarmò. Lucano allontanò Faloe da sé e abbassò gli occhi. Tra le mani, lei reggeva una pistola a tranquillanti.

«Che vuoi fare?» fece lui, scosso. Lei sorrise.

«Non posso lasciarla andare, non adesso. Non ora che l'ho ritrovata» disse. «Devi aiutarmi, ti prego».

Lui scosse la testa. «Sei davvero impazzita?» esalò. «Ti rendi conto...»

«Da sola non posso accedere al siero. Ho bisogno che tu me ne procuri una fiala. E devi aiutarmi a nasconderla, quando sarà il momento».

«Faloe, cerca di ragionare! Se il comandante lo scoprisse... come credi di fare con gli altri del suo gruppo? Credi che accetteranno la cosa senza fare nulla?»

Senza alcun preavviso, lei gli prese le mani, fissandolo intensamente. In quello sguardo, lui poté leggere tutta la fiducia che quella ragazza riponeva in lui. Non c'era nessun altro di cui lei potesse fidarsi. Aveva scelto lui, lui tra tutti, per provare a fidarsi ancora una volta degli altri. Non poteva tradirla, non poteva lasciarla sprofondare ancora una volta in quel suo maledetto torpore. Non ora che sembrava ritornata lentamente alla vita.

«Ti prego» mormorò lei, con un debole sorriso sul volto. «Proprio per questo, ho bisogno di te».

Lui trasalì. Era la prima volta che la sentiva parlare in quel modo. Per quanto si sforzasse di ricordare, da quando la conosceva non l'aveva mai vista così decisa. E radiosa.

«Va bene» disse alla fine, posandole una mano sulla spalla e sorridendole rassegnato. «Se le cose stanno così, vorrà dire che ti aiuterò».

 

 

*

 

 

In quel preciso istante, Rebecca si svegliò. Era buio intorno a lei, e il silenzio era rotto solo dal battito forsennato del suo cuore.

Calmati, è stato solo un sogno.

Si passò una mano sulla fronte madida di sudore. Aveva la schiena e il petto completamente fradici e anche il cuscino era inzuppato. Non ricordava nulla di ciò che aveva sognato, ma l'ansia per qualcosa di imprecisato continuava ad aleggiare tutt'intorno a lei. Per calmarsi si versò un sorso d'acqua. La bevve e sentì come se il fuoco che la animava dall'interno si fosse spento all'improvviso.

Si volse. Marie dormiva serena accanto a lei. Ogni tanto sbuffava nel sonno. Rebecca sorrise, intenerita. Con la mano, le spostò delicatamente alcuni ciuffi dal viso, restando a guardarla. Piano piano, Marie schiuse gli occhi, fissando insonnolita avanti a sé. Quando incontrò lo sguardo di Rebecca sorrise debolmente.

«Che succede?» mormorò. Rebecca scosse la testa.

«Niente. Ti guardavo».

Marie emise un lamento, rintanandosi sotto le lenzuola.

«Hai fatto un brutto sogno?» domandò, con gli occhi chiusi.

«Sì, ma ora è passato» rispose Rebecca. Improvvisamente, l'ansia cominciò a salire di nuovo, senza un vero motivo. Ma era proprio questo, a farle più paura. Il momento in cui l'istinto le parlava, mettendola in allerta verso qualcosa di sconosciuto.

«Vuoi che mi alzi?» domandò Marie, assonnata. Rebecca rise.

«No, grazie. Dormi pure tranquilla».

«Va bene».

No, non c'era nulla che andava bene, pensò Rebecca, guardando preoccupata le tenebre che avvolgevano lei e Marie. Qualcosa le diceva che dovevano andarsene al più presto da quella nave. Non sapeva perché avesse quella sensazione, ma era forte, ed era concreta. Forse era l'istinto materno che aveva cominciato a sviluppare, ma era profondamente inquieta.

Se non ce ne andiamo, succederà qualcosa.

Era un bel problema, visto che non aveva la minima idea di come fare ad andarsene.

Lentamente, poggiò i piedi per terra. Il contatto con il pavimento di ferro freddo sembrò tranquillizzarla. Si portò le mani al volto e pensò, anche se non riusciva a concentrarsi su niente in particolare.

Se volevano andarsene, la loro unica speranza restava Nadia. Solo lei, avrebbe potuto fare qualcosa. Ma Nadia non era mai stata così lontana.

«Cosa devo fare?» disse. Dietro di sé, Marie emise un sospiro. Rebecca si volse a guardarla, mentre le sue parole continuarono a vagare nel buio per un po', dissolvendosi lentamente attraverso l'eco che ancora poteva sentire nella sua testa. Sarebbe stato bello, se qualcuno le avesse risposto.

Peccato, però, che lì con loro non ci fosse nessuno.

 



  
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