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Autore: Piccolo Fiore del Deserto    27/08/2010    1 recensioni
Minako non è destinata a diventare Geisha come tutte o quasi le ragazze della sua città, comprese le sue due sorelle. Per lei, suo padre, ha riservato un destino particolare: sin da bambina, infatti, ha ricevuto lezioni per diventare una perfetta arciera. Una volta cresciuta verrà inviata presso lo Shogun – un uomo austero, freddo e carismatico a detta di tutti - per diventare un’arciera del glorioso esercito imperiale. Ma, spesso il destino muta i piani. [4° Classificata al Contest "Le Sette Barriere Psichiche" di May8Rose - Storia Valutata da Bimba_Chic_Aiko, a cui va un sentito grazie di cuore!]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quinto Capitolo



    Passai gran parte della giornata nella mia stanza. Lo Shogun, probabilmente, mi aveva compresa e voleva lasciarmi un po’ da sola, per riflettere.
Essere un soldato dell’esercito imperiale era un ruolo molto importante, da non sottovalutare e la scelta di rimanere doveva essere chiara e decisa. Sapevo perfettamente che non mi avrebbe concesso altre possibilità.
Forse si comportava così con me, perché ero la figlia del suo migliore amico, o magari perché somigliavo molto a sua figlia, in fin dei conti avevo quasi la medesima età.
Atsuko, questo il suo nome, aveva deciso di seguire le orme del padre, ma diventando un perfetto bushi, amando lei in particolare le spade.
Io l’arciera, lei la spadaccina.
Se non fossi stata bloccata da quella nuova consapevolezza che mi lacerava dentro, probabilmente avrei potuto diventarle amica e, sostenendoci insieme, avremmo contribuito ad apportare valore all’esercito.
Ma ora, quei pensieri mi sembravano così irreali, così confusi.
Era veramente quello il mio vero desiderio? Oppure volevo unicamente dimostrare qualcosa a mio padre ed essere quel figlio maschio che i Kami non gli avevano riservato?
Era sinceramente triste farsi domande simili, ma dovevo. Io dovevo realmente capire cosa mi stava succedendo e fare la mia scelta, entro un giorno. Ero conscia che lo Shogun mi stava dimostrando molto, ma che la sua pazienza non sarebbe durata a lungo.
Dopo aver consumato le mie lacrime, mi alzai dal cuscino sul quale ero sprofondata, e cercai di ricompormi un poco. Sistemai meglio i capelli, legandoli con cura sulla nuca, e mi asciugai il viso. Decisi di dirigermi un poco fuori; probabilmente una passeggiata mi avrebbe aiutata a schiarirmi le idee. Forse sarei potuto andare a trovare i miei zii, che gestivano una taverna, nei dintorni, ma no, sentivo il bisogno di rimanere completamente sola, per non permettere a nessuno di sviare i miei pensieri. Dovevo farmi domande e trovare le dovute risposte.
Iniziai a camminare, con calma, lungo un sentiero che portava a un piccolo laghetto, con orchidee e alberi di ciliegi tutt’intorno. Era la primavera, e quei dolci petali delle tonalità del rosa e del bianco ricadevano sul manto erboso, e uno di essi scivolò sulla mia spalla destra. Fermai il mio incedere e presi quel petalo tra le mani, delicata, e mi fermai ad osservarlo un poco.
Era così bello. Così soffice al tatto. Così delicato e fragile. Sarebbe bastato stringerlo più forte tra le dita, per rovinarlo.
Così mi sentivo: come un fragile petalo di ciliegio, continuamente colpito dal vento, sul culmine di frantumarsi del tutto.
Fino a quel momento mi sentivo forte, sicura, certa delle mie decisioni. Ed ora?
Ora io non sapevo più nulla. Se non che amavo Azumamaro Mushanokoji Watanabe, ma che dovevo dimenticare ben presto quel sentimento, perché tra noi non era possibile nessun rapporto, al di fuori di quello tra una recluta e il suo capo.
Sospirai e lasciai scivolare a terra quel petalo e di nuovo ripresi ad avanzare, fermandomi proprio nei pressi del piccolo laghetto, al cui centro spiccava un bellissimo fior di loto dalle sfumature del rosa e del viola. Rimasi per qualche istante ad osservarlo, e mi concentrai unicamente su cotanta bellezza, simbolo della vita stessa.
Mi abbassai, poi, per sfiorare appena l’acqua con due dita della mano destra. Guardai le piccole linee che andavano ad increspare quella superficie prima piatta.
In quel momento mi sentii davvero sola.
Volevo parlare con mia madre, o comunque con un’amica. Ma, mi accorsi solo in quel momento che io, effettivamente, non avevo amiche.
Avevo passato tutta la mia vita a seguire lezioni su lezioni, per affinare la mia tecnica con l’arco ed ora non riuscivo neanche a fare un tiro perfetto. Ero un vero disastro.
Sentii affiorare, come se la memoria volesse farsi beffe di me, le risate derisorie delle mie sorelle. Loro erano state inviate presso un’okiya, ed ora avevano raggiunto il loro scopo: erano entrambe delle perfette Geishe, delicate e perfette nelle movenze, raffinate, educate, brave in ogni genere di arte, anche se ovviamente, entrambe risaltavano per qualche arte in particolare: Asami era un’ottima danzatrice, molti uomini restavano incantati dai suoi movimenti e dall’armonia che riusciva a creare semplicemente muovendo i ventagli. Ryoko, invece, amava il canto e sapeva suonare perfettamente diversi strumenti, in modo particolare lo shamisen; con la sua abilità riusciva ad attrarre, anche lei, l’attenzione di tutti gli uomini su di lei.
Loro erano perfette, avevano raggiunto la loro massima aspirazione, ciò che sin da bambine erano state chiamate ad essere. Ed io?
Io non ero nulla.
Mi sentivo un involucro vuoto, senza sostanza.
L’aria mi sferzò sul viso. Le lacrime ripresero a scendere.
Non riuscii a trattenerle ancora. Mi sentivo così triste.
Soffermai lo sguardo su quell’acqua cristallina sotto di me e, nel momento in cui vi si riflesse la mia figura, non riuscii quasi a riconoscere quel viso stravolto e solcato da lacrime copiose, che quasi mai avevo versato fino a quel momento.
Dovevo essere un uomo. Eppure il mio lato femminile e fragile aveva preso il soppravvento e non riuscivo più a gestirlo.
« Padre… padre mio. Perdonami se puoi, ma io non riesco a diventare una vera arciera dell’esercito imperiale, come tu hai sempre sognato per me. Mi dispiace. Ci ho provato, ci ho creduto, lo volevo. Ma non riesco ad abbattere questa barriera. Ogni volta che lo vedo, avverto delle fitte, qui, al basso ventre. Lo amo, ma non lo posso avere. E questa consapevolezza mi dilania, mi distrugge, mi abbatte. Non riesco a raggiungere il corretto contatto con il mio spirito e, così facendo, non riuscirò mai a fare il tiro perfetto. Io lo amo. E provo dolore. Un dolore indescrivibile a parole. Perché sacri Kami avete deciso questo per me? Miei antenati è questa la mia strada? Soffrire, non raggiungere i miei scopi, deludere mio padre… » il discorso era completamente sussurrato. Ero sola, ma non potevo permettere che i miei pensieri sussurrati al vento potessero raggiungere orecchie indiscrete. No. Avrei causato solo altri scandali più vergognosi.
Portai una manica del kimono scuro a detergere le lacrime e mi rialzai ben dritta. Il sole stava quasi per tramontare ormai ed era giunto il momento di tornare nella mia stanza.
Avanzai lenta, guardandomi intorno con uno sguardo spento, vuoto, vacuo, senza vivo interesse per ciò che vedevo, fino a raggiungere infine la meta finale: la mia stanza.
Posai e dispiegai sul pavimento il futon, e mi distesi sopra. Per molto tempo non riuscii a prendere minimamente sonno. Troppi i pensieri che si arrovellarono nella mia testa. Troppe le preoccupazioni. Troppa la voglia di lottare contro quel sentimento che mi aveva arrecato dolore e portata a star così male.
Dopo non so quanto tempo per l’esattezza, finalmente riuscii ad addormentarmi. Ma il mio sonno fu invaso da una serie di sogni confusi, che aumentarono ulteriormente il mio disagio. Una serie di immagini scorrevano una dietro l’altra, per poi ripetersi continuamente.
Vedevo la delusione sul volto di mio padre. Lo sguardo serio di mia madre, forse l’unica a capirmi. Le risate derisorie delle mie sorelle. La me stessa che provava in continuazione a scagliare la freccia, ma sempre con cattivo esito.
E infine il suo viso.
Lo Shogun che mi sorrideva.
Il mio cuore che batteva.
Il dolore che m’invadeva l’intestino, per poi riversarsi sul cuore.
Al mio risveglio, presi la mia decisione.
   
 
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