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Autore: Piccolo Fiore del Deserto    25/08/2010    1 recensioni
Minako non è destinata a diventare Geisha come tutte o quasi le ragazze della sua città, comprese le sue due sorelle. Per lei, suo padre, ha riservato un destino particolare: sin da bambina, infatti, ha ricevuto lezioni per diventare una perfetta arciera. Una volta cresciuta verrà inviata presso lo Shogun – un uomo austero, freddo e carismatico a detta di tutti - per diventare un’arciera del glorioso esercito imperiale. Ma, spesso il destino muta i piani. [4° Classificata al Contest "Le Sette Barriere Psichiche" di May8Rose - Storia Valutata da Bimba_Chic_Aiko, a cui va un sentito grazie di cuore!]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quarto Capitolo



Quella notte sognai molto.
In un primo momento erano sogni confusi, immagini, colori, sfumature diverse si amalgamavano e scioglievano continuamente. Mi agitai nel sonno, tuttavia cercai di fare un profondo respiro, per ritrovare un poco di quiete.
Quelle macchie di colore, dapprima insignificanti, iniziarono a fondersi insieme, rappresentando in quell’immensa oscurità che il sonno ti lascia, delle forme… che solo dopo qualche momento, capii essere umane.
C’ero io in un lungo corridoio del castello, proprio nel lato in cui alloggiavano i soldati. Ero vestita come il giorno prima – un semplice kimono scuro – e avevo con me l’arco e la faretra a tracolla. I miei lunghi capelli color dell’onice erano raccolti alla maniera maschile, con un semplice bastoncino a tenerli fermi in una sorta di toppa alta; neanche un sottile filo scuro sfuggiva a quell’acconciatura. Perfetta. O meglio, un perfetto soldato.
Camminavo lentamente, diretta non sapevo neanche io bene dove, fino a quando non notai la me del sogno ferma dinanzi alla porta della stanza del Venerabile Shogun.
Non sapevo perché ero lì, probabilmente perché lui mi aveva semplicemente chiamata. Non vi erano samurai a guardia della porta, lasciandomi un poco perplessa. Forse era l’unica differenza con la realtà, il resto era fin troppo nitido, così perfetto nei dettagli, che mi stupì.
Vedevo le mie labbra muoversi: « Sono qui, Venerabile Shogun. » e, ben presto, arrivava l’alta voce del mio generale, che mi invitava a farmi avanti.
Non aspettai neanche il minimo istante, e, lasciata scorrere la porta di lato, mi intrufolai all’interno – naturalmente indossavo solo dei tabi bianchi – e subito mi inginocchiai di fronte alla sua presenza, senza ancora rivolgergli lo sguardo.
Lui sedeva con le gambe incrociate sopra il suo futon ancora spiegato e non riuscendo a scorgerlo, sentii solo la sua voce pacata rivolgermi ancora parola.
« Benvenuta Minako-san. Ti stavo aspettando. Puoi alzare il tuo sguardo ora. »
Annuii con il capo, per poi fare un altro piccolo inchino semplicemente con il busto, essendomi inginocchiata a terra, e sollevai lo sguardo, non accennando ad alzarmi o sedermi meglio.
« Sono al tuo servizio, Shogun-sama » proferii, gentilmente e sottomessa a lui. Soffermai il mio particolare sguardo scuro, dalle sfumature violacee su di lui, e per un attimo fu il silenzio. Potevo sentire solo il mio cuore battere all’impazzata, come a causa di una paura improvvisa.
Ma non stava succedendo assolutamente nulla di grave, anzi, lui mi sorrideva. Sentii le labbra secche, la gola che ardeva come infiammata, il cuore palpitante, e una sensazione particolare, indescrivibile e mai provata prima all’intestino: come se tanti piccoli esseri volessero volteggiare all’interno del mio corpo, e io non riuscissi a trattenere il battito incessante delle loro piccole ali colorate. Farfalle. Sì, sembravano essere come farfalle.
Un sogno insolito, di certo.
Non riuscivo a spiccicare parola, nonostante ci provassi più volte, ma alla fine desistetti. Lui continuava a sorridermi, come mai fatto prima. Le sue labbra, sotto quella leggera peluria, erano rivolte verso l’alto, come una piccola mezza luna. I suoi occhi scuri sembravano riflettere una luce particolare, che mi rapiva e mi faceva provare qualcosa che mai il mio cuore aveva provato.
Sapevo nel profondo che era meglio distogliere subito lo sguardo, non era opportuno fissarlo in maniera così sconsiderata, era lo Shogun, ed io una semplice recluta che doveva solo seguire le sue parole, i suoi ordini, e chinare il capo. Devota.
Ma ecco… io non ci riuscivo.
Era come se una forza invisibile mi spingesse a guardarlo; in un primo momento pensavo che la mia fosse solo una sana, tranquilla, ammirazione per un uomo tanto importante e saggio, ma poi…
… pian piano la consapevolezza si faceva strada, rivelando al mio cuore e a me stessa, che quello che provavo non era solo ammirazione. Sin dal primo momento che lo avevo visto, il mio cuore aveva preso a pulsare in maniera strana. Pensavo che fosse per la paura e l’emozione di trovarmi dinanzi a un uomo simile, che tante volte in tutti questi anni, mio padre aveva decantato, per le sue gesta, per il suo potere, per la sua saggezza.
Ma io, o forse è meglio dire la Minako del sogno, non vedeva più lo Shogun, bensì l’uomo. Un uomo molto più grande di me, il cui viso, segnato dagli anni e dalle tante vicende tristi o meno tristi che lo avevano colpito, ora era disteso in un sorriso amorevole, che mi punse dentro.
Quello che provavo era molto di più di una semplice ammirazione.
Io lo … amavo.

    Di fronte a quella sensazione mi risvegliai di colpo. Probabilmente non potevo lasciare andare avanti un sogno simile. No. Era già un grande peccato provare qualcosa di simile. Era lo Shogun, il mio Generale, il pari dell’imperatore, ed io ero solo un’umile recluta che aspirava a divenire un’importante arciera, come era nel volere di mio padre e nel mio.
Portai le mani al viso, coprendomi gli occhi. Sentivo ancora il cuore battere troppo forte. Avrei voluto premere come un pulsante invisibile per chetarlo, ma non era ovviamente possibile.
Allontanai poi le mani e mi alzai, seduta. Iniziai a trarre profondi respiri, che potevano permettermi di ritrovare un poco di quella tranquillità perduta, a causa del sogno.
Dovevo calmarmi. Era solo un semplice sogno, nulla di più.
Per Azumamaro Mushanokoji Watanabe io provavo solo una profondissima stima e rispetto. E basta.
Quando mi sentii sufficientemente calma, presi una bacinella d’acqua per sciacquarmi il viso. Mi aspettava un’altra giornata di allenamento, per dimostrare il mio valore, e comprendere nuove tecniche.
Mi vestii rapidamente, con il solito kimono semplice, nero; una volta legati con cura i capelli, affinché neanche una ciocca mi ricadesse sul viso, presi l’arco e la faretra, e, lasciata scivolare la porta di lato, mi addentrai nel corridoio che portava alla sala d’addestramento.
Cercai di scacciar via quei malsani pensieri e concentrarmi unicamente sul mio “lavoro”, sul mio obiettivo. Volevo diventare una vera arciera e avrei fatto di tutto per dimostrare di esserne capace.
Quando entrai nella sala, diversi soldati si stavano già allenando e, vagando con lo sguardo, notai che lui era lì.
Bastò un semplice sguardo per far affiorare di nuovo tutte quelle emozioni che credevo assopite. Sentivo il mio cuore pulsare di nuovo con più foga, mentre speravo intensamente di non arrossire, non in sua presenza. Non volevo apparire sciocca. Non volevo che lui sapesse di questa debolezza, che non dovevo provare. Io, che nella mia vita avevo amato un solo uomo – mio padre -, ora mi ero innamorata proprio di una persona che non avrei mai potuto avere.
Proprio in quel momento, di fronte a quella consapevolezza, sentii come una fitta allo stomaco, anzi, più in profondità, verso l’intestino. Sentivo affiorare un dolore molto forte, che per un attimo mi spinse a posare una mano, con la mera speranza di alleviarlo.
Che pensiero sciocco. Cosa mi stava succedendo?
Lottai contro quelle sensazioni, cercando di cacciarle indietro. No. Dovevo apparire seria, risoluta, tranquilla, pronta per un altro allenamento. Ero un soldato, non una fragile donna, che corre dietro all’amore.
Adottai la stessa tecnica di poco prima e trovai un poco di sollievo nel respirare più volte. Infine, avanzai di qualche passo e, quando ritrovai il suo sguardo su di me, per un attimo l’immagine di lui sorridente nel sogno, comparì al posto del suo viso austero e serio.
Deglutii a vuoto, e poi, allo scopo di cacciare una tale visione, chinai il busto, guardando così il pavimento, e non lui.
« Konnichiwa, Venerabile Shogun » proferii, sebbene sentissi la mia voce troppo fievole, e la cosa mi irritava. Non dovevo lasciarmi andare dai sentimenti.
« Minako–San, infine sei giunta. Leggo in te un tale nervosismo che non riesco a comprendere. Ti faccio forse così paura, come a tutti coloro che quasi tremano dinnanzi a me? O forse hai ripensamenti sul tuo scopo qui? » la sua voce aveva un tono neutro. Non si sbilanciava mai troppo nelle emozioni, cosa che dovevo assolutamente imparare anch’io.
« Mio Shogun-sama, io ho una profonda ammirazione per te, e non è la paura che scorgi nei miei occhi. » mi fermai un attimo, alzando appena il busto, ma tenendo lo sguardo ancor basso. « No, non ho ripensamenti… voglio diventare quello per cui sono nata: un’arciera. » il mio tono però non riuscì a convincere neanche me.
Lui rimase silenzioso per alcuni istanti, portando una mano ad accarezzarsi la lieve peluria sopra le labbra, pensieroso.
Capii che naturalmente non era un uomo così sciocco da credere alle mie parole; parole cui io stessa non sentivo totalmente veritiere. Che cosa mi stava succedendo?
Tuttavia, dopo qualche istante di assoluto silenzio – durante il quale il suo sguardo non si allontanò da me, mettendomi a disagio – riprese a parlare, riportando le braccia lungo i fianchi.
« Io posso aprire una porta, ma sei tu a doverla varcare. » disse, con un tono enigmatico, e poi tra noi fu di nuovo il silenzio. Prese a camminare, voltando lo sguardo verso gli altri soldati che si allenavano. Io sollevai il mio, scrutandolo, e ancora una volta, al sol guardarlo, una fitta all’intestino mi colse, lasciandomi senza fiato e senza parole. Avrei voluto reagire, ma qualcosa mi frenava. Mi sentivo così sciocca, così misera.
Ma i miei pensieri furono bloccati di nuovo dalle sue parole.
« Prendi il tuo arco, Minako-san. Voglio allenarti ora, in modo da perfezionare il tuo stile, se è davvero tuo desiderio diventare una vera arciera, forte, tenace e utile in battaglia. Potrai così aiutare egualmente l'Imperatore e la tua terra qualunque sia il futuro che ti è stato creato » il suo tono era come al solito austero. Un ordine chiaro e tondo.
Quelle parole. Lui cosa aveva capito? Era riuscito a scorgere dentro il mio animo? Era riuscito a capire cosa provavo, meglio di me?
L’unica cosa che potei fare in quel momento era chinar il capo e assecondare il suo ordine. Si diresse verso il terrazzo senza più guardarmi neanche una volta. Io prontamente lo seguii, senza dire una parola. Mi sentivo confusa. Non avevo mai provato qualcosa di simile e non sapevo come gestire quella situazione per me nuova. Avevo paura che parlando avrei potuto mostrare qualcosa. Restai zitta e, quando lui si fermò, anch’io feci altrettanto.
Una volta sul terrazzo, protese il suo braccio ad indicare un albero del giardino sotto di noi, io seguii la traiettoria indicatami e osservai con attenzione l’albero, inarcando tuttavia le sopracciglia non capendo.
« Osserva. Vedrai che al suo fianco c’è un sasso. »
Cercai di affinare meglio la vista, e una volta individuato il mio obiettivo, annuii.
« Colpiscilo. » mi ordinò, rapido, secco.
Io deglutii, non comprendendo come potesse vedere in me questa perfetta arciera. Forse riservava troppo fiducia in me e, se da un lato la cosa mi rendeva colma di orgoglio, dall’altra avevo paura di fallire. Il fallimento era forse la cosa che più temevo. Ciò nonostante, ancora una volta, non dissi neanche una parola, bensì impugnai l’arco con la mano destra, assumendo la posizione più adatta: piedi distanziati, il destro più avanti del sinistro, peso del corpo distribuito egualmente su entrambi. Cercai di rilassare tutto il mio corpo, allontanando ogni pensiero dalla mia testa: e, dopo un poco, ci riuscii. O almeno così sembrava. Restai seria, fissando il mio obiettivo e,  nel momento in cui mi sentivo più rilassata, sfilai una freccia che posi sull’arco. Con la mano sinistra impugnai la parte in legno, con la destra la freccia e la corda. Trassi un profondo respiro e chiusi gli occhi per qualche istante. Cercai di concentrarmi unicamente su di me, il prolungamento del mio braccio – ossia l’arco e la freccia -, e il mio obiettivo – il sasso -. Dovevo raggiungere un rapporto completo con il mio spirito.
Quando mi sentii abbastanza pronta, riaprii gli occhi, e scagliai la freccia: ma proprio un attimo prima che partisse, il dolore all’intestino si fece più prepotente. Un’unica grande fitta, che mi distolse dall’obiettivo. Involontariamente spostai all’ultimo l’arco, e la freccia, sibilante, ricadde proprio nel punto accanto al sasso. Un colpo molto buono, ma non avevo fatto centro.
In quell’attimo tutte le mie convinzioni vennero meno. L’immagine di mio padre si palesò dinanzi ai miei occhi: il suo viso appariva ancora più solcato da rughe e i suoi occhi erano colmi di delusione. Mi fissava ed io sentii come una fitta sbriciolarmi il cuore. Avrei voluto gridare, avrei voluto implorargli di perdonarmi. Avrei voluto promettere ancora ed ancora che sarei migliorata. Per lui, per non deluderlo. Ma non riuscii a fare nulla e in brevi istanti la sua immagine venne meno, spazzata via da una fievole aria, ingannatrice.
Lottai per reprimere le lacrime, sebbene sentissi i miei occhi bruciare. Mi morsi il labbro inferiore, lasciando scivolare il braccio sinistro inerte lungo il fianco, stringendo tuttavia, con poca forza l’arco. Abbassai lo sguardo ed attesi la punizione che mi avrebbe forse inflitto lo Shogun.
« La tua mente non deve pensare al sasso che devi colpire, ma alla freccia che è parte di te e del tuo braccio. Vedila come un prolungamento naturale, una parte della tua mano che può saltare e spiccare il volo fino al bersaglio che vuoi colpire. » le sue parole mi entrarono dentro, ma erano frasi  che avevo più volte sentito da mio padre, e fino a quel momento avevo fatto mie. Non avevo mai sbagliato un tiro, se non le prime volte. E il pensiero di sbagliare ora mi uccideva. Forse avrei dovuto rispondere, ma non ci riuscivo, e così lui aggiunse altro.
« Esistono sette barriere psichiche che possono influenzare negativamente il tiro. Devi comprendere quale di queste ti blocca, Minako-san, ed abbatterla. » sollevai lo sguardo ed incontrai il suo. Quegli occhi color pece mi fissavano e mi analizzavano. Eppure non sembrava furioso come temevo. Sembravano gli occhi di mio padre quando da piccola m’insegnava tutto. Un padre, già. Solo questo poteva essere per me lo Shogun. « E’ l’ansia che ti ha impedito di fare un tiro ottimale? O forse la felicità? O la paura? O la rabbia? O il… dolore? »
Il dolore. All’udire quella parola, provai un’altra fitta intensa all’intestino. Con la mano libera sfiorai appena nel punto esatto in cui avvertivo dolore, e spalancai gli occhi quando la realtà, che avevo voluto tacere fino a quel momento, si affacciò prepotentemente dinanzi ai miei occhi.
Io provavo dolore.
Era questo a bloccarmi, ad impedirmi di congiungermi completamente con il mio spirito. Io provavo dolore perché ero innamorata dello Shogun, e non provavo per lui soltanto pura ammirazione.
Io provavo amore.
Un sentimento che fino ad ora non avevo mai conosciuto per un uomo, che non fosse mio padre. Ma era un amore che non poteva esistere. Io non ero nulla, lui era lo Shogun. Io ai suoi occhi apparivo solo come una figlia e una recluta. Nulla di più. E ciò mi provocava un dolore enorme che non riuscivo a gestire.
La consapevolezza che non sarei più riuscita a realizzare il sogno mio e di mio padre si fece presente ed io mi sforzai ancora di non piangere.
« Io… » sentii la mia voce quasi spezzata e cercai di schiarirmela per poi riprendere a parlare « credo che ho bisogno un po’ di tempo per analizzare il mio spirito e… capire. Poi ti potrò dare una risposta. Se è possibile, Venerabile Shogun, chiedo il permesso di ritirarmi, per iniziare da subito a comprendere ciò che mi accade. » chinai il capo, cercando di resistere ancora un poco per non dar mostra di una visione straziante e debole proprio dinanzi a lui. Attesi, ma l’attesa fu breve.
« Vai pure, Minako-san. Vedrai che saprai trovare la forza in te, e la risposta alle tue domande. » mi disse, e accennò un sorriso: quello di un padre che dimostra un piccolo cenno di affetto per una figlia. Prima che la fitta di dolore potesse di nuovo colpirmi ed annientarmi, chinai il busto per effettuare un corretto inchino e, velocemente, mi allontanai diretta alla mia stanza.
Avevo bisogno di restare sola per pensare e… piangere, finalmente.
   
 
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