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Autore: Sanya    30/08/2010    1 recensioni
Alice Cullen non riesce a ricordare nulla del suo passato. Vede solo uno spesso muro nero, quando ci pensa. Ma vi siete mai chiesti cosa c'era esattamente nel suo passato? Quali sono state le decisioni che l'hanno portata a finire in manicomio e ad essere trasformata in una vampira?
E poi, siamo davvero sicuri che il suo creatore rappresentasse per lei solo uno sconosciuto?
Capitoli in via di revisione. Work in Progress
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Eccomi a voi, o popolo di lettori!!!!

Che bello essere di nuovo con la tastiera in mano *.* Effettivamente ora mi sento un po' imbranata: sembra che non mi ricordi più come si scrive X]

Bene, a tempo record dal mio arrivo a casa, ecco a voi il sesto capitolo! Non so com'è, ma mi sento particolarmente ispirata in questo momento, infatti sono già a metà del secondo capitolo. Cogliamo l'attimo di ispirazione finchè dura, vah!

Bhe, non c'è molto da dire, se non che Byron si troverà in una situazione piuttosto insolita da ora in poi....Lascio a voi ogni tipo di premonizione!

Ringrazio la grandissima Mafra (che per altro ha cambiato ancora nick xD) che continua a essere fedele alla mia storia. Grazie cara! Sono felice di avere il tuo sostegno! E non preoccuparti per il povero Byron: avrà i suoi momenti di gioia e i suoi momenti di dolore.... 

Ringrazio anche tutti quelli che leggono e leggeranno e che, soprattutto, recensiranno!! Please....

Ringrazio anche jadina94 che ha valutato più che pienamente la mia One-Shot su Esme e Carlisle 'Parents and Lovers' (questo è il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=558879&i=1 passate a dare un occhiata ^^).

Buona lettura ;]

 

CAPITOLO 6

Mentre correvo il più velocemente possibile via da quel posto, cercai di non pensare alla strada che avevo appena imboccato. La separazione sarebbe stata dolorosa, più per me che per lei.

Mi sentii inutile. Nella mia esistenza mi ero prefissato un solo obiettivo da seguire e avevo fallito. Come normale che fosse. Non ero mai riuscito a concludere niente di sensato. Qualunque cosa che venisse in contatto con me, cadeva distrutta. Ero peggio di un uragano.

I miei pensieri correvano insensati nella mia mente. Per lo più riguardavano il futuro e la salute di Alice. Avevo fatto bene a lasciarla sola adesso? In balia del futuro e della morte? Non ne ero convinto. Scossi convinto la testa per cercare di allontanare tutte quelle domande e i relativi sensi di colpa che cominciavano a combattere dentro di me.

In quei momenti c’era solo una cosa che mi avrebbe tirato su il morale: cacciare.

Almeno in quei pochi momenti la ragione veniva accantonata in un angolo remoto della mia mente e così avrei potuto evitare di pensare a ciò che avevo fatto. Avrei evitato di pensare e tutti i miei problemi sarebbero risultati bazzecole.

Aumentai la velocità con cui i miei piedi si alternavano sul terreno facendo spaziare la mente tra i colori, le ombre e gli odori che stanziavano tra le fitte chiome degli alberi.

Arrivai al limitare del boschetto, dove la fitta vegetazione si trasformava nelle antiche mattonelle che formavano la strada e il marciapiede. Mi strinsi nella giacca e cominciai a camminare a passo d’uomo verso quello che sarebbe stato il mio pasto. Camminavo per le strade buie e desolate di quel piccolo paesino, tenendo controllato ogni movimento delle poche persone che camminavano traballanti attraverso i vicoletti e di quelle che sentivo parlottare attraverso i muri delle case che si affacciavano sulla via.

Attraversai la strada e mi ritrovai nel vicoletto dove di solito gli ubriaconi si appartavano per trovare un po’ di tranquillità per riuscire a far passare la sbornia, dove, solitamente, mi nutrivo. Mi guardai intorno in cerca della sfortunata persona a cui avrei dovuto portare la morte. Vagai silenzioso come una folata di neve tra i corpi addormentati di quegli uomini. Mi domandai perché riponevano le loro prospettive di vita in una buona bottiglia di vino. Prima o poi questa sarebbe finita. E cosa avrebbero fatto, allora? Ne avrebbero comprata un’altra? E dopo di quella? 

Pensai che non dovesse esserci molta differenza tra me e loro: loro condividevano le gioie della vita, per quanto precarie potessero essere, in un buon vino, io le condividevo con l’instabilità umana. Per me gioire era come una scommessa ippica: una volta esci vincitore, l’altra ne esci perdente. Loro non vivevano, sopravvivevano. E io? Io ero in balia tra la vita e la morte. Avevo smesso di vivere davvero molti anni prima. Per loro, invece, una soluzione c’era: la vita riserva sempre uno sprazzo di felicità, perché non se la godevano? Perché non si rendevano conto che la vita riservava qualcosa di più che l’addormentarsi ubriaco su un marciapiede?

Intuii che loro non potevano capire: ti rendi conto di quanto la vita sia importante solo quando la perdi o rischi di rimanerne senza. Ma era davvero giusto lasciare che la vita ti scivolasse addosso così come l’alcool scivolava nella loro gola mentre altri desideravano vivere umanamente più di ogni altra cosa?

Strinsi i denti e afferrai per un braccio un uomo mezzo addormentato. Esitai guardando la figura di quello sconosciuto e pensando a quanto avrei voluto avere una vita, una vita vera da essere umano, come la sua. Questo si svegliò un poco; sbatté le palpebre, rintronato cercando di capire dove fosse.

-Scusa- gli sussurrai poco prima di avventarmi famelico su di lui. Non urlò nemmeno: sentii il suo corpo irrigidire quando le mie labbra gli sfiorarono la pelle raggrinzita dell’avambraccio e, poco dopo, il suo corpo cadde smorto tra le mie braccia. Lo riposi a terra coprendolo con dei cartoni.

Mi allontanai in cerca di qualcun altro con cui fare banchetto. Uscii da quel vicolo e mi diressi verso qualche altro obiettivo sconosciuto.

D’un tratto sentii delle voci sconosciute ma che parlavano di qualcosa a me molto vicino.

-Hai saputo cosa è successo alla famiglia Brandon, Sophie?- chiese una voce femminile bassa e affaticata.

-Sì, Rosaleen, l’ho saputo da Marylin questa mattina. Ha detto che era stata dal dottor Scott e che la sua infermiera le ha raccontato tutta la storia. Che situazione…- rispose una seconda voce sempre femminile solo più aggraziata e acuta.

Le voci provenivano dalla piccola sartoria sulla strada. Mi affacciai ai vetri impolverati e guardai dentro. Due donne, un’anziana l’altra decisamente più giovane, spettegolavano tra i vari tessuti e pizzi che traboccavano dagli scaffali.

-Davvero! Io lo continuavo a dire a Margaret che avrebbe dovuto mettere una buona parola sulla sua famiglia davanti a Dio. La pregavo di venire con me a ogni messa. Lei non mi ha ascoltato ed ora ecco con cosa si ritrova: due membri della sua famiglia che stanno per andarsene, una casa da curare, i debiti da pagare. Come minimo dovrà far sposare Cynthia al principe d’Inghilterra!- commentò acida la più anziana che stava seduta su uno sgabello, ricamando all’uncinetto.

-Pensa che l’infermiera mi ha raccontato che nemmeno il dottor Scott riesce a fare qualcosa perché qualsiasi cura costerebbe troppo per la famiglia e non vuole aggravare l’economia famigliare. Inoltre pensa se il povero Christopher dovesse morire: rimarrebbero senza denaro e sarebbero costrette a vivere in mezzo a una strada. Per non parlare poi di tutto il loro onore…- aggiunse la più giovane che stava tagliando un pezzo di stoffa rosa pastello.

-Io, i miei figli, li ho fatti crescere con una buona base religiosa. Sono sempre stati sani e hanno studiato in una scuola cattolica. Ed ora sono entrambi sposati con donne d’alto rango, hanno dei figli stupendi e un lavoro più che dignitoso. La giustizia divina non si è mai abbattuta sulla mia famiglia perché sono sempre rimasta fedele al Signore a differenza della loro sgangherata famiglia!- esclamò Rosaleen, l’anziana, con indignazione.

-Infondo, però, sono stati anche loro una famiglia felice in passato…- fece notare la più giovane che, nel frattempo, aveva cominciato a lavorare sopra uno dei numerosi manichini che la circondavano.

-Sì, finche a Christopher non è venuto in mente di diventare socio di una società. Allora, quando questa chiuse per bancarotta, lui si trovò senza un quattrino in tasca. Io lo dicevo, lo dicevo che un minatore non può diventare imprenditore da un giorno con l’altro!- spiegò, continuando ad armeggiare con il piccolo uncinetto argentato che teneva tra le dita raggrinzite.

Ero stupefatto. La famiglia di Alice aveva gravi difficoltà economiche? Non riuscii nemmeno ad immaginarlo. Prima di tutto quel disastro, Alice portava abiti ricamati molto eleganti che, di certo, non parevano scadenti.

-Sai che i Davinson se ne sono andati dalla città?- rivelò Rosaleen.  

-Sul serio?! E come mai?- chiese incuriosita dalla nuova storia Sophie, la più giovane.

-Già; prevedono che quest’anno l’influenza sarà più forte del previsto e allora si sono trasferiti in campagna da dei parenti. Prima hanno mandato i figli e poi li hanno raggiunti- raccontò.

-Ho sentito anche io che l’influenza sarà più forte. Anche gli Sherman se ne sono andati per lo stesso motivo. Io e John siamo preoccupati: abbiamo tre figli piccoli e non voglio far correre loro rischi inutili. Probabilmente ci trasferiremo anche noi…- confessò Sophie.

Rosaleen la guardò sbigottita. -Bhe, ormai io non ho nulla da perdere. E comunque, non ho paura! Sono nata qui e rimarrò qui finché il parroco non mi darà l’estrema unzione!- urlò, sventolando il complicato intreccio di fili a cui stava lavorando.  

Ci fu una lunga pausa in cui ciascuna donna si dedicò al lavoro assegnatole. Rosaleen tossicchiò. Sophie, con gli spilli in mano, completò l’orlo del vestito.  

-Cosa pensi che facciano ora, Rosaleen? I Brandon, intendo…- chiese con evidente preoccupazione la giovane che ora ricamava un vestitino violetto.

-Secondo me, è meglio che si trovino un buon parroco per il funerale. Nulla di più- sentenziò Rosaleen.

-Sono in pena per loro. Sono dei miei cari amici e non voglio perderli, nonostante tutte le cose indegne che hanno fatto- spiegò mormorando, abbassando lo sguardo.

-Sophie, non sono cose che ti riguardano, quelle. Pensa alla tua famiglia, ai tuoi figli, al viaggio che state per compiere tutti insieme. Quelle sono persone che non hanno bisogno della nostra compassione: ognuno guida la vita a modo proprio e loro lo hanno fatto male. Vieni, andiamo, si è fatto tardi. Ti aiuterò io stessa a preparare le valige così che possiate prendervi cura dei vostri figli come si deve. Vieni, andiamo- la rassicurò Rosaleen, prendendole le mani nelle sue. Detto questo Sophie spense la lampada a olio posata sul bancone di lavoro e si diresse insieme alla figura ingobbita di Rosaleen verso la porta sul retro.

Io rimasi davanti alla vetrina buia per qualche minuto tentando di rimettere in ordine i pensieri e le informazioni che le due donne mi avevano indirettamente rivelato.

Se la situazione per la famiglia di Alice era veramente così disastrosa anche le poche speranze che avevo accumulato sarebbero andate in fumo. Non avevano i soldi per pagare le cure…

I miei occhi cominciarono a pungere come se mille e più spilli tentassero di perforarli.

Mi lasciai scivolare contro la parete, inerme come lo ero stato quel pomeriggio.

Se…Se non fossero riusciti a pagare le cure…sarebbero morti. Entrambi. Padre e figlia. La morte per loro era un fatto più che chiaro, ora. Non una vaga possibilità resa più reale dalla preoccupazione. Era lì. La vedevo alitare sul loro collo, aspettando che la malattia prendesse il sopravvento così da riuscire a portarli via.

Non potevo permetterlo. Non importava cosa avevo promesso poche ore prima; non valeva più. Avrei fatto di tutto per riuscire a salvarli e questa volta non mi sarei tenuto dietro le quinte: sarei stato lì quando la febbre di Alice si sarebbe fatta più forte, sarei stato lì quando il padre avrebbe avuto bisogno di un'altra bacinella d’acqua fresca. Li avrei aiutati in prima persona.

Mi alzai in piedi, forte e deciso come non mai. Mi voltai e velocemente ripercorsi la strada a ritroso fino ad arrivare alle porte del bosco. Lì, mi misi a correre. Non c’era tempo da perdere.

 

   
 
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