Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    22/09/2010    2 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Maestà, è arrivato il momento».

È arrivato il momento...

Con un gesto quasi disperato, Nadia si aggrappò alle lenzuola, sollevandosi senza mai alzare lo sguardo verso la porta. Avrebbe tanto desiderato che quelle lenzuola madide le si avvolgessero al corpo, stringendola come in un sudario e sottraendola finalmente a tutto l'orrore che la circondava. Per un istante ci sperò quasi. Avrebbe aperto gli occhi, scoprendo così di essere sprofondata in un luogo caldo e buio, in cui il suo corpo poteva annullarsi nella privazione e il suo respiro farsi sempre più sottile, fino a scomparire anch'esso. Poteva immaginare tutto, di quel suo lento soffocamento: il suono del suo respiro strozzato, rimbombante nelle sue orecchie mentre si faceva sempre più debole, intanto che le forze la abbandonavano scivolando via dal suo corpo, come dissanguandolo. Ma alla fine, quando aprì gli occhi, ogni illusione svanì; e la realtà tornò a urlarle in faccia con la solita rabbia feroce.

Vincendo ogni resistenza, alla fine riuscì perfino a mettersi a sedere. La testa le girava, perché la notte prima non aveva quasi chiuso occhio; e poi continuava a tormentarsi le mani, che vedeva come imbrattate di una macchia che le procurava una nausea e un disgusto irrazionalmente profondi.

C'era davvero poco da sognare, in tutto quello.

«Maestà, tutto bene?»

Nadia alzò spento lo sguardo su Faloe.

«Sì» mormorò. «Sono pronta».

La voce le uscì come se non le appartenesse. Risuonò tra le pareti della stanzetta per poi ritornarle indietro distorta, quasi amplificata. Ne fu infastidita.

«Il Comandante vi sta attendendo sulla riva» fece Faloe, entrando. «Ha con sé la Pietra, ed è pronto a consegnarla nelle vostre mani...»

Faloe continuava a parlare, ma Nadia non la ascoltava. Stava ancora cercando di capire se era un sogno, quello in cui si trovava, o solo la cruda realtà. Alla fine, optò per la realtà. Tanto non faceva molta differenza, i suoi sogni erano ancora più terribili, ultimamente.

Sospirò. Provò ad alzarsi da quel letto duro come la pietra, ma non ce la fece senza operare uno sforzo più grande di lei.

«... e le navi sono già imbarcate. Siamo tutti pronti».

«Che ne è dei miei... delle persone che erano con me?» si corresse all'ultimo Nadia. Storse le labbra. Non stava per niente bene. Ci mancava poco che vomitasse.

«Loro sono già stati messi al sicuro, lontano da qui» la assicurò Faloe. Nadia alzò lo sguardo su di lei, aggrondando.

«Qualcosa non vi soddisfa?» domandò Faloe, con sollecitudine. Nadia si schiarì la voce. Il senso di nausea non accennava a diminuire.

«È solo... mi chiedo se...»

Faloe si irrigidì.

«Forse, avrei dovuto almeno salutarli. Per l'ultima volta».

«Maestà, credo che non vi faccia bene tormentarvi così» disse la ragazza, senza tradire neppure per un attimo la sua calma assoluta. «I vostri amici sono al sicuro. Ma se preferite incontrarli ancora una volta...»

«Potrebbe farlo?»

«Certo» rispose Faloe con un inchino. «Ma se mi permettete, siamo già molto in ritardo, e questo potrebbe allungare ancora di più i tempi. Senza considerare che ormai potrebbero essere già stato condotti in un posto sicuro, lontano da qui...»

«Ma lei mi assicura che stanno bene?» le chiese Nadia.

«Naturalmente».

Nadia la fissò a lungo, quindi scosse il capo. Perché insistere? Non aveva alcuna ragione per dubitare di lei. In fondo, quella ragazza non le aveva mai mentito.

E poi, non aveva proprio la forza di star lì a discutere. Tanto più che i suoi amici le avevano lasciato intendere che...

«Va bene, lasciamo perdere».

Cercò di muovere un passo, ma era come se il suo corpo fosse inchiodato al suolo. Vedendola in difficoltà, Faloe le si avvicinò, offrendosi di aiutarla. Normalmente, Nadia non avrebbe accettato, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza di rifiutare. Forse, era perché non toccava cibo da quasi due giorni.

Alla fine, si lasciò perfino aiutare a vestirsi. E mentre Faloe le girava attorno con sollecitudine per sistemarle la giacca, Nadia la scrutò in volto, notando in un suo sguardo fugace una preoccupazione che però la ragazza nascose subito dietro una maschera di assoluto distacco.

«C'è qualcosa che vuole dirmi?» fece Nadia, con un sospiro. Faloe arrossì fissandola per un istante, prima di dirigere nuovamente lo sguardo sui bottoni della sua divisa.

«Maestà, voi vi trascurate» fece, tirandole leggermente la giacca per raddrizzare alcune pieghe. «Non dovreste trattarvi così...»

«Così, come?» chiese Nadia, con noncuranza. Faloe terminò di abbottonarle la divisa, quindi le aggiustò il colletto.

«Mi sono permessa di osservarvi» disse, seria. «Ho visto che non avete mangiato nulla, in questi ultimi due giorni».

Nadia sospirò. «Ciò che faccio, sono affari miei» disse.

«Certamente, vostra Maestà, ma...»

«Se desidero non mangiare, o lasciarmi anche morire di fame, è qualcosa che non deve riguardare né lei, né il suo comandante, né nessun altro» la interruppe, con fare atono. «Mi sono spiegata?»

«Maestà...»

«Non ammetto intrusioni nella mia vita. Non amo essere sorvegliata».

«Sono spiacente, ma in questo non posso obbedirvi».

Nadia volse lentamente gli occhi a guardarla.

«Come dice?»

«Non posso lasciare che vi facciate del male» riprese Faloe. La fissava direttamente in volto, con rispetto ma senza mostrare alcun timore, come fosse consapevole dell'autorità che le derivava da una responsabilità molto più alta. «Se persevererete in questo atteggiamento sconsiderato, mi vedrò costretta ad agire di conseguenza».

«Agire... di conseguenza?»

Nadia era scandalizzata. Faloe annuì, fissandola con estrema determinazione.

«Dovrò ricorrere alla somministrazione forzata. In quel caso, verrete nuovamente sedata e messa sotto farmaci».

«Voi non potete fare una cosa del genere!» si ribellò Nadia. Faloe chinò il capo, in segno di rispetto.

«Mi dispiace, ma ho il dovere di salvaguardare il vostro benessere. La vostra vita viene prima di ogni altra cosa, persino dei vostri ordini».

«Avete un modo curioso di pensare al mio bene» ironizzò Nadia. Faloe alzò gli occhi a guardarla, con fare inespressivo.

«Se non ci lasciate scelta...»

«Scelta!»

Nadia rise. Per quel che la riguardava, era da quando era bambina che non aveva mai avuto diritto a una scelta.

«Desiderate altro?» disse Faloe, allontanandosi di un passo e congiungendo le mani davanti al corpo. Nadia aggrondò, quindi si incamminò verso la porta a passo deciso, senza aggiungere nulla. Era già uscita, quando ritornò indietro, fermandosi sulla soglia a lanciare un'ultima occhiata al suo alloggio. Quel posto era ancora più squallido della stanza che le avevano dato a suo tempo sulla nave, tuttavia si era rivelato il posto perfetto in cui passare l'ultima sua notte sulla terra. Assolutamente in accordo con le emozioni che in quel momento albergavano nel suo animo. Forse era per questo che voleva vederlo un'ultima volta, per imprimerselo nella mente. Quello sarebbe stato il suo ultimo ricordo di una vita che cessava per sempre di appartenerle.

«Qualcosa non va?» chiese Faloe, seguendo il suo sguardo. Nadia tacque. Quindi, torse gli occhi a guardarla.

«No» disse, con una smorfia, prima di uscire. «Ormai non ha più alcuna importanza».

 

 

*

 

 

«Dannazione, siamo chiusi dentro!»

Con estrema testardaggine, Sanson continuava a prendere a spallate la porta, ma senza grandi risultati. Per quanto si gettasse contro di essa con tutto il suo peso, tutto quello che riuscì ad ottenere fu solo una spalla indolenzita.

«Dobbiamo andarcene da qui, o quella strega si porterà via Marie» lamentò Rebecca. La sua voce scaturì dall'ombra, gonfia di ansia. «Jean» disse, tendendo un braccio alla cieca, davanti a sé. «Jean, dove sei?»

Lui si mosse piano verso di lei, camminando con una mano appoggiata alla parete. Dopo qualche passo, incontrò il braccio di Rebecca. Le afferrò la mano e la strinse, chinandosi ad abbracciarla.

«Eccomi, sono qui» fece. Rebecca lo cercò con le braccia e lo strinse avidamente a sé, soffocando un singhiozzo contro la sua spalla.

«Jean, devi farci uscire, ti prego» mormorò. «Devo trovarla, devo assolutamente trovarla...»

«Rebecca, cerca di stare calma».

«No, non capisci» esclamò lei, affranta. «Io ne sono responsabile! Sapevo che qualcosa non andava, ma non sono stata capace di proteggerla. Ho lasciato che me la portassero via, è solo colpa mia!»

«Non è così» la confortò lui, accarezzandole la testa e stringendola al petto. Ma Rebecca continuava ad agitarsi, tormentandogli la camicia con le mani e premendosela contro il volto bagnato di lacrime, mentre lo stringeva sempre più forte.

«No, lei chiamava me» insisteva «e io non ho saputo aiutarla».

«Ti prego...»

«Chiamava me, Jean» esalò tra le lacrime, scuotendo la testa. «Mi chiamava, e io...»

Lui la abbracciò, lasciando che lei affondasse il volto tra le sue braccia.

«La troveremo» mormorò, chiudendo gli occhi e appoggiando il volto contro quello di lei. «In qualche modo usciremo di qui, vedrai».

«Vorrei sapere come. Non si vede un accidente, e non abbiamo nulla con noi».

Da qualche parte poco lontano da loro, la voce di Hanson era rotolata, stanca, fuori dal buio.

«Forse un modo ci sarebbe», saltò su Alex. «Basterebbe trovare il pannello di alimentazione della porta».

«Bella idea, ma come pensi di fare?» la irrise Hanson. «Ti ricordo che siamo al buio».

Alex sbuffò, seccata da quel suo tono scostante. «Non ho mica detto che sarebbe stato semplice!» ribatté.

Jean sbatté le palpebre. Il buio era così spesso che lo feriva agli occhi, tanto che dovette chiuderli per il fastidio. Abbassò il volto, pensieroso, quindi «Sanson, tu sei vicino alla porta» disse. «Vedi se riesci a trovare qualcosa, accanto allo stipite».

Ci fu un movimento, nell'ombra. Era Sanson, che si alzava rumorosamente in piedi. Nel silenzio che ne seguì, era possibile sentire la sua mano scorrere contro la parete.

«Allora?» chiese Jean. «Trovato niente?»

«Niente» fece Sanson, rassegnato. Alex sospirò.

«Eppure, deve esserci qualcosa».

«Perché non vieni a cercarlo tu, allora?» scattò lui, innervosito. «Se pensi che non sia in grado di riconoscere un pannello...»

«Nessuno ha detto questo, smettetela» intervenne Jean, deciso. «Litigare non servirà certo a farci uscire».

Nessuno parlò più. Jean trasse un sospiro, cercando di fare mente locale.

«Se il pannello non è accanto alla porta, non significa che non ci sia» disse. «Alex ha ragione. Queste porte devono pur potersi aprire dall'interno».

Tutti tacevano. Il peso dei loro pensieri sembrò rendere ancora più denso il buio che li circondava. Alla fine, Alex si mosse. Si alzò lentamente, senza però staccare le spalle dal muro.

«Aspettate un secondo» fece. «Queste porte si aprono automaticamente quando qualcuno vi sosta davanti, no? Il che vuol dire che deve esserci per forza qualcosa che rileva la presenza delle persone».

«E con ciò?» sbuffò Sanson.

«Vuol dire che se c'è un pannello...»

«... non lo troveremo di fianco, ma in alto, sopra lo stipite» intervenne Hanson. «Alex, sei un genio!»

«Presto, qualcuno mi aiuti a salire sopra la porta» fece Jean. Tese il braccio verso il centro della stanza, finché non trovò la mano tesa di Sanson.

«Preso!» disse lui, con una risata. Jean si avvicinò e si lasciò issare sulle spalle. Con le mani, tastò ovunque la parete sopra la porta, alla ricerca del pannello.

«Trovato?» fece Alex, nervosa.

«C'è qualcosa, ma non assomiglia a un pannello».

«Cerca lì intorno, magari sopra...»

«Ecco! Ci siamo!»

L'aveva trovato. Jean percorse febbrilmente il contorno del pannello con i polpastrelli. Cercava di tracciare nella sua mente l'immagine di quanto stava toccando: la sua forma, le sue dimensioni, l'alloggio delle viti... tutto quanto.

«Mi serve un fermaglio, o qualcosa di simile» disse.

«Prendi il mio» fece Alex. Si sfilò il fermaglio dai capelli e si avvicinò a tentoni, finché non andò a sbattere contro Sanson. Le loro mani si cercarono confusamente, finché non si trovarono.

«Vedi di prendere solo il fermaglio, grazie» fece lei, tagliente. Lui ritrasse prontamente la mano, avvampando. Quello che aveva stretto, era decisamente troppo morbido per essere...

«Ce l'ho» disse. Il buio nascose il suo imbarazzo.

«Quando usciremo di qui, ricordami che ti devo una sberla» sibilò Alex. Sanson deglutì, mentre passava il fermaglio a Jean.

«Cerchiamo di non farlo cadere...»

Jean lo strinse tra le mani e lo piegò, in modo da farne una specie di cacciavite. Non poteva vedere nulla, quindi agiva secondo quanto riusciva a figurarsi nella sua immaginazione. Poteva solo sperare che tutta quella fatica servisse a qualcosa.

Con i polpastrelli, tastò la superficie del pannello, individuando l'alloggio delle viti. Quindi avvicinò il fermaglio, procedendo per tentativi finché non riuscì ad agganciarlo.

«Sembra funzionare» mormorò, con leggero entusiasmo. Una dopo l'altra allentò le viti, finché il pannello non cadde a terra, con un suono metallico.

«Tutto bene?»

«L'ho aperto» fece Jean. «Ma il problema è cosa fare adesso».

Alex sembrò pensarci sopra un attimo. «Strappa tutto» disse, senza troppi preamboli. Jean trasalì.

«Cosa?»

«Strappa tutti i fili. Non possiamo fare altro che tentare di mandarlo in cortocircuito».

«Aspetta un attimo, e se fosse un errore?» commentò Hanson. «In fondo, non abbiamo idea di come funzioni la loro tecnologia. Per quanto ne sappiamo, potremmo anche bloccare la porta definitivamente, o attivare un qualche tipo di allarme...»

«Che vuoi dire?» chiese Sanson spaventato. «Che potremmo anche restarci secchi?»

«Avete qualche idea migliore?» tagliò corto Alex. «Non potendo vedere nulla, non è che possiamo girarci tanto intorno, no? La porta funziona ad elettricità. Se la scolleghiamo, dovrebbe sganciarsi anche la serratura».

«È questa la tua idea?» ironizzò Hanson. «Ti ricordo, che una volta strappati quei fili, non potremo più aggiustarli».

«E io ti ricordo che se vogliamo uscire di qui, non abbiamo altra possibilità che tentare!» ribatté lei. «Statisticamente parlando, strappare tutti i fili è la soluzione migliore».

Jean strinse le labbra. La cosa lo spaventava, ma Alex aveva ragione. Mandando in cortocircuito l'impianto di alimentazione della porta, forse avrebbero potuto disattivare la chiusura automatica. O forse no.

«Sentite, proviamo a pensare ad una alternativa» suggerì Hanson. «Magari riusciamo a sollevarla, o a scardinarla...»

«È una porta di metallo, che funziona ad elettricità» commentò Alex, piccata. «Non è il portone di casa, Hanson».

«Allora...»

Ci fu un lampo improvviso, seguito da una cascata di scintille. Per un istante, i volti di tutti vennero tratti crudamente dall'ombra, rivelando l'espressione di sorpresa e di spavento che avevano sul viso. Seguì un tonfo. E tutto ripiombò nel buio.

«Cos'è successo?» fece Rebecca, scossa. «E cos'è questa puzza di bruciato?»

«Sono stato io» mormorò Jean, alzandosi da terra con un rantolo. «Ho strappato i fili».

«Per la miseria...» mormorò Hanson, passandosi le mani nei capelli.

«Sembra che non abbia funzionato» commentò stancamente Sanson. «La porta è sempre chiusa e...»

Sanson appoggiò la mano alla porta ma, con sua grande sorpresa, questa prese a scorrere leggera sotto la pressione delle sue dita. Una lama di luce penetrò dall'esterno, tagliando in due l'oscurità come un coltello.

«È aperta» mormorò, incredulo. «Non posso crederci. Ha funzionato».

Jean si sollevò su un braccio, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Quando Sanson aprì di più la porta, la luce lo investì in pieno volto, facendogli strizzare gli occhi. Li chiuse, per poi riaprirli subito. E solo allora sorrise.

«Siamo liberi» esalò. Quindi si volse a cercare Rebecca, che lo guardava con incredulità.

«Siamo liberi» ripeté, più deciso. Lei annuì, e stavolta sorrideva anche lei.

«Andiamo a riprenderci Marie» disse.

 

 

*

 

 

Il sole risalì le cime dei monti che si levavano scure all'orizzonte, iniettando di fuoco il cielo limpido del mattino e l'acqua nera e densa del lago ancora addormentato. Onde tranquille increspavano leggermente la sua superficie opaca, infrangendosi sulla riva come lingue sottili, screziate di rosso e di tenebra; quasi che sulla loro cresta si giocasse l'ultima partita tra il giorno e la notte.

Ferma sulla riva, tra le ombre che ancora abbracciavano le pendici scavate dei monti e le valli acquattate dietro le muraglie di roccia bruna, Nadia cercava il significato della sua presenza in quel luogo remoto, e del suo profondo patire.

Un raggio di vivida porpora perforò l'ultimo lembo di quella notte che ancora resisteva, tenacemente aggrappata alle cime delle montagne scoscese. Illuminò l'orizzonte, spingendosi fino ad infiammare il volto di Nadia, che brillò come fosse incandescente. Lei chiuse gli occhi. Come trasfigurato, il suo corpo nuotava nella luce calda del sole. Il giorno era finalmente cominciato.

Abbassò il volto. Atys, al suo fianco, la fissava in silenzio. Alle sue spalle vi erano Faloe e Lucano. Poco distante, John le rivolgeva un sorriso incoraggiante. Lei li guardò uno per uno. Per ultimi, passò in rassegna i volti dell'equipaggio della nave, che la osservavano schierati in formazione un poco più lontani, rapiti e increduli, con gli occhi pieni di attesa.

Fu con un sospiro misto di ansia e rassegnazione, che Nadia accettò la Pietra tra le sue mani. Si stupì. Non la ricordava così leggera. Era calda, e pulsante di una vita sotterranea e intensa, che lei poteva sentire chiaramente, mentre ne sfiorava la superficie con le dita. Era una sensazione simile a una scossa leggera, che si trasmetteva a livello profondo a tutto il suo essere e al suo corpo, eccitandola.

La strinse. Ne poteva percepire il battito sotteso. Era qualcosa di così strano, e di così incredibilmente delicato. La sua vita e quella Pietra avevano una tale connessione, che Nadia riusciva ad avvertire tutta la fragilità del potere che essa racchiudeva, come se in realtà scorresse proprio dentro di lei. Un potere tremendo, che chiedeva di essere custodito e raccolto, e che quella Pietra celava dietro il proprio aspetto semplice e dimesso in attesa di qualcuno a cui affidarlo. E quel qualcuno, era lei.

A pensarci bene, quella Pietra all'apparenza normalissima, era proprio come lei. Anche lei era una donna che a un primo sguardo poteva sembrare come tutte le altre, anche se in realtà non era per niente come tutte le altre. Nemmeno se lo voleva, nemmeno se lo desiderava fino a morire, avrebbe potuto essere come tutte le altre, perché ciò che custodiva dentro di sé, ciò che da sempre nascondeva come una macchia oltraggiosa, la rendeva diversa. Per questo era lì. Per accettare il suo destino. E farla finita, una volta per tutte, con le sue assurde speranze di una vita normale.

Alzò la Pietra, portandosela davanti agli occhi. I raggi del sole la colpirono, illuminandola completamente. La Pietra divenne totalmente trasparente, tanto che sembrò quasi dissolversi nell'aria, mentre Nadia chiudeva gli occhi e allentava lentamente la presa, con un movimento estremamente delicato e controllato. In realtà, non sapeva quello che faceva. Sentiva una forza, dentro di sé, questo sì, che la guidava in tutti i suoi movimenti. Era come se qualcuno avesse preso il controllo del suo corpo lasciandola lì a guardare, senza però darle la possibilità di opporsi.

Non appena le ultime falangi delle sue dita si furono staccate dalla Pietra, questa rimase a galleggiare nell'aria davanti al suo volto, emettendo un debole bagliore. Nadia aprì le mani e la Pietra si animò, prendendo a ruotare improvvisamente su se stessa: e più lei continuava ad allontanare progressivamente le mani, più la pietra ruotava velocemente, facendosi al contempo sempre più luminosa. Gli occhi di tutti i presenti si fissarono meravigliati su di essa, osservandola ruotare a una velocità incredibile; ormai era talmente rapido il suo movimento, che la sua stessa forma sembrò modificarsi davanti ai loro volti stupefatti, finendo con l'assumere uno stato quasi liquido, come fosse pura energia pulsante.

Quando la pietra sembrò raggiungere la massima intensità possibile di energia e movimento, Nadia allargò le braccia, di scatto. Seguì un bagliore, e uno schianto terribile. Le persone sulla riva barcollarono, indietreggiando spaurite. Atys lanciò uno sguardo smarrito all'esile profilo di Nadia, che si levava austero davanti alle acque profonde del lago, impassibile di fronte al loro improvviso inquietarsi. Con un rombo, queste presero a ribollire, gonfiandosi come se qualcosa di mostruoso e nascosto sotto di esse si fosse improvvisamente risvegliato.

In un attimo, e con un boato assordante, le acque del lago esplosero verso il cielo, dando vita a una gigantesca e spessa colonna che salì fino a raggiungere le cime più alte dei monti, oscurando perfino il sole. Man mano che la colonna saliva, risucchiando e nutrendosi di tutto ciò che ancora ricopriva il fondo del lago, questo emergeva lentamente dalle tenebre che ancora l'avvolgevano, denso e scuro come una ferita profonda, una bocca fetida che si apriva orribile sul dorso del mondo.

Solo quando il lago fu completamente prosciugato Nadia tornò a rilassarsi, abbassando le braccia. La Pietra era ormai completamente disciolta, niente più che un puro punto di luce, che brillava tranquilla davanti ai suoi occhi. Con delicatezza, Nadia avanzò finché non vi fu vicinissima, e tese la mani come a cercare un abbraccio con essa: ciò che restava della pietra le si posò dolcemente sulla sua fronte, quasi fosse stata una farfalla o un tenero bacio, per poi cristallizzarsi nel mezzo di essa come una piccola, purissima gemma. E a quel punto, Nadia riaprì gli occhi.

«Ora possiamo andare» disse lei, volgendosi finalmente serena a guardare il Comandante, che aveva assistito a tutto ciò che era successo con gli occhi sbarrati per l'incredulità. «Il passaggio è di nuovo aperto».

 

 

*

 

 

Nonostante la nave sembrasse davvero abbandonata e non avessero attraversato altro che corridoi deserti, Jean e gli altri procedevano con estrema cautela. Arrivati al fondo di un passaggio, Sanson, che precedeva l'intero gruppo, ripeteva ogni volta la stessa operazione: si accucciava in un angolo, quindi si sporgeva a destra e a sinistra, per controllare la situazione. Solo quando era certo che il passaggio fosse completamente sgombro, agitava la mano, per farli rimettere in marcia. Ogni volta la stessa storia, ripetuta così tante volte che la sua evidente inutilità risultava quasi imbarazzante.

«Sei sicuro di sapere dove stiamo andando?» lamentò a un certo punto Rebecca, guardandosi nervosamente intorno. «Questi corridoi sono tutti uguali... ho come l'impressione che stiamo girando in tondo».

«So esattamente dove stiamo andando» ribatté sicuro Sanson. Erano diversi minuti che cercavano di districarsi dall'intrico di gallerie e passaggi abbandonati nelle viscere della nave. Eppure, per quanto girassero, non riuscivano a trovare una strada che li conducesse verso l'uscita.

«Ho l'impressione che di qua ci siamo già passati» mormorò Hanson. Lanciò un'occhiata all'interno di una stanza vuota. Riconobbe i mobili spostati, e una macchia di ruggine sul muro di metallo che lo aveva già colpito per la sua forma particolare, che gli ricordava una specie di medusa.

«Sanson, ascolta...»

«Vuoi chiudere il becco?» rispose piccato l'altro. «Sto cercando di pensare».

«Ti dico che di qui ci siamo già passati. Mi ricordo esattamente di quella stanza».

Sanson si volse. Lanciò un'occhiata alla stanza e al cugino, accigliandosi.

«Lo so».

Gli altri sgranarono gli occhi.

«Lo sai?» fece Rebecca. «Che vuol dire, che lo sai? Significa che per tutto questo tempo hai continuato a portarci in giro senza sapere dove andare?»

«Questi corridoi sono tutti uguali» si giustificò Sanson. «Non è così semplice».

«Razza di cretino, se non ci muoviamo rischiamo di perdere Marie per sempre!» gridò Rebecca, afferrandolo per il bavero della giacca. Era letteralmente fuori di sé. Lui si liberò, abbassando lo sguardo con aria colpevole.

«Lo so» ripeté, in un sussurro appena udibile. «Non c'è bisogno di ricordarmelo».

Rebecca lo fissò a lungo. Quindi sospirò.

«E adesso che facciamo?» chiese. Sembrava aver ritrovato la calma. «È evidente che se continuiamo così, di qui non usciremo mai».

«Troviamo qualcosa per segnare dove siamo passati» fece Alex. «Qualcosa con cui marcare le pareti. Che so, un gesso, un cacciavite...»

«Questo dovrebbe andare» fece Jean, sollevando da terra un tubo rotto. Lo sfregò contro il muro, ottenendo alcuni graffi non troppo visibili, ma sufficienti come indicazione.

«Ecco, ora abbiamo un segno».

«Muoviamoci allora» disse Rebecca.

Il nuovo sistema sembrava dare i suoi risultati. Dopo alcuni minuti si trovavano ancora nello stomaco della nave, ma almeno non avevano più percorso due volte le stesse vie.

«Mi chiedo quanto ancora resisterà il gruppo elettrogeno» mormorò Hanson, guardandosi attorno. «È già da un po' che i motori sono spenti e con tutte le luci della nave accese, quanta autonomia pensate che possa restare?»

«Speriamo che resti quella sufficiente a permetterci di uscire da qui, razza di uccellaccio del malaugurio» esclamò Rebecca. Alex si volse stancamente a guardare alle sue spalle, mossa più dalla noia che da altro. Improvvisamente, sbatté le palpebre e aguzzò gli occhi.

Qualcosa si muoveva in fondo al corridoio, o era solo una sua impressione?

«Che roba è?» fece. Jean, accanto a lei, si girò a guardare.

«Cosa?»

«Laggiù» disse lei, indicando verso il fondo del corridoio. «Non ti sembra che qualcosa si muova, e che venga verso di noi?»

Jean socchiuse gli occhi. Tutto d'un tratto impallidì, afferrando Alex per un braccio e mettendosi a correre.

«Sono le luci, si stanno spegnendo» gridò.

Hanson, Sanson e Rebecca si volsero sconcertati a guardare. Un blocco denso di tenebre stava avanzando sempre più velocemente, procedendo per settori. Se li avesse raggiunti, non sarebbero mai più riusciti a uscire dalle viscere di metallo di quella maledetta nave.

«Di qua, muoviamoci!» gridò Sanson, imboccando il primo corridoio che trovò.

«Sei sicuro?» gli urlò dietro Rebecca. «Prima abbiamo rischiato di perderci».

«Non abbiamo tempo di metterci a segnare la strada» fece lui, sfrecciando in un passaggio alla sua sinistra. «Tra poco qui sarà tutto buio».

Svoltarono a sinistra, e poi a destra, lungo corridoi che si ripetevano sempre uguali, con il buio che li incalzava inesorabile alle loro spalle.

«Di qua!»

Sanson si infilò in un lungo passaggio alla sua destra. Dietro di loro, le luci cominciavano già a spegnersi. Hanson, che chiudeva la fila, si trovò con il buio che gli lambiva minacciosamente le spalle.

«Presto!»

Il buio avanzava sempre più, inghiottendoli uno dopo l'altro. Continuavano a correre, lasciandosi guidare dal profilo ancora visibile di Sanson, poco avanti a loro. Era come percorrere un lungo cunicolo di tenebra, all'inseguimento di una luce che si faceva sempre più remota e lontana quanto la speranza di raggiungerla.

«Muovetevi!» gridò Sanson. Ma non appena svoltò l'angolo, sul fondo del corridoio apparve una parete, con una porta aperta su una stanza inesorabilmente vuota. Trattenendo a stento un'imprecazione, Sanson si bloccò.

«Dannazione» fece, voltandosi. In quel momento, calò il buio. «Dannazione, dannazione, dannazione!»

Cominciò a sudare. Protendeva le mani con gli occhi sbarrati, alla disperata ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi nel buio.

«Moriremo, moriremo tutti qui, come topi!»

«Sanson, vedi di stare calmo!»

La voce di Rebecca lo colpì come una staffilata. Si acquietò per un attimo, ritrovando un barlume di lucidità.

«Odio questo posto» mormorò. «E odio questa gente. Io...»

«Sanson, adesso basta».

Hanson si avvicinò al cugino, facendosi strada a tentoni. Gli si accostò, afferrandogli il braccio e scrollandolo con decisione.

«Va tutto bene» gli sussurrò prendendolo per le spalle, «Non ci succederà niente, capito? Dobbiamo solo mantenere la calma».

Improvvisamente, nel silenzio risuonò un clangore metallico, come se qualcosa o qualcuno avesse colpito lo scafo della nave dall'esterno. Trattennero il fiato.

«Che diavolo era?» mormorò Hanson. Jean lo zittì bruscamente.

«C'è qualcuno» fece, dopo un attimo. «All'esterno. C'è qualcuno».

«Allora facciamoci sentire» disse Hanson. «Forse ci verranno a prendere».

«Ma sei scemo?» lo aggredì Rebecca. «Ci hanno chiuso in gabbia con l'intento di lasciarci marcire e adesso tu vorresti che li aiutassimo anche a trovarci?»

«Il suono veniva da là» fece Jean, incurante di quella discussione che reputava inutile. «Potremmo seguirlo, e vedere dove ci conduce».

«Rischiamo solo di perderci, se ci muoviamo al buio» ribatté Alex. Jean le cercò la mano, e la strinse.

«Tenete una mano contro la parete alla vostra destra» disse, bussando debolmente contro le lastre metalliche del corridoio. «Battete un colpo, come ho fatto io, così capiremo se ci siamo tutti».

Tutti, uno dopo l'altro colpirono leggermente la parete. Jean sorrise.

«Non staccate mai la mano, per nessun motivo. Se vi dovesse succedere, ditelo subito. D'accordo?».

Ci fu un debole mormorio di assenso. Jean strinse di più la mano ad Alex.

«Bene» fece, traendo un grosso sospiro «allora, andiamo».

Si mossero lentamente, attenti a cogliere anche il minimo rumore che provenisse dall'esterno. C'erano solo quei suoni a guidarli lungo l'intrico di gallerie prive di luce, ma nonostante tutto sembrava funzionare. Man mano che avanzavano, le voci e i rumori che in un primo momento giungevano lontani e ovattati si facevano sempre più chiari: era evidente che si stavano avvicinando a un'uscita. Probabilmente era questione di attimi, poi sarebbero finalmente stati fuori di là.

O almeno spero, pensò Jean.

Certo, restava il problema di ciò che avrebbero fatto una volta usciti, visto e considerato il numero di soldati che probabilmente si trovava là fuori. Ma su questo, Jean preferì soprassedere. Almeno per il momento, c'erano cose più importanti di cui preoccuparsi.

«Che staranno facendo?» sussurrò Rebecca, tendendo l'orecchio alle voci che le giungevano ormai distintamente attraverso la parete metallica. Jean strinse le labbra, mettendosi in ascolto.

«Sembra che stiano scaricando o caricando qualcosa» fece. «Zitti, sento qualcuno avvicinarsi».

Subito al di là della parete, risuonò lo scoppio di una risata. In lontananza, qualcuno tuonò qualcosa, forse un comando, a cui seguì il sommesso borbottio di alcune voci, che fecero vibrare leggermente la sottile parete divisoria.

«Devono essere in molti» fece Jean. «Cerchiamo di fare attenzione...»

Improvvisamente ci fu uno stridio, e sul fondo del corridoio, a poca distanza da dove si trovavano, si aprì una porta. Una luce accecante colpì Jean e gli altri in pieno volto, abbagliandoli.

«Ma che diavolo!» esclamò Hanson tra i denti, riparandosi gli occhi. Dietro di lui, Sanson barcollò, sorpreso.

«Presto, da questa parte!»

Jean si rifugiò dove il corridoio faceva una curva. Alex, ancora confusa da quel bagliore improvviso, si lasciò trascinare da lui e si accucciò al suo fianco sfregandosi gli occhi feriti. Rebecca, Hanson e Sanson erano subito dietro di loro.

«Guardate, quella è la stiva» fece Hanson, sbirciando attraverso la porta che i soldati avevano aperto. «Stanno ultimando i preparativi per la partenza».

«Si direbbe che vogliano abbandonare la nave per usarne una più piccola» commentò Rebecca, spingendo lo sguardo fino all'esterno del portellone, dove si intravedeva uno dei tre vettori ancorato a poca distanza dalla nave principale. In quel momento, Faloe e Lucano fecero capolino, mentre si dirigevano in tutta fretta a una seconda nave. Non appena furono saliti, il portellone si richiuse dietro di loro e la nave su cui erano saliti si sollevò da terra con un rombo. Rebecca trasalì, stringendo i pugni.

«Erano loro!» esalò. «Sono saliti su quella nave, quindi Marie deve essere per forza là! Dobbiamo trovare il modo di inseguirli».

«Ma sei impazzita?» esclamò Hanson, sottovoce. «E come diavolo pensi di fare?»

«C'è un'altra nave, che non è ancora partita» suggerì Sanson, sbirciando oltre il portellone. Sembra che stiano terminando di caricarla. Non è lontana. Forse possiamo farcela a raggiungerla».

«E se ci scoprissero? Ci avete pensato?»

«Non abbiamo altra scelta» disse Rebecca. «Sono sicura che Marie è stata caricata sulla nave su cui sono saliti quei due; forse questa è l'ultima possibilità che abbiamo di poterla raggiungere».

Hanson sbuffò, per nulla convinto. «Ammesso che riusciamo a salire su quella nave, e non è per nulla una cosa scontata, come pensate di fare, poi? Quelli sono diretti alla caverna che si apre sotto il fondo del lago. Anche se li raggiungessimo, e riuscissimo a trovare Marie, come faremo poi a tornarcene in superficie?»

«Questo è un problema a cui penseremo quando sarà il momento» ribatté lei, dura. «Adesso mi interessa solo ritrovare Marie. O forse mi stai suggerendo che dovrei infischiarmene e lasciarla in mano a quei mostri?»

Hanson arrossì. «Non intendevo questo, ma...»

«Se avete finito di discutere, andiamo» tagliò corto Jean. «Se stiamo bassi, e cerchiamo di muoverci velocemente, dovremmo poter raggiungere la stiva senza troppi problemi».

Aspettarono che i soldati si allontanassero quindi, uno dopo l'altro, sgattaiolarono tra le casse, accucciandosi nella penombra. Oltre il portellone, era possibile intravedere l'ultimo dei tre vettori, ancora a motori spenti. Era davvero vicino, ma contemporaneamente sembrava del tutto impossibile riuscire a raggiungerlo. C'erano troppi soldati che vi giravano attorno, affaccendati con le ultime operazioni di imbarco. Nonostante fosse evidente che non sarebbe stato possibile salirvi a bordo senza essere scoperti, Rebecca dovette sforarsi molto per frenare la propria impazienza, e con essa il desiderio di alzarsi in piedi e di correre fin là. Il pensiero di Marie, sola e spaventata da qualche parte lontano da lei, ormai le offuscava la mente; e tutta quella attesa non faceva che riempirla di un frustrante senso di inutilità che aumentava ogni minuto di più, rendendola estremamente nervosa.

«Secondo voi che diavolo stanno facendo?» fece Hanson, sporgendo la testa da sopra le casse per controllare la situazione. «Forse hanno finito di caricare...»

In quel momento un soldato risalì a bordo, dirigendosi proprio verso il punto in cui si nascondevano. Con un gemito strozzato, Hanson si rituffò dietro le casse accatastate, trattenendo il respiro insieme agli altri. I passi del soldato si fecero sempre più vicini, spegnendosi subito dietro le loro spalle. La tensione si fece altissima: lo sentivano rovistare, spostando casse di qua e di là; e intanto seguivano come ipnotizzati i movimenti che l'ombra dell'uomo gettava contro la parete, senza osare muovere un muscolo. Dopo istanti che parvero loro interminabili, il soldato sembrò allontanarsi, bofonchiando scontento qualcosa.

«Dio, ti ringrazio» sospirò Alex. «E adesso?»

«Adesso, aspettiamo» disse Jean semplicemente, rilassandosi con un sospiro contro la parete.

 

Per diverso tempo non poterono fare nulla. I soldati erano troppi, e salivano e scendevano dalla nave spostandosi da una stiva all'altra nei modi e nei momenti più inaspettati. Non c'era alcuna possibilità di raggiungere il vettore. Finalmente, dopo più di un'ora passata a nascondersi, le operazioni di imbarco terminarono. I soldati risalirono a bordo del vettore disponendosi in una fila composta, dopo aver ripulito accuratamente la stiva della nave principale e aver caricato quella della nave più piccola. Sporgendosi da sopra le casse allineate sul fondo, Jean e gli altri li videro salire dal portellone, per poi scomparire all'interno dell'abitacolo. Solo due soldati rimasero a guardia della stiva, sedendosi sul portellone mezzo sollevato, mentre i motori cominciavano ad avviarsi. Uno di loro estrasse una sigaretta, che offrì all'altro con un cenno di intesa.

«Ragazzi, ora o mai più» mormorò Sanson. Hanson sporse leggermente la testa, per poi ritornare a nascondersi quasi subito.

«Ma come facciamo con quei due?» fece, teso. Sanson sogghignò.

«Di quelli posso occuparmene io. Voi state pronti a saltare su quando vi farò cenno».

«Aspetta un attimo, che hai in mente?» chiese Jean, trattenendolo per un braccio. Sanson lo fissò sorridendo.

«Tu non preoccuparti. Pensa solo a fare come ti ho detto».

I due soldati fumavano tranquilli, ignari di tutto. Il portellone era ancora aperto, quando Sanson li raggiunse. Si avvicinò di soppiatto, fino a che non fu a qualche metro da loro. Quando fu abbastanza sicuro che non ci fosse nessun altro là, a parte quei due, uscì allo scoperto.

«Ehi, scusate!» esclamò. I soldati si volsero a guardarlo, stupiti. «Non è che sapete dirmi come si fa ad andarsene da qui? Credo proprio di essermi perso».

I due restarono a fissarlo increduli per qualche istante, nemmeno avessero appena incontrato un fantasma. Approfittando della loro sorpresa, Sanson continuava ad avanzare verso di loro, con passo sicuro.

«Ti estì dràonton?» fece uno dei due, gettando la sigaretta a terra e afferrando la lancia. L'altro corse subito al quadro comandi, riattivando la discesa del portellone. Con un balzo, il soldato armato scese a terra, avventandosi su Sanson.

«Upésis tas kéiras, kai légei» gli gridò, puntandogli in faccia la sua arma. Sanson sorrise, infilando le mani in tasca con assoluta tranquillità.

«Intendiamoci, è bello starsene qui, e tutto il resto» disse, ostentando una certa noncuranza «ma comincio a essere stufo di trovarmi sempre voi coglioni tra i piedi...»

Il soldato alzò la lancia, colpendolo allo stomaco. Sanson se l'aspettava, così assorbì il colpo, piegandosi appena.

«Non sei gentile, amico...» sibilò, gli occhi attraversati da un lampo. Il soldato strinse le labbra e fece per colpirlo di nuovo, ma Sanson fu più veloce. Aspettò che lui vibrasse il colpo per anticiparlo, bloccando la lancia sotto il braccio. Quindi ruotò su se stesso, strappandogliela e afferrandola saldamente con entrambe le mani. Senza pensarci due volte, la fece ruotare, colpendo il soldato alla nuca e poi alle caviglie, facendolo cadere al suolo privo di sensi.

«Ehi!»

Con la coda dell'occhio intravide l'altro soldato, che dopo essersi riavuto dalla sorpresa, aveva fatto per scattare verso il punto in cui aveva abbandonato la sua lancia. Sanson fu più svelto: con un balzo salì sulla pedana, e puntò la lancia dritto in faccia al soldato, che si arrestò con la mano già sull'impugnatura della propria arma.

«A-ah! Io non lo farei».

Il soldato alzò gli occhi, fissandolo con uno sguardo spiritato. La sigaretta che ancora gli pendeva dalle labbra traballò un secondo, prima di cadere a terra.

«Ego se apoktéineso, suō...» sibilò, mentre alzava le mani. Sanson scrollò le spalle.

«Si, come no. Anche a te». E con un movimento fulmineo, lo colpì al volto, facendolo stramazzare a terra. Quindi, si voltò a cercare dove si nascondevano gli altri.

«Forza!» disse, agitando il braccio verso di loro. In un attimo, il resto del gruppo uscì allo scoperto, percorrendo in un lampo il tratto che divideva la stiva della nave da quella del vettore. Una volta che furono tutti saliti a bordo, Sanson spinse fuori dalla stiva il corpo del soldato svenuto, che andò a finire nella polvere insieme a quello del suo compagno.

«Ci vediamo, belli» fece, azionando il dispositivo di chiusura. Attese che il portellone della stiva si sigillasse, quindi andò a prendere posto accanto agli altri, che si erano già nascosti dietro ad alcune casse più lontane.

«Sei stato davvero in gamba» gli fece Jean, rivolgendogli un sorriso di sincera ammirazione. Rebecca annuì.

«Sì, niente male».

«Lo so, grazie» fece lui passandosi una mano tra i capelli, il volto attraversato da un sorriso smagliante. In quel momento, i motori presero a ruggire. Ci fu una scossa. La nave oscillò; quindi, con un ultimo rollio, si staccò dal suolo.

Con la tensione che cominciava lentamente a sciogliersi, Jean sospirò, chiudendo gli occhi e abbandonando la testa contro la parete alle sue spalle.

Ce l'avevano fatta, pensò, mentre si lasciava cullare dalla vibrazione lenta dei motori. Erano partiti.

Restava da pensare a come sarebbero tornati indietro.



  
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