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Autore: Ghen    16/09/2010    1 recensioni
Katia odia la natura e preferisce lo smog di città. Collegato ai suoi genitori che sono restati in città per divorziare, mentre lei viene spedita dai nonni in montagna. Laggiù però fa amicizia con una strana e particolare bambina, cercando nel mondo di lei dove nascondersi, capirà che forse dopotutto non è il posto più adatto a lei...
[Ha partecipato al contest di Eylis "[Original Concorso 6] La Foresta e... la Bambina"]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Odiavo la montagna, e odiavo i miei nonni che vi ci abitavano.

Odiavo l’aria che si respirava che quasi preferivo quella dello smog da città.
Odiavo i fiorellini, odiavo lo stagno con i pesci, odiavo gli insetti, e odiavo poter vedere l’arcobaleno che si formava dopo la pioggia, in quel cielo senza grattacieli.
Odiavo tutto di quel posto, tutto ciò che mi circondava.
Avevo nove anni quando i miei genitori mi affidarono ai nonni, e quel posto che tanto amavo durante le vacanze si era improvvisamente trasformato in quello che più potevo odiare. Ma potevo essere compatita, dopotutto, se si considerava che quel posto era diventato il luogo dove confinarmi quando i miei genitori, in città, potevano da soli tra un litigio e l’altro firmare le carte del loro divorzio.

 

 
Little Fairy Blossom
 
Mi svegliò il cinguettio degli uccellini invece che la sveglia di mia madre alle sei e mezza del mattino, per prepararsi e correre in ufficio. Prima non sopportavo quella sveglia, ma in quel momento mi mancava.
Rimasi a fissare il vuoto, coricata nel letto per un po’ prima di alzarmi, ancora in pigiama, e andare lentamente verso il bagno, prima di accorgermi che era occupato. Non bussai neppure, vedevo attraverso lo spiraglio della porta mio nonno allo specchio che si faceva la barba, così scesi le scale.
«Kati! Sarei venuta io a svegliarti fra poco, ma dato che sei in piedi, ti preparo la colazione…».
Mia nonna era così felice tanto da irritarmi. Sì, mi dava fastidio il suo modo di fare, come se non stesse accadendo niente di particolare, una vacanza come tante altre. Avrei voluto urlare ad ogni suo sorriso o risata per farla smettere, e non sapevo neppure io perché in verità non lo facessi.
«Non ho molta fame…», sibilai mentre afferravo il telecomando, gettandomi a capofitto sul divano.
«Katia, devi mangiare! La colazione è il pasto più importante della giornata, non lo sai?».
Eccome se lo sapevo, mia madre me lo ripeteva ogni mattina da quando avevo imparato a parlare, e in quel momento capii da chi aveva preso.
«Devi mangiare qualcosina, non puoi andare a giocare fuori senza niente sullo stomaco!».
La vedevo con la coda dell’occhio mettermi dei biscotti su un fazzoletto di carta, sul tavolo, mentre cambiavo canale per cercare i cartoni animati del mattino. Le tartarughe ninja, non ne andavo matta, ma ormai lo stavo seguendo.
«Non devo andare fuori a giocare, tanto!», mi strinsi ad un cuscino, mettendomi più comoda.
La vidi sbuffare. Se non avevo voglia di andare a giocare non poteva obbligarmi. Ero lì da appena tre giorni – anche se mi sembrava già passato un mese o forse più – e non ero ancora uscita da quelle mura: in vacanza invece non restavo a casa molto tempo che subito uscivo a giocare con i bambini delle case vicine, o a cercare lumachine dopo la pioggia, o a raccogliere fiori, o a controllare come nuotavano i pesci nello stagno, oppure ancora a vedere se trovavo qualche nuova ranocchia; era sicuramente questo che innervosiva mia nonna, il fatto di non vedermi comportare come sempre.
«Ieri sera è passata Jessica a casa… Te la ricordi Jessica? L’anno scorso avete giocato sempre insieme. E’ venuta perché ha saputo che sei tornata e voleva giocare ancora con te…».
«Non è vero che è passata Jessica! Io non l’ho sentita!».
«Sì che è passata…», continuava cercando di convincermi. «Vero, Earl, che è passata Jessica ieri sera?».
Vidi mio nonno scendere le scale, tastandosi il mento appena rasato. «Ah? Sì!», rispose.
«Tua nipote non ci vuole credere… Visto, cosa ti dicevo?», si rivolse ancora una volta a me.
Si vedeva benissimo che non era vero, non era passata nessuna Jessica il giorno prima. Come prima cosa, l’avrei vista passeggiare verso casa dei nonni considerando la sua casa era di fronte alla mia finestra ed io ci ero restata appiccicata tutto il giorno; e come seconda cosa, credevo di essere ormai abbastanza grande da non cascarci più nelle loro bugie formato bambino.
Probabilmente era il cattivo umore che mi faceva essere più sospettosa e puntigliosa del solito.
«Non è vero, ne sono sicura! Io non l’ho né vista né sentita! Se è venuta perché non mi hai chiamato?».
Sì, ero decisamente puntigliosa.
«Perché dicevi che non avevi voglia di uscire, ma oggi vai da lei e andate a giocare, va bene? Adesso mangia!».
Che modo quasi astuto di convincermi a mangiare e ad uscire a giocare, ed io, come avrebbe fatto chiunque al mio posto e a quell’età, anche se sbuffando, mi alzai per sedermi a tavola a mangiare quei biscotti, accompagnati da una tazza di latte fumante.
 
 
Uscii con mio nonno che doveva andare a tagliare la legna per il fuoco e lo lasciai per correre a casa di Jessica. Non avevo voglia di giocare, ma volevo rivederla, dato che poteva essere mia amica solo d’estate, mi dicevo a quel tempo.
Salii lo scalino vicino alla porta e mi allungai per arrivare al campanello.
Udii la corsa inconfondibile di Jessica venire verso la porta, che ogni volta che si suonava il campanello doveva essere la prima a vedere chi era. E ancora prima che la porta si aprisse sentii le sue grida di gioia, pronta per far scattare la serratura: doveva aver visto la mia sagoma attraverso le tende alle finestre della porta.
«Katiii!», mi abbracciò. Era felicissima, ma la sua felicità non mi dava fastidio: lei non sapeva il perché doveva invece essere triste, al contrario di mia nonna.
«Jessi, chi è?».
«Mamma, è Katia! Guarda!».
Mi mostrava a lei come si mostra un trofeo, faceva sempre così.
«Oh, ciao, Katia! Quando sei tornata?», si avvicinò anche lei sorridente.
Quanto avrei voluto aggiungere alla mia risposta un bel purtroppo.
«Qualche giorno fa!».
Doveva aver notato nel mio tono di voce che c’era qualcosa di diverso, perché corrugò le sopracciglia per un attimo, prima di sorridere ancora.
«Mamma, posso andare fuori a giocare con Kati?».
«No, Jessica, finisci i compiti prima, che domani c’è scuola!».
«Ma sono troppi, non mi resta il tempo poi per uscire!».
«Appunto che sono troppi… Fila!», le indicò il tavolo del soggiorno, dove intravidi dalla porta lo zaino aperto sulle spalle della sedia.
Questa era la sfortuna di non poterla vedere d’inverno: la scuola. La mamma aveva detto alla mia che avrei saltato dei giorni per problemi familiari, ma Jessica e gli altri bambini continuavano ad andarci, invece.
Dopo la salutai e decisi di farmi una passeggiata per conto mio.
 
Non ero mai andata a fare una passeggiata da sola per la foresta. Solitamente restavo vicino a casa, senza allontanarmi molto dal paese, ma quella volta, senza pensarci m’infilai fra gli alberi per andare chissà dove. I miei nonni pensavano che fossi con Jessica ed io invece, nella mia testa pensavo di ritrovarmi a casa.
Avrei girato un angolo e mi sarei ritrovata di fronte i grandi palazzi, e quando mi sarei voltata indietro, avrei visto invece che quella foresta era nientemeno che il parco davanti casa.
Pensavo che sarebbe successo davvero, e aspettavo solo di trovare l’angolo giusto.
 
«Sei sola?».
 
Quando udii quella voce lontana chiedermi se ero sola, mi spaventai non poco. Mi voltai, credendo di poter vedere dietro di me chissà chi, e invece non c’era nessuno.
Nessuno.
 
«Sei sola?».
 
Continuai a sentirla e mi salirono i brividi.
In quel periodo mandavano alla tv una serie di telefilm che trattavano di fantasmi e creature della notte, e la guardavo con i miei genitori, che tanto non mi faceva paura, sapevo che era tutto finzione, eppure, in quel momento, pensai di ritrovarmi in uno di quegli episodi.
 
«Sei sola? Non girare da sola per la foresta, è pericoloso!».
 
«Chi sei?».
Ci provai a chiedere chi era, eppure mi sentivo tanto vicina a questa come lontana. Non sembrava volermi rispondere.
 
«Torna a casa! La foresta non fa per te! Torna a casa!».
 
Impaurita cominciai a correre, sperando di seminare quella voce, ma più correvo e più mi sembrava di averla vicina, quasi addosso.
 
«Non andare per di là! Fermati! Non correre, ho detto di fermarti!».
 
Più però sentivo quella voce e più forte correvo, senza rendermi conto che mi ero allontanata fin troppo da casa dei nonni.
 
«Ho detto di fermarti! Non farlo!».
 
Corsi, corsi ancora, senza neppure guardare dove mettevo i piedi. Rischiai di cadere tra i rametti e l’erba più volte, ma questo non riusciva a bloccarmi.
 
«Fermatiii!».
 
Mi urlò ed io mi voltai.
Vidi la punta degli alberi che scendeva e mi accorsi del piede messo male. Stavo cadendo. Sentii il senso di vuoto in un attimo. Se solo le avessi dato ascolto anziché scappare, non sarei caduta in un burrone, quella volta.
 
«Presa!».
 
Quando riaprii gli occhi continuavo a sentire quel senso di vuoto, che i miei piedi non toccavano terra, ma allo stesso tempo mi sembrava di galleggiare magicamente per aria. Vidi delle piccolissime luci colorate attorno al mio corpo, gialle, rosse, blu, verdi, arancioni, viola, ed erano bellissime. Mi sentii trascinare verso l’alto, fino a ritrovare il contatto con l’erba; e ad aspettarmi lì, davanti al dirupo, c’era lei: una bambina, poco più bassa di me, tutta ricoperta di foglie e con i lunghi capelli sul biondo sciolti, in mezzo ai fiorellini.
«Meno male che ti ho presa in tempo!», soffiò. «Perché non ti sei fermata quando te l’ho detto? Potevi morire!».
Le luci colorate svanirono dal mio corpo, come dissolte nell’aria, ed io le osservai rapita e affascinata.
«La foresta non è il posto per te!», continuò a dirmi lei. «Ti sei allontana un po’ troppo da casa tua! Tornaci subito!».
«Che cos’è successo?», domandai invece io, che ancora non mi sembrava vero di risentire sotto i piedi l’erba fresca di pioggia. «E tu chi sei? Eri tu quella che parlava prima?».
«Ma certo che ero io, sciocca! Oddio, mi sembra di vivere un incubo!».
Si passò una mano sul viso ma in quel momento non davo molta importanza alle sue espressioni, continuavo a squadrarla da testa a piedi come se davanti a me ci fosse un alieno anziché una bambina come me, perché in effetti il suo aspetto poteva solo farmi capire quanto era lontana dall’essere come me. E poi era molto carina, più di Jessica, che mi ripetevo sempre era la bambina più bella, che avevo desiderato per forza che fosse mia amica. 
«Dove ce li hai i vestiti?», domandai ad un certo punto, senza peli sulla lingua.
Me lo chiedevo da un po’, soprattutto considerando che non c’era per niente caldo nell’aria, essendo nel mese di ottobre. Io mi tenevo stretta alla mia giacchetta, lei alle foglie? Tremavo da parte sua. 
«Io non ho vestiti, che me ne faccio?», sbraitò come fosse la cosa più ovvia del mondo. «Per colpa tua potrei passare dei guai molto seri, lo sai? Se solo mi avessi dato ascolto, tutto questo non sarebbe successo!».
Iniziò a camminare per la foresta ed io, immediatamente la seguii, curiosa.
Che cosa era successo? Mi domandavo. Stavo per cadere da un dirupo e qualcosa di strano mi aveva salvato… Una magia? Era stata lei a fare la magia per salvarmi?
«Sei stata tu a salvarmi per non cadere? Hai fatto tu quella magia?».
«Svegliati! Certo che sono stata io! Se non ci fossi stata io a quest’ora saresti morta, sepolta, e dimenticata!».
«Allora grazie!», le feci dandole la mano per stringerla. La guardava però con un’espressione strana, come indecisa se stringerla o meno, oppure qualcos’altro, potrei forse definire in modo quasi disgustato.
«Ti ho salvata da morte certa e ora vuoi che ti stringa una mano? Non chiedermi troppo, sorellina, io non tocco gli umani! Ho già fatto abbastanza danni per oggi!».
 
«Umani?».
 
In quel momento ero quasi indecisa se scoppiare a ridere oppure non farlo. Ricordo che la fissai strabuzzando gli occhi, mantenendo un certo sorriso sulle labbra.
Anche un altro bambino una volta mi aveva detto una cosa del genere e in quel momento riaffiorai il ricordo: era il mio primo giorno in seconda elementare ed era arrivato un nuovo compagno di classe, per farci amicizia stavo andando a salutarlo quando ero inciampata e gli sbattei addosso, allora mi disse «Non toccarmi, non sei degna! Io non sono umano come voi, sono il principe dei vampiri!», qualche giorno dopo scoprimmo la sua passione per un cartone animato in cui dei vampiri erano i protagonisti.
Non pensava mica di prendermi in giro pure lei?! Mi dissi in quel momento.  
 
«Sì, fammi indovinare: tu sei la principessa dei vampiri?!», risi; mi sembrava una battuta divertente, ma lei non rise affatto.
«No, sono una ninfa…», mi rispose, continuando a camminare attraverso gli alberi della foresta.
Cos’era una ninfa? La sua risposta non faceva ridere, se era una battuta per rispondere alla mia aveva fallito di certo.
In quel momento però pensai che forse sapevo chi erano le ninfe: quegli esseri femminili che abitavano immerse nella natura, che dovevo aver letto da qualche parte, forse a scuola.
«Una ninfa?», mi accostai a lei. «Non fa ridere!», le ammisi.
«Perché, le ninfe devono per forza far ridere, secondo te?».
I suoi toni cominciavano a darmi fastidio. Sembrava proprio antipatica.
«Le ninfe no, la battuta dicevo…».
«Quale battuta? Io sono davvero una ninfa! Ecco perché mi sono cacciata in un guaio più grande di me, salvandoti: noi ninfe non possiamo, non dobbiamo, intervenire nelle faccende umane. Solo le grandi possono farlo, ma io sono ancora troppo piccola ed è proibito…».
«Proibito, eh?».
No, non mi aveva ancora convinta. Ero testarda e la mia fantasia era andata lentamente a perdersi da quando avevo scoperto che il caro e vecchio Babbo Natale non esisteva.
«Proibito, sì! Sei sorda?», quasi mi urlò nelle orecchie. «Mi avevano detto di stare lontano da voi ma io ho voluto disobbedire. Volevo aiutarti, perché la foresta è pericolosa per una bambina sola, invece ho finito per cacciarmi io nei guai… Stai lontana dagli umani, mi avevano detto. Stai lontana dagli umani, mi avevano detto.», continuava a ripetere come un disco rotto.
Per convincermi davvero che era quella che diceva di essere, in fondo, esisteva un solo modo. Credevo alla magia – e quella che mi aveva salvato dal dirupo poco prima era senza dubbio una magia –, quindi perché non credere alle ninfe. Il potere di una piccola ninfa mi aveva salvato.
«Sei una ninfa davvero?».
«Sìì! Come te lo devo dire? Eppure mi pare di stare parlando la tua stessa lingua, eh!».
«Fammi vedere!», le sorrisi. Cosa può fare una ninfa? Mi chiesi.
«Il tuo colore preferito è il giallo, vero?», mi domandò, senza rifletterci a lungo.
Che cosa c’entrava il mio colore preferito? E come faceva lei a saperlo?
Mise una mano dietro i miei capelli e subito ne tolse un piccolo fiore, veramente piccolino, naturalmente giallo, e tanto, veramente tanto bello. Il più bel fiore che io mai vidi in tutta la mia vita. Sembrava addirittura risplendere di luce propria.
«Tieni!», lo posò sulle mie mani, senza gambo, come se questo si fosse strappato con naturalezza, senza pressioni, in modo delicato. «Per te! Ora ci credi?», rise.
«Tu sei una maga…», dissi solamente, osservando quel piccolo fiore tra le mie mani.
Ero semplicemente affascinata. Niente di più, niente di meno.
«Io sono una ninfa!», mi sorrise, allungando le mani verso il cielo.
Fu in quel momento che l’intera foresta si riempì magicamente dei fiorellini gialli: dagli alberi che cominciavano a farne piovere, ai tronchi di questi, all’erba bagnata, mentre crescevano a vista d’occhio, riempiendo tutto quello che riuscivo a vedere intorno a me. Un paradiso di fiori gialli. Magnifico.
Non avevo parole per esprimere quello che in quel momento provavo. Restavo a bocca spalancata, sperando forse che questa parlasse abbastanza per me.
Perché ci provai a parlare, però…
«Tu sei la ninfa più maga che io conosca…».
Aveva senso quella frase?
La feci ridere e mi prese per mano, cominciando a correre insieme in mezzo alla pioggia di fiori gialli. Che spettacolo meraviglioso.
 
 
Quando rientrai a casa quella sera era già buio, nonostante fossero appena le sette e poco più. Ero abituata a quell’orario e a tornare a casa con la luce del sole che si stava poco a poco spegnendo, d’estate, e in quell’istante non potevo credere che il cielo si fosse già fatto così scuro.
«Kati!». Mia nonna mi strinse forte a sé come da tanto non faceva: l’avevo sicuramente fatta preoccupare un po’ troppo. «Ma ti sembra questa l’ora di tornare a casa? Tuo nonno è uscito a cercarvi! Jessica è tornata a casa?».
«Emh… Sì…».
Le avevo mentito. Più crescevo e più mi rendevo conto che dire bugie era la cosa più giusta, se era a fin di bene.
Mia madre e mio padre mi avevano sempre insegnato che dire bugie era sbagliato, ma loro stessi per primi mentivano di fronte ad una difficoltà. Mi ero sempre chiesta, in quel periodo, se imparare a dire bugie in fin di bene era diventare grandi. Non avevo trovato la risposta, però sapevo che era quello che dovevo fare: un po’ per paura, un po’ perché non potevo raccontare a nessuno di aver conosciuto una ninfa, e che era diventata mia amica.
«Mi chiamo Katia! Tu?».
«Sillybell!».
Avrei mantenuto nascosto a tutti la nostra amicizia, come mi aveva chiesto.
 
Mia nonna telefonò a mio nonno, che fortunatamente riuscì a capire come funzionava un cellulare – non era mai stato molto pratico e l’odiava quel maledetto aggeggio –, e tornò a casa fortunatamente proprio prima di passare a casa di Jessica. Era la mia paura in quel momento, e grazie al cielo ringraziai che non aveva fatto in tempo.
Quella sera mi sgridarono entrambi, ma in fondo sapevo che erano contenti, perché ero uscita di casa con un’amica, e mi ero divertita, anche se non dissi niente a loro della serata.
Avrei dovuto parlare con Jessica e dirle di mentire per me, o almeno quella era la mia idea di partenza. Avevo bisogno che i miei nonni non scoprissero che non ero con lei e che non ci sarei stata nei giorni successivi.
Mi svegliai molto presto la mattina seguente, e lavata e vestita, senza nemmeno far colazione, m’incamminai spedita a casa di Jessica. Purtroppo mi accorsi solo dopo esser quasi arrivata, dei bambini del vicinato che scendevano giù per il paese tutti insieme per la scuola. Troppo tardi.
A casa tornai sconfitta e feci colazione brontolando.
«Jessica va a scuola, non puoi giocare con lei la mattina…», mi disse la nonna, che stava già preparando il pranzo.
«Però esco lo stesso, voglio andare a raccogliere fiori…».
Un’altra bugia.
I fiori ci sarebbero certamente stati, ma il motivo per cui dovevo uscire si chiamava Sillybell, ed era una ninfa.
 
Entrai nella foresta di corsa e non mi era mai sembrata così magica. Non scorgevo Sillybell, eppure vedevo quella foresta con occhi nuovi.
«Sillybell!», la chiamai. «Sono io, Kati…». 
Feci qualche passo che vidi dei fiori gialli che si voltarono a me. Sì, si voltarono: prima erano con la testa voltati verso il cielo e poi tutti insieme si girarono, come per guardarmi.
Feci qualche altro passo e sentii qualcosa sfiorarmi la schiena.
Inutile dire che mi vennero i brividi, mentre lentamente mi voltavo per capire cosa era stato.
«Sillybell, sei tu?».
Alle mie spalle non c’era nessuno, solo il ramo di un albero.
Feci degli altri passi, forse un po’ più veloci, impauriti, quando un altro brivido ancora mi percorse la schiena: mi parve di veder un albero muoversi. Chinò i suoi rami e le sue foglie si mossero tutte insieme.
Sotto di me l’erba tremava anche senza vento.
Cosa stava succedendo?
 
«Eccoti, sei tornata!».
Sillybell apparve dal nulla, come dentro ad un cespuglio, e mi abbracciò.
«Perché quella faccia? Cos’hai?», mi domandò improvvisamente.
«Tutto si muove…», le dissi impaurita.
Si guardò intorno e poi si volse nuovamente a me.
«Anche ieri…», mi rispose subito. «Anche gli altri giorni prima, e ancora prima…», continuava. «Sono vivi, certo che si muovono! Respirano! Non senti il loro respiro?».
Lei chiuse gli occhi ed io la seguii, facendomi coccolare dal vento invisibile di era cui immerso quel posto.
Mi sentivo ancora una volta galleggiare per aria, libera. Sentivo il respiro degli alberi, dell’erba, dei fiori, quello di Sillybell, il mio, tutto quello che ci circondava. Sentivo gli animali: i bruchi che lenti strusciavano contro i tronchi degli alberi, gli scoiattoli che si procuravano il cibo, le farfalline che volavano leggiadre, sbattendo le loro piccole e graziose ali nell’aria, le formichine sull’erba ai miei piedi che camminavano svelte in fila per esplorare, tutte in gruppo.
Era un mondo pieno di vita.
«Cosa succede…?», chiesi al vento, lentamente. «Io non avevo mai sentito tutto questo…».
Era come aver scoperto come utilizzare i miei sensi. Mi sentivo appena nata, che avevo appena scoperto la vita.
«Io sono una ninfa, Kati…», mi sussurrò così lei. «Non sono umana, io sono come loro… Sono un fiore, una pianta, sono molto più simile a loro che a te… Forse è per questo. Tu vedi me, e riesci così a vedere loro…».
Era come se mi si fossero appena aperte delle porte sigillate a tutti gli uomini. Porte che ho aperto io stessa, senza saperlo, al fianco di Sillybell.
 
«Adesso sai cosa sono le ninfe, Kati, e puoi vedere…».
Mi trascinò nel cuore della foresta, e senza sapere come vidi i fiori sorridere, gli alberi inchinarsi a me con educazione, per fare la mia conoscenza, gli scoiattoli che si avvicinavano, sussurrandomi all’orecchia se avevo da mangiare per loro. Sillybell mi fece conoscere delle lepri, e quella sera strinsi addirittura amicizia con una colonia di formiche.
Gli alberi non potevano parlare, i fiori, le foglie d’erba come gli animali, non potevano, eppure sentivo la loro voce nella mente, dentro, e riuscivo a comunicare.
Con Sillybell mi arrampicai fino alla cima di uno degli alberi più alti, e felicissima mi sporsi ad osservare la casa dei nonni.
«Io abito lì!», le dissi indicando la casa. «Perché non vieni con me?».
«Con te? Nella tua casa?».
«Sì! Puoi venire, Sillybell? Ti faccio assaggiare la cucina di mia nonna, è brava, eh! Tanto basta dirle che sei una bambina del villaggio e ci crede!».
«Io non mangio il cibo degli uomini!».
«Cosa?».
Mi sorpresi. In effetti non avevo idea di cosa mangiassero le ninfe, avevo dato quasi per scontato il fatto che se somigliasse agli uomini mangiasse come noi.
«E cosa mangi?».
«Mangio il cibo delle ninfe e solo quello…», mi rispose.
Si fece più triste che scese anche a me la malinconia. Non ne sapevo la ragione, eppure non riuscii a fare altrimenti.
 
Tornai là la sera e Sillybell non si fece vedere.
Mi addormentai coccolata dal dolce fragore dei fiori e dal loro respiro puro, fino a che a tarda sera mi svegliai. Corsi veloce a casa, e anche se il buio era già calato mia nonna non mi sgridò.
«Ti sei divertita con Jessica?».
Triste non riuscii a risponderla. Non sarei riuscita a mentirle e la verità mi mancava, così me ne andai dritta per la mia stanza.
«Sillybell…», soffiai, guardando attraverso la finestra.
Non era venuta a salutarmi. Me ne domandai la ragione, ma non riuscivo a capire.
Tuttavia proprio quella notte, prima di andare a dormire, sentii bussare alla mia finestra. Mi avvicinai e la vidi, sul cornicione, piccola come li gnomi.
«Sillybell!». Ero così felice che aprii immediatamente, quasi senza neppure domandarmi del perché della sua inaspettata altezza. «Sei venuta a trovarmi?».
«Sst!», mi fece cenno di far piano. «Se vuoi posso restare un po’ qui…».
Dormimmo l’una al fianco dell’altra quella notte, sul mio letto. La scrutai addormentata, sfiorandola con la mia mano per lei in quel momento enorme, per accertarmi fosse vera, e poi mi addormentai felicissima.
 
Passarono i giorni e mattina e sera andavo là nella foresta, per giocare con lei, e quando si faceva sera tornavo a casa, per poi trovarla in camera mia, passata dalla finestra che tenevo sempre appositamente socchiusa, per dormire vicine l’una all’altra.
Non uscivo più a giocare con Jessica o con altri bambini, restavo a casa solo per mangiare e dormire, e ultimamente mi prendevo l’abitudine di saltare i pasti. Eravamo sempre più unite, che cominciavo a sperare di non rivederli più i miei genitori, che mi avrebbero portato via.
La foresta: era ormai quella la mia casa. E Sillybell era la mia famiglia.
 
Là nella foresta c’era tutto quello di cui avevo bisogno, così una sera, osservando il cielo farsi scuro, decisi di restare lì a dormire.
«Davvero vuoi dormire qui con me?».
Non l’avevo mai vista così felice.
«Sì, certo!».
Ci sdraiammo entrambe sull’erba, sopra i fiori che ci facevano da caldi cuscini.
«Oggi non diventi piccolina?», le chiesi.
«No… Non ne ho bisogno! Divento piccola solo quando sono fuori dalla foresta, perché non dovrei uscire…».
«Non dovresti?».
«Io sono parte della foresta, Kati… Stando troppo fuori potrei dissolvermi…».
«La foresta ti protegge?».
Forse cominciavo a capire, allora, o non ancora bene, cosa volesse dire essere una ninfa.
«Io proteggo la foresta e la foresta protegge me… Siamo una cosa sola…».
Continuava a sussurrarmi; forse si stava addormentando.
«Perché la prima volta che ci siamo incontrate avevi detto che la foresta era pericolosa?», domandai allora. Cosa c’era di pericoloso? Gli animali, gli alberi e i fiori, tutto laggiù era loro amico, perché allora era pericolosa?
«Non me lo ricordo…», chiuse gli occhi per addormentarsi, afferrandomi una mano.
Come potevo capire se si era veramente dimenticata oppure non era così? Che mi stesse mentendo? Avevo quella sensazione. Forse era però una bugia a fin di bene, mi dicevo allora, come quelle che dicevo alla nonna.
«Kati… Resti sempre con me?».  
«Va bene…».
 
Scappare di casa era quello che volevo, in fondo. Restare con Sillybell era l’unica cosa che desideravo.
Una risposta data dal sonno ad una domanda innocente, ma forse non era così.
 
Quando l’indomani mattina mi svegliai il mio corpo era un cubo di ghiaccio. Avevo freddo ovunque e Sillybell che mi abbracciava non la sentivo neppure.
La mia vista si era offuscata e quasi non riuscivo a muovermi. Era una delle sensazioni più brutte mai provate.
«Kati… Ti sei svegliata…», mi sorrise.
Che sorriso innocente il suo, pieno d’amore per me.
«Come ti senti?», mi domandò, toccando il mio volto spento e ghiacciato.
«Non lo so…», risposi.
Mi sentivo vuota, fredda, leggera. Mi sentivo male, ma non riuscivo a dirglielo, come bloccata dall’interno.
La bambina della foresta davanti a me poggiò una mano sull’erba, nel terreno, e sollevandola vidi che stringeva delle palline colorate.
Ne prese una con l’altra mano e svelta se la infilò in bocca.
«Che buona…».
Cos’era quello? Il cibo delle ninfe? Mi chiesi in quel momento.
«Vuoi?», me ne offrì una.
Rimasi a fissarla per brevi istanti, senza capirci niente. Il mio cervello era completamente svuotato.
Me la avvicinò alla bocca e la presi, senza pensarci, gettandomela in bocca.
Un sapore dolce m’involse appena la masticai, subito, riempiendomi la bocca di un succo paradisiaco. Mai avevo assaggiato tale prelibatezza in un sol piccolo boccone. In quel momento non sentivo più nulla, solo quel magnifico sapore nella mia bocca. Dolce, tanto dolce che i dolci umani non erano nulla a confronto, ma per niente pesante o nauseante, solo dolce e buono, tanto buono.  
«Ti piace?», udii la sua voce solo quando ebbi ingoiato ogni minimo spicchio di quella prelibatezza.
Allungai la mano involontariamente, d’istinto, verso la sua con le bacche, per prenderne un’altra, e un’altra ancora.
Lei però tirò la mano indietro, bloccandomi con l’altra.
«Che fai?». Sembrava quasi arrabbiata, con quell’espressione che appena riuscivo a vedere con i miei occhi sfocati. «Una al giorno, va bene?».
Sentivo la sua voce lontana, ciò che m’interessava erano solo quelle bacche.
«Una sola, ok? Hai capito?».
Sentivo di nuovo il sangue scorrermi vivo nelle vene, il mio petto che si riscaldava.
«Kati!».
Ma scocciata lei le gettò lontano, e la mia vista per poco non s’annebbiò del tutto.
La gettai a terra con tutta la forza che avevo in corpo, per precipitarmi là, dove aveva gettato quelle bacche tanto buone da sentirmi rinata. Non le vedevo, non le trovavo, ero disperata.
«Kati, smettila! Mi stai facendo paura!».
Si gettò a me per bloccarmi, ma io non riuscivo a stare ferma.
 
Ma cosa mi succedeva in quel momento?
Sentirsi vuota e al tempo stesso piena.
Morta e rinata.
Lentamente, sempre più un’altra.
Ancora oggi non so dire cosa stesse accadendo in quegli istanti, quando sentivo il mio cuore tanto forte da poter scoppiare.
 
«Sil! Chi è questa?».
Udii appena quella voce arrabbiata, chinata ancora com’ero a cercar le bacche precipitate sul terreno.
«Mai!», la sentivo piangere… Sillybell piangeva ed io la vedevo e sentivo appena. «Mai, aiutala, ti prego! Ho sbagliato io, Mai… Ha mangiato una bacca, non credevo che…».
«Non credevi che cosa, piccola sconsiderata?! E’ umana? Rispondimi: è umana? Tu hai dato da mangiare il nostro cibo ad un’umana?».
In quel momento mi sentii mancare. La frenesia mi abbandonò all’improvviso, completamente, e sentii di nuovo il mio corpo ghiacciato che cadeva sul terreno bagnato di pioggia. Vedevo male, sentivo peggio le voci che mi circondavano, mentre ancora meno sentivo la foresta intorno a me: non c’era più alcun respiro, più nessuna voce degli animali o delle piante, c’era solo il vuoto, e il mio respiro sempre più lento. Solo una cosa non riuscì a sfuggire alle mie orecchie in quell’attimo: la voce di quella donna nell’unica frase che mi arrivò…  
«Sta morendo…».
 
 
 
 
Sillybell…
Io volevo restare con lei.
Mollare tutto e stare nel magico mondo di quella foresta, con gli amici animali e i fiori gialli, dove nessuno mi avrebbe abbandonata. Dove non ci sarebbero stati i miei genitori che litigavano e divorziavano. Volevo un mondo per nascondermi dalla realtà e lo avevo trovato, senza rendermi però conto che questo mi stava trascinando via giorno dopo giorno. 
 
 
 
Quando mi svegliai mi ritrovai in un letto completamente bianco. La stoffa fredda era l’unica cosa che mi avvolgeva. La forte luce bianca mi fece spalancare gli occhi, ma solo dopo capii che non si trattava del paradiso, ma del sole fuori dalla finestra dell’ospedale.
Mia madre e mio padre vennero insieme a trovarmi, ma seppi che si erano separati del tutto, e che papà si stava trasferendo in un’altra casa. Ero tornata al mio mondo di sempre, quello dove non c’erano magici scoiattoli o alberi incantati, ma dove la natura era ben lontana, circondata dai grandi palazzi e dalle strade piene di smog.
Ero tornata al punto di partenza, dove volevo stare, eppure qualcosa mi mancava.
Mi rifugiavo al parco ogni giorno, ma nessuna ninfa veniva a salutarmi. Non sentivo più il respiro dei fiori e degli alberi; ero tornata quella di sempre, la Katia di prima.
Niente della me che aveva giocato con Sillybell era restato.
 
Tornai l’estate seguente dai nonni, e da sola, m’immersi nella foresta.
Mi voltavo osservando con occhi estranei quello che un tempo era. Non riconoscevo più niente di ciò che era stato.
«Sillybell…», soffiai.
Credevo di non poterla mai più rivedere. Ero già certa che tutto quel magico mondo che era stato in quel pizzico periodo della mia vita si trattasse solo di un sogno. Avevo passato mesi piangendo per convincermene, invece…
«Kati!».
Udii la sua voce portata dal vento e le lacrime mi bagnarono gli occhi.
«Sillybell, dove sei?».
«La foresta è pericolosa, torna a casa…».
«La foresta non è pericolosa! E’ mia amica! Tu sei mia amica!».
«Le ninfe sono pericolose, Kati… “Stai lontana dagli umani”…», ricordò a se stessa. «Avrei dovuto dare ascolto alle mie sorelle più grandi… Ti volevo per me, ma ti stavo strappando al tuo mondo. Hai capito perché la foresta è pericolosa, adesso?».
Continuavo a voltarmi lentamente avanti e indietro, sperando di vederla, ma era lontano da me, e allo stesso tempo vicina, la sua flebile voce.
«La foresta è pericolosa perché le ninfe fanno parte di lei… Vai a casa, Kati… Ti voglio bene…».
Fu l’ultima volta che la sentii.
 
 
Sillybell mi voleva per sé, come io volevo lei e il suo mondo per me.
Avevamo le stesse colpe.
 
Può nascere un’amicizia tra una bambina umana e una bambina ninfa?
Crescendo mi sono posta più volte questa domanda, e alla fine sono arrivata ad una conclusione, quando ad ogni estate andavo a trovarla nella foresta accanto alla casa dei nonni…
 
 
«Adesso andiamo, Jennyfer! Ti faccio conoscere una persona speciale!».
Le slaccio il seggiolino della macchina e la prendo in braccio, baciandole la testolina ancora tonda e con pochi capelli. Le misi il ciuccio, e camminando lentamente mi avvio alla vecchia casa dei nonni.
Il fiore giallo lo porto al petto come un fermaglio. Era un tuo regalo per me, vero Sillybell? Non si è mai smacchiato, fresco e puro come allora.
I miei cari nonni non ci sono più e la casa sono riuscita ad averla io, tra mille pratiche da firmare.
Entro per rivederla esattamente come un tempo, non era cambiato niente.
«Vedi, Jenny! Questa è la casa preferita della mamma!».
Uscendo rivedo casa della mia amica Jessica e saluto il suo figlioletto di due anni, per poi dirigermi verso la mia amata e magica foresta.
«Jennyfer, guarda! Questo è il posto più magico che esista al mondo! Ma bisogna stare attenti, è anche pericoloso…».
Sorrido, vedendo davanti a me, dal cuore della foresta e tra i raggi del sole, la piccola Sillybell ancora bambina correre, ridendo, per venirmi incontro.
«Kati!».

 
 
 
 
 
Fine
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Ho scritto questa piccola storiella mesi fa ma non mi ero decisa ancora a postarla. Non è nulla di eccezionale e ricordo di aver tagliato parecchio di ciò che in verità volevo scrivere; purtroppo non ho la costanza di riprenderla in mano, altrimenti l’avrei allungata con i pezzi mancanti…
 
Questa storia ha partecipato al contest di Eylis [Original Concorso 6] La Foresta e... la Bambina, ecco la targhetta:

 
 
  Un grazie di cuore anticipato a chi si è messo a leggerla, e a chi, nel caso, voglia commentarla ^^
 
 
Alla prossima,
ciao, ciao da Ghen =^____^=
 
 
   
 
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