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Autore: baby80    06/09/2010    14 recensioni
La storia dei nostri amati Oscar e André attraverso lo sguardo di un personaggio delicato e silenzioso, che ci mostrerà tutto quello che non è stato detto e non è stato visto, tutte quelle parole e quei gesti che sono rimasti celati dietro ad un'ombra...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È sera a palazzo Jarjayes, siedo sul letto ed ascolto il silenzio della notte, rotto, di tanto in tanto da suoni ogni volta differenti.
La notte ha il potere di calmare i turbamenti della giornata, accogliendomi in un mondo che mi somiglia, fatto di ombre e pensieri segreti, colmo di parole rimaste in sospeso tra la mente e la lingua, un universo che pare dormiente agli animi poco attenti, e che invece, al contrario, ha in sé il il fuoco della vita.
La notte nasconde il rossore dalle gote delle vergini, così come, allo stesso modo le ombre rendono impavidi coloro che, alla luce del sole, tremano al sol pronunciando il proprio nome.
Con le tenebre si può divenire ciò che si vuole, se stessi, o qualcun altro, tutto è permesso dinnanzi alla luna.
Ed io posso essere me stessa solo quando l'oscurità avvolge ogni cosa, solo in queste ore mi è permesso d'essere Anais, solo Anais, così dissimile dalla povera ragazza muta.
È ormai notte in questa stanza che è divenuta il mio rifugio, un piccolo mondo dentro il quale vivere ciò che non mi è concesso durante il giorno.
Una stanza, la mia vita.
Ricordo come fosse oggi il giorno in cui misi piede in questo luogo, in questa camera, ricordo ancora chiaramente la mia prima sera in questa grande casa, il buio, i silenzi spezzati da suoni sconosciuti, e la paura di venir inghiottita dall'oscurità.
Arrivai a palazzo Jarjayes che avevo da poco compiuto 10 anni.
Mia madre mi lasciò una mattina di novembre, la trovai seduta al tavolo della cucina con la testa abbassata, per un istante pensai che si fosse appisolata, ma quando mi avvicinai posando una mano sulla sua, la sentii fredda, le scostai una ciocca di capelli scuri e ciò che mi si parò dinnanzi fu qualcosa che mai riuscirò a dimenticare.
Cercai in tutti i modi di svegliarla, di riportarla da me, ma non bastarono i colpi che le diedi alle braccia, così d'istinto la mia bocca si dischiuse, ma non emise alcun suono, tentai di urlare, cercai con tutte le mie forze di trovare quella voce che non ho mai udito ma ogni sforzo fu vano.
Corsi fuori casa, corsi per strada in cerca di un viso noto e quando lo trovai mi aggrappai alle sue sottane, implorando con gli occhi, e con la forza delle mie braccia, un aiuto.
Quanti rimproveri mi furono rivolti, e quanti schiaffi, nessuno capiva cosa realmente stesse accadendo, pensarono agli insoliti capricci di una bambina ritardata, quando invece erano l'urlo disperato di una creatura terrorizzata.
Mia madre morì di crepacuore, a causa della malnutrizione e del troppo lavoro, questo mi venne detto dal medico del quartiere.
Quello che invece mi dissero i sussurri e le confidente mal celate al di là degli usci, fu che lei, mia madre, morì per causa mia, per il dispiacere che solo una “croce” come me può provocare.
Non piansi mai. Non piansi la sua mancanza per un anno intero, e per questo fui additata e guardata con disprezzo e compassione.
Poi un giorno successe, all'improvviso, senza il benché minimo sentore, piansi.
Bastò un lieve pensiero, il banale ricordo del suo profumo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime e non li abbandonarono per ore ed ore.
Rimasi sola al mondo, mio padre ci abbandonò pochi mesi dopo la mia nascita e non si seppe più nulla di lui. Non conosco con certezza il motivo che lo spinse ad andarsene, ma non mi fu difficile intuirlo col trascorrere degli anni, era chiaro che non riuscì a sopportare il peso di una figlia malata.
Non udii mai mia madre parlare male di lui, al contrario, spesso mi raccontava di quel padre che mi aveva desiderata con tutto il cuore.
Per quanto mi riguarda non provo odio nei sui riguardi, e neppure amore, ho imparato a vivere senza una figura maschile al mio fianco ed è normale, credo, non sentire la mancanza di qualcosa che non si conosce.
Per qualche giorno, dopo la morte di mia madre, rimasi a casa di alcune vicine, ma ben presto mi resi conto che la mia presenza non era gradita, ero consapevole che vivere con me fosse difficile ma cercai di comportarmi sempre nei migliore dei modi, ma anche un tranquillo fiumiciattolo, apparentemente innocuo, se provocato dai forti acquazzoni può divenire feroce e distruttivo, così io, nel medesimo modo, divenni intollerante e spietata con coloro che ebbero per me solo maldicenze e cattiverie.
In quei giorni pensai di scappare, trascorrevo ore ad imbastire un modo per allontanarmi dalle dimore che mi ospitavano, fino a quando arrivò lei, Nanny.
Mia madre e Nanny erano grandi amiche, legate da un affetto profondo, prestarono servizio presso gli stessi padroni, molti anni prima ch'io venissi al mondo, e da quel momento non persero mai i contatti.
Nanny fu la mia liberazione, mi trascinò via da quelle persone che lei stessa definì “esseri senza dio, incapaci perfino di accudire delle bestie”, se avessi potuto sorridere con quella voce che mi è stata negata, lo avrei fatto, ma lo fecero i miei occhi, e le mie labbra, al suo posto.
Giungemmo a palazzo Jarjayes che era ormai già tarda sera, durante il viaggio mi fu spiegato che avrei dovuto lavorare come cameriera nella casa di un nobile, un generale, ma sopratutto mi fu raccomandato d'essere diligente e volenterosa, più di qualsiasi altro servo.
Posso vedere ancor oggi lo sguardo di Nanny dinnanzi al mio.
Mi prese il viso tra le mani e mi disse.

“Ascoltami attentamente bambina, tu dovrai lavorare più di chiunque altro, io stessa dovrò essere dura con te, più che con qualsiasi altra persona. Dovrai dimostrare al padrone d'essere in grado di svolgere il lavoro che ti è stato assegnato, e agli altri servi che non hai nulla di meno rispetto a loro.
Perché la tua malattia verrà sempre prima di te, e tu dovrai essere più veloce, più forte, dovrai provare che questa tua condizione non sarà d'intralcio al tuo lavoro. Sono stata chiara, tesoro?”

Annuii con convinzione, poco prima di perdermi nell'abbraccio di Nanny, ma compresi solo una minima parte della parole appena udite. Perché mai avrei dovuto lavorare il doppio degli altri? Solamente perché non vi era parola nella mia bocca? Possedevo braccia e gambe, come ogni individuo, ed il mio silenzio non avrebbe indebolito i miei arti, allora perché avrei dovuto sgobbare come un mulo per dimostrare ciò che in realtà non avrei dovuto dimostrare?
Dimenticai quella conversazione, quasi subito, persa nella magnificenza della dimora che mi si presentò davanti agli occhi.
Sentii parlare spesso della Reggia di Versailles e, per quel che ne potevo saper io, poteva essere benissimo quella dentro la quale mi stavo incamminando.
Vi erano saloni immensi, scale interminabili e lampadari che parevano gioielli, non ch'io ne avessi mai visti, ma immaginai fossero fatti sicuramente di quella foggia.
Col naso all'insù rimasi immobile al centro del salone, cogliendo ogni piccolo particolare del soffitto dipinto in un modo che mi lasciò senza fiato, e quasi non mi accorsi del giungere di Nanny, ricordo solo, come fosse ora, il ticchettio cadenzato di tacchi sul pavimento.

“E' dunque questa la bambina?”
una voce forte, chiara e decisa mi distolse dai miei pensieri.
“Si, Signor Generale. Lei è Anais.”
Nanny mi diede un lieve colpetto tra le costole, invitandomi, senza parole, a porgere i miei saluti al padrone del palazzo.
Mi inchinai dinnanzi ad un uomo altissimo, con un paio di occhi azzurri che tanto mi ricordavano l'azzurro del cielo in una giornata priva di nuvole.
“Dunque, è muta?”
“Si signor Generale, ma...”
“Ma...? Non sarà per caso tarda? Sei sicura che sarà in grado di svolgere le mansioni che le verranno assegnate? Sembra così... fragile.”
Disse l'uomo stringendomi un braccio nella sua grande mano.
“Oh no, glielo assicuro Signor Generale! Ha avuto la disgrazia di nascere muta ma per il resto è perfettamente sana, comprende qualsiasi cosa! E vi assicuro che è forte, non fatevi ingannare dal suo aspetto, ha gambe sane, di polpa forte.”
Nanny cercò di convincere il padrone tastandomi la coscia, al di sotto della mia sottana.
Il Generale alzo un sopracciglio, si passò un dito sulle labbra e finalmente pronunziò il suo verdetto.

“E va bene, da domani prenderà servizio, ma alla prima difficoltà la riporterai da dove è venuta, senza discutere! Ora portala nelle cucine, dalle da mangiare e sistemala in una delle stanze della servitù.”
Ascoltai distrattamente il dialogo tra Nanny ed il Generale Jarjayes, vi era qualcosa di più interessante che attirò la mia attenzione.
Nascosti nel buio del sottoscala vidi muoversi delle figure indefinite, a cui cercai di dare un senso, allontanandomi di qualche passo, e fu in quell'istante che, i due fantasmi, sgattaiolarono oltre l'ombra, per poi dirigersi verso un lungo corridoio, celandosi nuovamente dentro la notte.
Rimasi a bocca aperta, confusa, spostai lo sguardo da Nanny al Generale, e mi stupii nel rendermi conto che nessuno si era accorto delle due presenze sbucate dal nulla.
Vidi ciò che nessuno vedeva. Fu quello, l'inizio di ciò che ora è una consuetudine, nella mia vita.
Quella sera vidi due bambini correre a piedi scalzi, tenendosi per mano, con un sorriso complice sulle labbra e la tensione per quelle risate che riuscivano a trattenere a stento.
Il bambino che immaginai essere il più grande, aveva i capelli scuri, racchiusi in un nastro azzurro, mentre l'altro, il più piccolo, quello che con molta probabilità doveva avere la mia stessa età, possedeva dei meravigliosi boccoli biondi.
Li seguii con lo sguardo fino a che potei scorgerli, e non potei smettere di pensare a loro quando Nanny mi condusse nelle cucine e poi, più tardi, in quella che divenne la mia stanza.
Mi fu data una piccola camera, che avrei occupato io solamente, perché così fu deciso, era chiaro che nessuno avrebbe mai accettato di dividere la stanza con una ritardata.
Rammento il silenzio assordante di quella notte e il gelo che riuscì a penetrare tra le lenzuola, nonostante le pesanti coperte che mi ricoprivano il corpo.
Chiusi gli occhi, fin quasi a strizzarli, fin quasi a farmi male, impedendomi di piangere mentre pensavo a mia madre, poi, improvvisamente udii qualcosa, un suono che mi spaventò da principio, un suono che mi calmò, quando compresi che si trattava di piccole e lievi risate.
Mi alzai dal letto e posai i palmi della mani contro il muro, e feci lo stesso col mio orecchio, trattenni il respiro per ascoltare più attentamente e mi fu facile sorridere quando udii risate e parole incomprensibili, al di là della parete.
Ero ancora spaventata, ma quei piccoli fantasmi riuscirono a donarmi un senso di pace.
Mi addormentai con la convinzione di aver scoperto un mondo nascosto.
Ero pronta ad affrontare una nuova vita.

Sono passati parecchi anni da quel giorno, e col tempo scoprii che quei bambini altro non erano che la figlia del Generale, Oscar Francoise de Jarjayes, e André, il nipote di Nanny.
Vi sono giorni in cui, ancora oggi, poso il mio orecchio alla parete, al di là di questo muro dove vi è la stanza di André.
Col passare del tempo ho imparato a convivere con il silenzio di questi luoghi, e con quei rumori che, di tanto in tanto, spezzano la quiete.
Ho udito pianti, urla, risate, grida di piacere, ogni genere di suono che ha accompagnato, o impedito, il mio sonno.
Questa notte, come allora, il gelo è riuscito a infilarsi al di sotto delle coperte, e come allora socchiudo gli occhi, per udire meglio quel mondo nascosto.
  
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