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Autore: Sanya    25/09/2010    2 recensioni
Alice Cullen non riesce a ricordare nulla del suo passato. Vede solo uno spesso muro nero, quando ci pensa. Ma vi siete mai chiesti cosa c'era esattamente nel suo passato? Quali sono state le decisioni che l'hanno portata a finire in manicomio e ad essere trasformata in una vampira?
E poi, siamo davvero sicuri che il suo creatore rappresentasse per lei solo uno sconosciuto?
Capitoli in via di revisione. Work in Progress
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutti !!

Eccomi qui, questa volta stranamente puntuale, sfortunati voi xD

Ebbene forse ho trovato il modo per aggiornare tutte le settimane, ma forse, eh! Tutto dipende ovviamente dalla scuola, dai compiti e dalla mia prof di biologia se si decidesse a trovare un solo modo per interrogare e non venticinque diversi >.<  [Approposito grazie a Ele per il mega consiglio su come scrivere quando si ha anche altro da fare ;) Grazie patata!]

Bene, detto questo, passiamo alle risposte alle recensioni:

Mafra: Wow *w* Sono felice che la mia nuova pazzia ti piaccia! Ci vorrà un po' però, prima voglio almeno finire questa, visto che mi stanno venendo in mente un sacco di nuove sfaccettature ;) Già, è triste vederli così poverini! Ma non preoccuparti, anche loro avranno i loro momenti di gioie (e...Un sacco di altre cosine che si scopriranno pian piano ;])

Tempest_The_Avatar: Innanzitutto, Benvenuta!!! Sono felice che ti piaccia la mia storia!!! E sì, effettivamente st creando un Byron molto dolce, spero di non farlo diventare noioso. Ovviamente, i consigli e le critiche sono ben accetti!!

Ora vi lascio alla lettura, però non prima di ringraziare Ele che ne combina una più del diavolo ma a cui voglio un sacco di bene ^^

Buona lettura e recensite ;)

CAPITOLO 9

Rimasi abbracciato a Alice per un tempo infinito. Minuti, ore, secoli, millenni. Sembrava che il tempo si fosse fermato mentre proteggevo con le mie braccia la sua fragile e instabile vitalità.

Non fu facile vederla soffrire in quel modo. Ogni volta che urlava e si premeva forte le tempie sentivo gli occhi pizzicare di dolore. La stringevo ancora più forte a me, perdendomi nello spazio circostante.

Il suo respiro, sempre più affannoso e forzato, mi entrava nei muscoli, facendoli contrarre. La sua fronte era diventata un blocco di metallo incandescente. Avevo provato in qualsiasi modo a raffreddarla, ma nulla aveva funzionato.

Mi sentivo completamente inutile: potevo darle sollievo, ma non guarirla completamente. Potevo aiutarla a sopportare la sofferenza, ma non sarei mai riuscito ad estirparla completamente dal suo organismo.

Avrei dovuto guardarla andare via in braccio alla morte, senza potermi opporre in nessun modo? La strinsi ancor più forte al mio petto di marmo.

Guardai il suo viso, indebolito dalla malattia, il viso di quella giovane donna che mi aveva rapito in ogni suo gesto. Nonostante stesse morendo, la trovai comunque bella: la pelle morbida e vellutata delle guance, le labbra lineari e non appariscenti, i lunghi capelli corvini arrivavano alle spalle e rendevano i suoi movimenti sinuosi e femminili.

Mi ricordai di quel pomeriggio d’estate in cui avevo passato il tempo ad intrecciare i fiori nella sua chioma luminosa. Uno ad uno, avevo incorniciato i fiori di campo nelle sue folte ciocche color pece. Quando si alzò dall’erba e i capelli si mossero insieme alle folate di vento che soffiavano dolci, mi apparse come madre natura. Racchiusa in quel suo vestitino color perla e con i fiori che le adornavano i capelli, mi apparse come la figura più celestiale che io avessi mai visto. Un angelo venuto a salvarmi dall’oscurità in cui la mia anima era caduta.

Sospirai, preda dell’angoscia.

No, pensai, non possono rimanere solo i ricordi. Quei momenti devono ancora far parte del suo presente, non possono rimanere solo racconti sbiaditi del passato.

-Alice, non lasciarmi solo, ti prego. Non mi abbandonare- sussurrai con la voce rotta dal senso di pianto che diventava sempre più forte e presente.

In risposta sussultò e le mani raggiunsero la gola. Queste la attorcigliarono come un boa affamato e premettero le dita sottili e stanche con forza sullo strato sottile di pelle. Alice tossicchiò qualcosa e il suo respiro divenne più affannoso di prima; provò a biascicare qualcosa, ma non uscì nulla, come se avesse la gola troppo riarsa anche solo per chiedere un po’ d’acqua.

Quante volte mi ero visto fare quel gesto quando avevo sete? Infinite. Avrebbe dovuto apparirmi famigliare, normale e non nuovo e shoccante. Eppure perché lo era? Perché mi ritrassi di scatto davanti a qualcosa che riempiva costantemente le mie giornate?

Provai a sciogliere quel gesto nervoso e possessivo. Non riuscii a sbrogliare la presa, ma mi parve di sentire un ringhio sommesso. Mi ritrassi ancora, troppo scosso per assistere a una scena del genere.

Che cosa significava ciò? Sicuramente mi ero sognato tutto. Insomma, non era minimamente possibile che quei gesti fossero associati a ciò che ero io: avevo sempre cercato di non farmi vedere assetato da Alice. No, non erano gesti associati, era solo la mia immaginazione che volava.

Sentii dei passi provenire dal piano sottostante. Delle voci rimbalzarono veloci lungo le scale. Alcuni battiti pulsavano affaticati.

Riconobbi la voce amorevole di Virginia, il tonfo stanco dei passi della signora Margaret. Mi alzai velocemente e mi misi a sedere sulla sedia di vimini con in braccio la bacinella dell’acqua.

La porta si aprì con uno scatto poco gentile. Mi voltai e vidi la figura del dottor Scott.

Quest’ultimo era un ometto alto poco più di Alice, ma dall’aria austera, seria, inflessibile.

-Bene, bene, bene- esclamò. –Vediamo come va oggi…-

Posò la costosa borsa di pelle ai piedi del letto e sì avvicinò con aria irrompente alla fragile Alice che, riversa nel letto e abbandonata la posizione di poco prima, boccheggiava in cerca di aria per i suoi polmoni.

La visitò frettolosamente, sfiorandole distrattamente con la mano la fronte febbricitante e ascoltando fuggevolmente il battito stremato del suo cuore. In tutto ci mise, sì e no, cinque minuti.

-Non vedo miglioramenti- sentenziò, la voce ridotta a uno sbuffo insofferente.

Virginia si avvicinò al fianco di Margaret, che era scoppiata in lacrime. Le diede qualche pacca sulla spalla. Io rimasi seduto sulla sedia con ancora la bacinella in grembo. Fissavo il letto e cercavo di realizzare ciò che il medico aveva detto: “Non vedo miglioramenti”.

Non c’erano miglioramenti, Alice stava ancora male o forse stava peggiorando. Ma una cosa rimaneva certa: stava morendo, l’avrei persa.

-Ma non si può fare niente?- mi ritrovai a domandare, sorprendendomi di quanto fosse disperato quel mormorio d’aiuto.

Il dottor Scott, ripresa in mano la sua borsa di pelle, mi schioccò uno sguardo di ghiaccio. Immagino che se non fossi stato un vampiro, quello sguardo avrebbe dovuto mettermi a tacere.

-Allora?- aggiunsi, questa volta più convinto e acido.

-No- rispose con voce piatta. –Non si può più fare niente-

Chiuse la cerniera della borsa con un gesto secco e se la mise in spalla, pronto per sgusciare fuori dalla porta.

-È impossibile- esortai. –Una cura deve esserci per forza. Lei è un dottore, dovrebbe fare di tutto per aiutarci e non lasciarci alla nostra sorte-.

Mi alzai dalla sedia e mi disposi davanti al prepotente e al meschino che era. La sua pancia scoppiava, stretta com’era nel panciotto. Mi squadrò con sguardo accusatore.

-Chi è lei per dire ciò?- puntualizzò inacidito il medico.

-Sono un amico di famiglia e ci tengo al fatto che tutti i miei amici ricevano le cure necessarie per guarire- osservai la borsa, notando che, a parte lo stetoscopio, non aveva utilizzato nessun altro attrezzo medico.

Si accorse della mia accusa silenziosa. -Mi sta accusando di non essere un bravo medico? Lo sa chi sono, io? Io sono il medico più ricercato della contea. Tutti desiderano avere la mia consulenza, e lei sta criticando il fatto che io non faccia bene il mio lavoro?- si alzò sulle punte per riuscire a parlare guardandomi negli occhi.

-In questa casa non ha fatto tutto il possibile. C’è sempre una speranza e lei la sta buttando via. È disposto a far soffrire una famiglia per la perdita di un caro solo per il semplice gusto del denaro?- mormorai serio. Lo vidi irrigidirsi, le mani strette intorno alla tracolla della borsa, indeciso se scappare dai suoi doveri o affrontare i problemi come un vero uomo. Come un vero medico.

Mi guardò perplesso, perso nelle sue congetture. Margaret singhiozzava ancora, sempre più intensamente. Il suo dolore era talmente forte che riusciva a riempire il silenzio e il buio di quella stanza morta. Virginia persisteva nel vano tentativo di consolarla.

Il dottore si guardò intorno: sembrava esaminare tutto quello che la stanza gli poteva offrire. Poi fermò lo sguardo sulle due donne che piangevano sull’uscio della stanza. Corrugò le sopracciglia e abbassò lo sguardo verso la punta delle sue scarpe lucide.

-Se lei è un loro amico, conosce la situazione, non è vero? Sa che non posso permettermi di aggravare la loro economia. Sicuramente se perdessero qualche membro della famiglia, farebbe solo bene al loro portafoglio- puntualizzò secco.

Strinsi i pugni, combattendo contro la voglia di balzargli alla giugulare e porre fine a cotanta cattiveria e povertà di sentimenti. Non vedeva quanto stavano già soffrendo? Quanto stavamo già soffrendo? Era veramente disposto ad aggravare quel dolore solo per non pesare sul denaro?

Lo guardai con aria critica per poi guardare nella direzione dove l’angoscia era più intensa e pulsante: la madre di Alice. Tornai a fissare gli occhi strafottenti del medico, incrociando le braccia sul petto. Lui, in risposta, schioccò la lingua e scosse convinto la testa.

-Non si preoccupi, mi occuperò io del denaro per pagare la medicina- dissi con sguardo più implorante.

Lo vidi traballare a quella mia esclamazione. Fece spaziare lo sguardo sul pavimento, ragionando sul da farsi. Sospirò arreso.

-E va bene- esortò, tirando fuori dal taschino del panciotto il blocco sul quale scriveva le ricette mediche

 

   
 
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