Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Jan Wilde    24/09/2010    2 recensioni
“Ho sempre pensato che vivere fosse solo un modo come un altro per passare il proprio tempo. L’ho sempre pensato fino a quel giorno, fino a quando, trovandomi di fronte alla scelta più difficile della mia vita, ho dovuto scegliere la strada più impervia. Da quel momento ho incominciato realmente a vivere, a soffrire forse, a trovare un ostacolo dietro l’altro, ma a vivere.”
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

“Pioggia”.

Fu il primo pensiero che la mente di Jaren formulò quando il ragazzo aprì gli occhi. L’acqua leggera, che batteva contro il vetro della finestra e contro il soffitto, fu la prima cosa che sentì una volta sveglio. Amava la pioggia, l’inverno che si avvicinava, la luce che lasciava sempre più spazio all’oscurità, al mistero, a segreti che la notte avrebbe mantenuto tali per sempre. Si alzò dal letto, lottando contro le vertigini che improvvisamente lo assalirono. Fame. Lo aggredì con un morso allo stomaco, intenso, che diffuse il senso del bisogno lungo i suoi arti, le sue giunture, le sue vene. Cercò di ignorare quella mancanza e si diresse verso il bagno. Lo specchio rimandò la sua immagine: il ragazzo che vi aveva visto specchiato il giorno prima era del tutto scomparso. La carnagione del viso, del collo liscio e levigato e del torace nudo aveva assunto il solito pallore di sempre. L’abbronzatura tipica delle tintarelle di fine estate si era completamente estinta dalla sua pelle e non sarebbe più tornata finché…

“Non accadrà mai più”.

Al solo pensiero rabbrividì e si augurò di mantenere per sempre quel pallore. Odiava quella situazione, quel bisogno crescente che lo assaliva ogni volta, come se vivere con tutti quei ricordi orribili, che quella necessità gli aveva provocato, non fosse sufficiente. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda del rubinetto. Quando si voltò nuovamente verso lo specchio una goccia  stava scendendo da un sopracciglio, lungo le ombre, di un leggero color violaceo, che gli circondavano le palpebre. Aveva bisogno di nutrirsi.

“Colazione, devo mettere qualcosa sotto i denti”, pensò freneticamente mentre finiva di lavarsi. Si vestì coi soliti abiti della divisa scolastica. Camicia blu scuro, pantaloni neri e cardigan nero senza maniche. Guardò la cravatta che penzolava lungo lo schienale di una sedia. I professori gli avrebbero di sicuro perdonato quella mancanza. Mentre usciva dalla stanza lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete. Erano le sei e mezzo, mancava ancora un’ora alla prima dell’istituto e le cucine dovevano essere senz’altro aperte.  La sua stanza era situata lungo il corridoio più a nord dell’ala sud, dalla camera riusciva a vedere il grande cortile della scuola, compreso il rallegrante spettacolo del cimitero.

 Attraversò il corridoio senza far rumore, sperando di non incrociare nessuno, non che la cosa avrebbe fato differenza: nessuno mai aveva da ridire sulle sue abitudini, i professori lo veneravano, pendevano tutti dalle sue labbra grazie ai suoi modi così garbati, eccentrici e geniali. Ma c’era sempre l’eccezione alla regola e la sua si chiamava Honoria Godman.

“Maledizione!”. Pensò mentre la incontrava alla base della rampa di scale che portava al secondo piano.

-Già in giro a quest’ora, Parker?

-Oh Dio, lasciami in pace Honoria…

-Ti ricordo che siamo nella scuola e…

-E che tutti quanti, eccetto noi due, dormono.

La guardò con uno sguardo malizioso, avvicinandola a se di qualche  passo con un gesto fluido ed elegante.

-Dovremmo approfittarne-. Le disse con galanteria, incatenando il proprio sguardo al suo. La donna si sottrasse dalla sua presa con un gesto altrettanto fluido e con il movimento che seguì lo fece cadere a terra.

-Non ti conviene scherzare tanto… non fare troppo affidamento sul fatto che è molto che mi conosci-. Gli disse tirandosi su gli occhiali con un dito. Jaren conosceva Honoria Godman da quando era piccolo. I suoi genitori erano stati vicini di casa della donna quando lei ancora non era neppure un’insegnante.

Si alzò, fissandola con aria di sfida. –Tremo, mi boccerai?- Le chiese sarcastico.

-Non mi tentare, Jaren… perderesti di vista tu sai chi.

-Non puoi farlo-. La sua espressione si fece improvvisamente seria. –Nessuno può obbligarmi a rimanere in questa scuola se non lo voglio. Lo sai meglio di me.

Honoria Godman rise di gusto. – Certo, nessuno tranne me…

-Non lo faresti mai.

-Tu non mi mettere alla prova-. Quella frase non ammetteva repliche, Jaren lo capì benissimo. Non poteva molto contro Honoria Godman, la donna stava pur sempre più in alto di lui. Annuì rassegnato mentre il bisogno di prima si faceva sempre più forte.

-Scusa ma adesso ho altro da fare-. Le disse oltrepassandola per dirigersi verso le cucine. Lei non accennò risposta, solo un sorriso di trionfo si dipinse sul suo volto e Jaren provò un leggero senso di frustrazione ribollirgli nelle vene. Non l’avrebbe avuta vinta per sempre. Honoria sembrava inattaccabile, il potere che aveva le dava la possibilità di riuscire in ogni cosa, di fare delle persone ciò che voleva e queste, più per istinto di sopravvivenza che per altro, raramente si ribellavano a quell’atteggiamento. Ma Jaren, varcando la porta delle cucine, si ripromise che non sarebbe stato per sempre così.

 

La morbidezza della fodera fresca del cuscino, le lenzuola che le avvolgevano dolcemente il corpo, coperto solamente da un pigiama leggero, altrettanto soffice, il tenue torpore che le avviluppava la mente: dolci sensazioni che ogni mattina la accompagnavano portandole in dono il triste ricordo che un altro giorno andava affrontato.  Amava quel momento, quell’attimo di limbo che la divideva tra i sogni appena fatti e la realtà imminente. Amava ricordare i pensieri che l’avevano accompagnata durante la notte, li gustava con la mente, cercando di ricordare ogni minimo particolare. Spesso e volentieri però quel momento coincideva anche con una nostalgica malinconia, con la consapevolezza che quei sogni erano destinati a rimanere tali e che la realtà esigeva prepotente la sua partecipazione alla vita.

Fu quando aprì gli occhi e vide il blu elettrico delle pareti della propria stanza che la realtà quasi la soffocò. Si mise a sedere circondandosi le ginocchia con le braccia, i capelli scuri le ricaddero lungo il braccio sul quale appoggiò il viso. Non aveva voglia di alzarsi, di uscire da quella stanza, di vedere volti semi-sconosciuti e volti sgraditi, di seguire ore lunghe e noiose di lezioni che altro non facevano che assopire il suo interesse per lo studio. Sarebbe voluta restare lì, in silenzio, persa nei propri pensieri, apparentemente lontana da tutto e da tutti. Ma ciò non era possibile.

Sbadigliando si alzò dal letto, si trascinò verso il bagno e infilò la testa sotto l’acqua ghiaccia del rubinetto. Lasciò che il freddo la avvolgesse svegliandola completamente. Quando si tirò su gocce d’acqua scesero lungo tutto il suo corpo, bagnando il pigiama e facendola rabbrividire ancora di più per il freddo.

Una volta che ebbe finito di lavarsi, avvolta in un asciugamano bianco, si diresse verso la finestra, con fare distratto, attratta da qualcosa che neppure lei sapeva. Fuori pioveva intensamente. Dalla finestra che dava sul piccolo cortile interno si intravedevano lembi di cielo grigio; lampi solitari illuminavano quella semioscurità mettendo in mostra il proprio spettacolo per chiunque avesse avuto lo sguardo rivolto verso di loro.

La pioggia le fece venire ancora più freddo e la voglia di tornare sotto le coperte fu quasi irresistibile, ma con una scrollata di spalle scacciò quella tentazione, lasciò cadere a terra l’asciugamano e indossò i panni caldi e stranamente confortevoli della divisa. Erano fatti di un’ottima stoffa, notò. Nonostante la comodità però, la facevano sentire ancora più imprigionata nella sua condizione.

 Sbuffò mentre tornava a guardare fuori dalla finestra, irritata dai suoi continui sbalzi d’umore: serenità e agitazione si alternavano senza sosta nel suo stato d’animo.

Quella mattina si sarebbe dovuta svegliare prima per affrontare il compito della Godman. Il tempo scorreva veloce, non dava tregua e sembrava volatilizzarsi nel nulla.

Si appoggiò con la fronte al vetro freddo della finestra e il suo respirò formò una leggera condensa su di esso. Chiuse gli occhi, respirando lentamente. Era passato solo un giorno dal suo ingresso alla Sweet company e già si trovava indietro con lo studio. Se solo avesse potuto affrontare quella scuola senza ulteriori impicci… se solo non ci fosse stata quella punizione di mezzo…

 Non era giusto, non aveva fatto nulla di che; nulla da meritare, in qualsiasi altra scuola, di più di un semplice richiamo.

Premeditò per l’ennesima volta la fuga, ma con quel tempo e considerando che la Sweet Company si trovava in prossimità del lago Erie, troppo a Nord-Ovest rispetto alla sua città natale, New York, scartò quell’ipotesi. Come sarebbe tornata a casa? Con quali soldi? Senza contare che i suoi l’avrebbero rispedita in quel posto senza neanche stare ad ascoltare le sue motivazioni.

I suoi pensieri stavano prendendo sentieri sempre più tortuosi quando qualcosa, fuori dalla finestra, attirò la sua attenzione. Durò pochissimo, il tempo di un respiro, di un attimo fuggente. Un’ombra scura attraversò velocissima il cortile interno, silenziosa, fugace, quasi invisibile. Il cuore di Ginevra perse un corpo. Gli era sempre capitato di vedere le ombre quando nessuno era in grado di vederla o sentirla; ogni volta l’avevano torturata, levandole ogni briciolo di felicità che aveva in corpo. L’ultima volta l’avevano quasi uccisa. Fino a un anno prima capitava di rado di vederle.. Le apparizioni si limitavano a due o tre l’anno e la ragazza riusciva a far finta di vivere una vita normale, come quella di ogni comune ragazzo della sua età; ma nel corso dell’ultimo le cose erano cambiate: non passava mese senza che le ombre si facessero vive.

Iniziò a tremare, non più per il freddo, ma per la paura. Non era neppure sicura di aver visto una delle “sue” ombre, ma il ricordo di cosa era successo l’ultima volta la terrorizzava. Istintivamente iniziò ad allontanarsi dalla finestra e senza neppure rendersene conto si ritrovò con una mano posata sulla maniglia della porta di camera sua. La aprì di scatto e iniziò a vagare lungo il corridoio senza sapere bene dove andare. Non potevano aggredirla nella scuola, specialmente non quando la vita in quest’ultima era pronta a ripartire per un nuovo giorno di interminabili ore di lezione. Chiunque avrebbe potuta sentirla o peggio ancora vederla. Le Ombre non erano mai state così audaci. Continuò a camminare guardandosi attorno col cuore che batteva a mille. Dove stava andando? Svoltò un angolo e le si mozzò il respiro quando si accorse di essersi diretta verso la porta che dava sul cortile interno, dove le era parso di scorgere la creatura.. Iniziò nuovamente ad indietreggiare. La confusione che aveva in testa le impediva di ragionare: era terrorizzata. La porta iniziò improvvisamente ad aprirsi, cigolando, lenta e snervante. Ginevra arretrò ancora, sul punto di urlare…

-Sappi che se ti senti male ti lascio lì a morire.

Una voce piacevole, con un leggero accento che lei non riuscì ad identificare, uscì dalle labbra di un ragazzo i cui occhi erano grigi e freddi come la neve. Si mosse lentamente verso di lei, con un passo così aggraziato che le ricordò quello della Godman. I capelli neri e lisci incorniciavano un viso pallido e estremamente bello nel crepuscolo artificiale, dal mento spigoloso e la fronte ampia. Le labbra rosee contrastavano con quel biancore e con quegl’occhi da… “Predatore”.

Vestiva di nero: stivali neri morbidi, maglione nero e giacca di cuoio. “Quasi apposta per confondersi con l’oscurità”, pensò ancora di riflesso. Lo osservò incuriosita ed intimorita allo stesso tempo. Chi era questo individuo? Cosa ci faceva là fuori, nel bel mezzo di un temporale?

-Chi sei?- Gli chiese con voce tremante.

-Potrei essere la cosa migliore che ti sia capitata…- rispose lui con voce suadente, avvicinandosi ancora di qualche passo. –O la peggiore…- Aggiunse con un ghigno, arrivando a pochi centimetri dal suo viso. Ginevra si ritrovò a domandarsi se fosse stato meglio trovarsi di fronte una delle Ombre.. Non sapeva cosa aspettarsi da quell’individuo, come reagire. Ma una cosa era certa: un profondo terrore le rodeva l’anima.

-Che… che cosa vuoi?

-Un sacco di cose…

Ginevra era terrorizzata. Avrebbe urlato ma la gola le si era fatta improvvisamente secca. La paura che provava era del tutto insensata ma quel ragazzo, la cui bellezza così esagerata aveva un che di eterno, la terrorizzava sino a farle rallentare il battito del cuore. Studiò la sua espressione, allo stesso tempo così accattivante e stranamente pericolosa, il ghigno della sua bocca, sensuale e spaventoso, quella pelle così liscia e vellutata… Il profumo di rose fresche che emanava. Quel ragazzo sarebbe potuto essere il predatore perfetto: eternamente bello e pericoloso.

“Ma che mi viene in mente. È solo uno stupido che se ne stava sotto la pioggia!”

Ma non era facile auto convincersi della cosa. Come se ci fosse stato dell’altro, come se tanta bellezza fosse una semplice maschera.

Il tempo sembrò dilatarsi senza confini. Ginevra non aveva idea di quanto ne fosse passato da quando erano rimasti fermi, così vicini, in un silenzio irreale interrotto solamente da qualche tuono lontano. La ragazza si accorse di sudare, un sudore freddo, fastidiosamente freddo. Sospirò cercando di trovare un briciolo di coraggio, dicendosi per l’ennesima volta che lui voleva solo impressionarla ma che in realtà era realmente solo un ragazzo che il giorno prima, per puro caso, non aveva notato.

-Non credo di poterti aiutare-. Provò a dire con voce tremante.

-Io credo proprio di si invece-. Sussurrò lui in risposta. Il suo volto era sempre più vicino a quello di lei. Ginevra poteva sentire il suo alito fresco sulla propria pelle, un respiro freddo, un accentuarsi di quel profumo di rose che la pelle del ragazzo sembrava emanare. Rimase immobile, incapace di reagire.

-Sei terrorizzata-. Non era un’affermazione ma una semplice costatazione di fatto.

-Ne… ne ho davvero motivo?- chiese lei deglutendo, con voce tremante. Ma prima che il ragazzo potesse rispondere, una voce interruppe  quell’attimo cristallizzatosi nel tempo e nello spazio.

-Sirio, lasciala in pace!- Tuonò Jaren da dietro le spalle di Ginevra.

-Altrimenti?- Il tono del ragazzo era sfrontato e irritato. La ragazza si voltò di scatto verso Jaren. Senza nessun particolare motivo si sentì eternamente grata nei suoi confronti.

-Fossi in te non cercherei di scoprirlo-. Ringhiò l’altro. Si fece sempre più vicino a Sirio che, nel frattempo, si era allontanato da Ginevra per andare incontro al nuovo arrivato.

-Nessuno ti ha invitato, Jaren. Anzi, la tua presenza è più sgradita del solito.

-Lei non deve pensarla così-. Rispose lui indicando Ginevra. Sul volto della ragazza il terrore interpretava ancora il ruolo di protagonista. Sirio scoppiò a ridere. La ragazza si ritrovò a pensare alla risata di Jaren, così limpida e cristallina, più simile ad una musica che ad un suono umano. Quella di Sirio, d’altro canto, era tagliente e fredda come l’acciaio.

-Dovevi darle il tempo di provare…

-Taci, pezzo di imbecille!- Urlò Jaren, interrompendolo. Lo prese per la collottola e lo scaraventò contro la porta attigua al cortile interno. Sirio andò a sbattere con forza contro di essa ma non si scompose. Dopo pochi attimi si rialzò, con l’ennesimo ghigno dipinto sul volto, si strusciò via la polvere dal giacchetto e si incamminò nuovamente verso Jaren. Quando furono ancora faccia a faccia fu il suo turno a colpire. Rapido, silenzioso ed elegante come solo quei due sembravano essere. Sferrò un pugnò dritto sullo stomaco di Jaren il quale, con un gemito, si accasciò su di lui.

-Non ci provare mai più-.  Gli ringhiò all’orecchio. –La prossima volta ti ammazzo-. Aggiunse, abbassando la propria voce, in modo che la ragazza non lo sentisse.

-Ti è andata bene, ragazzina-. Le disse poi, voltandosi a guardarla con quel sorriso malevolo.  –E’ arrivato l’eroe-. La sua voce suonò ancora una volta sarcastica. Aggrottò le sopracciglia, fissandola in modo intenso. –Non ti andrà sempre così bene.

Ginevra non rispose. Era combattuta tra la paura che provava e la voglia di aiutare Jaren. Non sapeva cosa avrebbe potuto fare Sirio. Ma il ragazzo non perse altro tempo e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al ragazzo  se ne andò, sparendo oltre il corridoio.

Ginevra corse incontro a Jaren che, nel frattempo, si era accasciato a terra. Il colpo doveva avergli fatto male sul serio. Era ripiegato su se stesso e con fatica cercava di alzarsi.

-Jaren!-

Cercò di circondargli le spalle con un braccio, di aiutarlo ad alzarsi o almeno cercò di farlo mettere a sedere come si deve, ma lui la allontanò con una scrollata di spalle.

-Lasciami stare-. Soffiò con un retrogusto amaro nella voce. La ragazza rimase ad osservalo senza capire quella reazione. Solo allora si accorse che il ragazzo era molto più pallido rispetto al giorno precedente. Sembrava stanco, consumato da qualcosa di troppo arduo da sopportare.

-Jaren…

Tentò ancora di avvicinarsi ma lui fu più lesto ad alzarsi e a mettere altra distanza tra di loro.

-Stammi lontana.

-Ma…- Non ci capiva più nulla. Non capiva perché Sirio le suscitasse tanta paura, non capiva cosa volesse da lei, non capiva perché aveva ridotto così Jaren, non capiva perché lui si comportasse in quel modo.

Il ragazzo la guardò alzando leggermente un sopracciglio, la bocca semiaperta in una smorfia di sofferenza che però sparì appena si accorse che lei lo stava fissando.

-Ti farebbe bene mangiare qualcosa…- Le disse. Gnevra sbuffò sonoramente.

-Non accetto consigli da chi è troppo superbo per farsi aiutare.

-Ma per favore-. Il ragazzo scosse leggermente la testa.- Tu non capisci…

-E questo ti sembra un motivo plausibile per trattarmi così? Ma in che posto sono finita!? Siete tutti uguali? Tutti che mi danno contro, quella maledetta donna, quel pazzo, tu! Tutti così…E chi è quel…

- Ginevra…

Il modo in cui pronunciò il suo nome la fece bloccare all’istante. Ogni voglia di protestare si sgretolò appena lei incontrò i suoi occhi: un rifugio caldo e confortevole rispetto alla freddezza che aveva letto in quelli di Sirio.

-Andiamo a colazione…

Lei questa volta annuì. Non riusciva più a trovare una parola per protestare, più un motivo per prendersela con Jaren. Dopo tutto lui era venuto a tirarla fuori da una situazione sgradevole. Senza aggiungere altro lo seguì avviandosi con lui lungo il corridoio. Pensandoci si accorse di avere realmente fame. La sera prima non aveva cenato a causa della punizione della Godman e il suo stomaco stava brontolando brutalmente per quella mancanza.

Osservò Jaren mentre salivano la rampa di scale che portava al secondo piano. Si chiese ancora cosa gli fosse successo, chi fosse quel Sirio. Il desiderio di sapere si fece sentire più forte che mai, ma qualcosa la indusse a tacere ogni domanda che si affollava nella sua mente. Ci sarebbe stato il tempo e il modo per sapere. Sospirò mentre facevano il loro ingresso nella mensa. Era trascorso solo un giorno e poche ore da quando Ginevra aveva messo piede alla Sweet Company, ma la sua vita passata sembrava già appartenere ad un’altra epoca.

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Jan Wilde