Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    29/09/2010    1 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Con un leggero scossone, i motori della nave aumentarono la potenza. Nadia alzò gli occhi sul finestrino, accanto a sé. Si erano appena introdotti lungo la spaccatura che si apriva sul fondo del lago, e ora procedevano scendendo lentamente, con i motori che spingevano per contrastare la forza di gravità.

«Va tutto bene?»

Nadia si volse, sbarrando leggermente gli occhi. In piedi alle sue spalle, John la stava guardando con una certa apprensione, anche se cercava di dissimulare le proprie emozioni dietro un sorriso.

«Sì, grazie» rispose, stringendo lievemente la mano che lui le aveva posato sulla spalla. Senza aggiungere nulla, John si sedette al suo fianco.

«Incredibile, vero?» disse ammirato, guardando fuori dal finestrino. Nadia annuì. Il lungo condotto di pietra che dal fondo del lago conduceva fino alle spoglie del Noah, era stato completamente scavato da mani umane. Una lunga scalinata incrostata di fango e putredine si attorcigliava ad un maestoso pilastro scolpito nella roccia viva. Tutt'attorno, raffigurazioni rupestri e simbologie che rimandavano ad una fede antica e ormai persa nel tempo, davano bella mostra di sé, sgusciando dal buio come spettri inquietanti, tratti dall'oscurità dal freddo bagliore dei fari della nave.

«La gente che ha creato questo posto doveva possedere conoscenze davvero straordinarie» mormorò John, scuotendo il capo. «Guarda la perfezione di quelle statue scavate nella roccia... assolutamente incredibile».

Nadia spostò svogliatamente gli occhi sulle due grandi statue che ornavano la nuda parete che avevano di fronte. Erano alte all'incirca come un palazzo di sei piani, e raffiguravano due esseri dall'aspetto umano ma dal volto mostruoso. Nadia aggrondò. Chissà perché chi aveva scolpito quelle statue, aveva scelto di raffigurare i suoi dei come fossero mostri?

Forse perché lo siamo, pensò. Anche se, probabilmente, non più di un qualsiasi essere umano.

Atlantidi, uomini... in fondo, che differenza faceva? Uno valeva l'altro. Creatori e creature, imperfetti entrambi; esseri che passavano la vita a ricercare... cosa? Nemmeno lei sapeva cosa stava cercando. Ma forse il punto era proprio quello. Nella vita non esiste altro che la ricerca di qualcosa che continua comunque a sfuggire. Tutto il resto, non sono che sciocche illusioni, volte a mascherare la fame di ciò che non si può avere.

«Stiamo per raggiungere il Noah, guarda».

Nadia si sporse, premendo il volto contro il vetro. Una luce diffusa illuminava la profondità del passaggio, allungando le ombre dei numerosi speroni di roccia che sporgevano minacciosamente dalle pareti. Man mano che scendevano, la luce tendeva a farsi sempre più intensa, finché le navi non sbucarono in una enorme cavità nascosta, dal soffitto a volta scavato interamente nella pietra e affrescato con straordinarie raffigurazioni di esseri mitologici dalla forma umana. La luce, che si rifletteva sulla volta, irradiandosi da qualche sorgente sconosciuta e nascosta, si riverberava poi in tutta la caverna, trasformandola quasi in una parentesi di cielo immersa nella profondità della terra.

Le navi rallentarono ancora. Nadia sentì il rombo dei motori aumentare, mentre lo scafo beccheggiava lievemente nell'aria. Una dopo l'altra, le navi si affiancarono, adagiandosi sopra un'enorme spiazzo dalla forma ellittica, interamente circondato da edifici diroccati. I vettori si posarono lievemente; quando toccarono il suolo, un rumore metallico riecheggiò in tutta la caverna, come un tuono lento e sordo.

«Siamo arrivati» fece John. Nadia scosse il capo.

«Non ancora» disse.

Ci fu un clangore: e la superficie sotto le navi cominciò a sprofondare lentamente. John, stupefatto, si avvicinò al vetro, per guardare meglio. Le tre navi stavano progressivamente scendendo nelle profondità del Noah, lasciandosi indietro un paesaggio quasi lunare, costituito da abitazioni abbandonate scavate nella roccia, proliferate sul dorso di quella immensa nave addormentata come una colonia di funghi.

«Cosa può mai essere successo, per produrre una tale catastrofe da cancellare tutta quanta una popolazione e far sprofondare quaggiù un'intera città?» mormorò John. Nadia distolse gli occhi, stanca di guardare.

«Sono morti, ecco cos'è successo» rispose semplicemente. Lui le lanciò un'occhiata cupa, ma non replicò.

Man mano che scendevano, tutto intorno si fece sempre più buio. Quando l'oscurità era ormai completa, il piano si arrestò, risuonando rumorosamente nello spazio vuoto che lo circondava. Una serie di luci azzurrognole si accese lungo tutto lo scafo interno del Noah, illuminandone debolmente gli austeri interni di metallo. John sorrise, esterrefatto. Si trovavano al centro di una delle ultime navi ammiraglie di Atlantide, il leggendario Noè Bianco. La nave che custodiva una delle Pietre Sacre più importanti del suo popolo, il Trismegisto.

Il piano su cui poggiavano le tre navi ruotò su se stesso, per fermarsi dopo aver compiuto un giro di novanta gradi. Un ponte di metallo fuoriuscì dalla parete di fronte, collegandosi automaticamente alla piattaforma. John continuava a guardarsi attorno stupito. Era incredibile, come tutto avvenisse quasi fosse stato programmato. Era come se quella nave sapesse già cosa doveva fare, senza bisogno di ricevere istruzioni dall'uomo. Sempre più emozionato dalla grandezza che, per riflesso, gli derivava dall'appartenere a quel popolo eccezionale che aveva creato tutto ciò che lo circondava, John scattò in piedi, visibilmente eccitato.

«Ti rendi conto?» disse, al colmo dell'emozione. «Siamo nel luogo in cui i nostri antenati hanno creato la loro civiltà. Guardati intorno: tutto, qui, trabocca della loro scienza e della loro grandezza».

Nadia fece una smorfia, fissandolo con astio. «Adesso parli come Gargoyle» fece.

«Gargoyle era uno stupido» ribatté lui sprezzante, scrollando le spalle. «Non aveva alcuna idea di quello che faceva. Credeva di conoscere Atlantide, ma era solo uno sciocco che si è trovato tra le mani un potere più grande di lui».

«Tu... tu conoscevi Gargoyle?» fece lei, stupita. John annuì di mala voglia.

«Non personalmente, certo. Ero ancora troppo giovane. Ma so quello che ha fatto. Quando la mia associazione ha scoperto quali erano i suoi reali progetti, ha cercato di fermarlo. Ma ormai, era troppo tardi».

«Quindi, avete preferito lasciarlo agire indisturbato?» disse lei, sconvolta. John aggrondò.

«Ti ricordo che io non c'entro» fece. «Comunque, se la vuoi mettere su questo piano, sì. La mia associazione ha innanzi tutto il dovere di proteggere le ultime famiglie che discendono dagli antichi Atlantidei, nascondendole da coloro che intendono trovarle per far loro del male».

«E perché né io né mio padre sapevamo che esisteva una società del genere?» fece Nadia. «Perché ci avete lasciato da soli a combattere contro Gargoyle? Potevate aiutarci, se è vero che eravate così interessati a noi».

«Pensavamo foste morti» disse John. «Credevamo che la tua famiglia fosse scomparsa durante la guerra di Tartesso. Per questo abbiamo appoggiato Gargoyle, in un primo momento. Perché insieme a lui si trovava l'ultimo discendente della famiglia reale di Tartesso, l'ultimo appartenente a alla stirpe Reale, tuo fratello Vinasys. Ma quando tu e tuo padre siete riapparsi... beh, posso solo immaginare lo stupore che in quel momento avrà colpito i miei superiori».

«Mi stai dicendo che avete fornito voi a Gargoyle i mezzi per fare quello che ha fatto?» sibilò lei, incredula. «Mi stai dicendo che se non fosse stato per voi...»

«Lui non avrebbe mai fatto risorgere il potere di Atlantide? Probabilmente ci sarebbe riuscito lo stesso» ribatté John. «Magari gli ci sarebbe voluto più tempo, questo sì... Ma il punto, è che quando abbiamo scoperto che aveva intenzione di utilizzare la tecnologia di Atlantide per i suoi sporchi fini, abbiamo capito che non era altro che un pazzo. Per questo ci siamo ritirati, negandogli ogni ulteriore appoggio».

«Più che altro vi siete rintanati al sicuro nell'ombra, lasciando a mio padre l'onere di dare la propria vita per sconfiggerlo» ringhiò lei. John serrò la mascella, abbassando lo sguardo.

«Capisco la tua rabbia» mormorò. «Ma devi cercare di capire...»

«Cosa?»

«Noi ci battiamo per una causa più grande» fece, sorridendo con entusiasmo. «Non ci interessa fare la guerra agli umani. Noi vogliamo solo poter riavere quello che ci appartiene, la nostra eredità».

Nadia aggrondò. «Ma di che parli?»

John trasalì, come se le parole di lei l'avessero improvvisamente rapito dal mondo in cui si era rifugiato con i propri pensieri.

«Ci sono molte cose che dovrei spiegarti, ma...»

«Maestà, il comandante mi ha ordinato di riferirle che stiamo per uscire».

John strinse le labbra, infilando le mani in tasca e girandosi di spalle. Nadia si alzò in piedi, spostando gli occhi dal volto di lui a quello del soldato.

«Arrivo» disse. Mentre gli sfilava accanto, John la fermò, trattenendola per un braccio. Lei si irrigidì, tenendo lo sguardo sempre fisso avanti a sé.

«Nadia, devi credermi» le sussurrò. «Io non ti farei mai del male. Tutto quello che è successo, se avessi potuto, lo avrei evitato».

«Il fatto che andiamo a letto insieme, non significa che io debba avere con te rapporti di altro genere» fece lei, torcendo gli occhi a guardarlo. «Ci divertiamo; e per quel che mi riguarda, va bene così. Non mi interessano le tue scuse, o le tue motivazioni. Puoi benissimo tenertele».

«Nadia, per favore...»

Ma con un gesto deciso lei si strappò alla sua presa, lasciandolo solo nella stanza.

 

 

*

 

 

«Secondo voi siamo arrivati?»

La testa di Sanson fece capolino da dietro le casse. Sporgendosi, sbirciò attorno per qualche istante, prima di tornarsi ad accucciare a terra, al suo posto.

«I motori si sono fermati» fece. «Sembrerebbe che siamo al capolinea...»

In quel momento, le porte della stiva si aprirono. I soldati si riversarono al suo interno, e la carlinga si riempì di un vociare intenso e fastidioso. Con un frastuono metallico, il portellone della stiva si schiuse: ordinatamente, i soldati presero a scemare all'esterno.

«Finché non ci saremo liberati di questi rompiscatole, sarà difficile per noi andarcene» mugugnò Sanson, squadrando alcuni soldati che sembravano non avere molta fretta di abbandonare la nave. Rebecca , accanto a lui, si inquietò.

«Eppure dobbiamo muoverci» disse. «Non ci resta molto tempo».

«E ancora non sappiamo come fare a tornare a casa» lagnò Hanson.

Jean si spostò accanto a loro. Sporse la testa, quindi si riabbassò.

«Per questo avrei un'idea» disse. Sanson e Hanson si raccolsero accanto a lui. «Ma potrebbe essere pericoloso».

«Che hai in mente?» fece Sanson.

«I motori sono ancora accesi, quindi il pilota non ha ancora lasciato la cabina» disse. «Se riuscissimo a raggiungerla e a costringerlo a riportarci di sopra...»

«Non è che la cosa mi suoni molto bene» fece Hanson. «Mi sa tanto di missione suicida».

«Però ha ragione» saltò su Sanson. «Se riuscissimo ad impossessarci di questo coso, potremmo tornare su senza problemi».

«A meno che non decidano di abbatterci prima che riusciamo a sollevarci da terra».

«È un rischio che dobbiamo correre» fece Jean. «Non abbiamo altra soluzione. Presto questo posto si trasformerà in una immensa astronave, in partenza per Atlantide. Se non vogliamo svegliarci su un altro pianeta, allora non ci resta che tentare il tutto per tutto».

«Io sono con te» fece Sanson. «Anzi, sai che ti dico? Voi andate a cercare Marie. Al resto pensiamo io e Hanson».

«Come no» mugugnò Hanson.

«Sei sicuro?» fece Jean, incerto. «Voglio dire...»

«Jean, con tutto il rispetto, ma tu non sei proprio il massimo quando si tratta di combattere» fece Sanson. «Magari sei bravo a usare il cervello, ma per queste cose serve anche un po' di addestramento. Senza offesa».

Jean sospirò, rassegnato.

«Va bene, come vuoi».

«Allora dividiamoci» fece Rebecca. «Io e Alex cercheremo di salire sulla seconda nave, mentre tu, Jean, ti occuperai dell'altra. Ci ritroviamo tutti qui, va bene?»

«Perfetto».

«I soldati sono usciti» sussurrò Hanson. «Sembra tutto tranquillo».

«Presto» fece Jean, indicando alcune casse accatastate in un angolo, da cui spuntavano alcuni indumenti ammucchiati e confusi tra loro. «Prendiamo le divise che sono là dentro e indossiamole. Così sarà più facile muoversi in mezzo a tutti gli altri».

«Non credi che sarà rischioso?» fece Hanson. Jean sorrise, cercando dentro la cassa e lanciandogli una giacca, la più larga che fu in grado di trovare.

«La gente cerca sempre ciò che non sa di avere davanti agli occhi» disse, allegro. Hanson sbuffò.

«Ora mi sa ancora più rischioso» brontolò.

«Da quando sei diventato così fifone?» gli fece Jean, sollevando una giacca che poi ricacciò dentro al mucchio. Hanson aggrondò.

«Essere coraggiosi non significa mica essere incoscienti» borbottò, infilando una manica dopo l'altra. La giacca era stretta e dovette contorcersi un po' prima di riuscire a indossarla.

«Se siamo pronti, andiamo» fece Jean, calcandosi un berretto militare in testa. «Non parlate con nessuno, tenete lo sguardo basso e mantenetevi defilati. Se tutto va bene, non dovremmo avere grossi problemi».

«Se tutto va bene» fece Alex, perplessa, abbottonandosi la divisa. «Che il cielo ci aiuti».

 

 

*

 

 

«Di qua, presto».

Alex seguì Rebecca su per la stiva del secondo vettore, e da lì lungo lo stretto passaggio che collegava la stiva alle cabine. Erano state fortunate a non trovare nessuno, per il momento. Ma per quanto avessero già frugato in diverse stanze, non avevano ancora trovato alcuna traccia di Marie.

«Forse non è qui» suggerì Alex. Rebecca scosse il capo.

«No, è qui. Me lo sento».

In quel momento, un gruppo di soldati spuntò da dietro l'angolo del corridoio. Alex impallidì, voltandosi verso Rebecca con il volto cereo.

«E adesso?» sussurrò, muovendo appena le labbra.

Rebecca si guardò intorno. Da una stanza lì a fianco, spuntava un carrello carico di biancheria sporca. Lei sorrise, indicandolo con un cenno del capo.

«Tu reggimi il gioco, e cerca solo di non farti prendere dal panico».

Rebecca afferrò il manico del carrello della biancheria e uscì nel corridoio. Alex le camminava dietro, lo sguardo fisso a terra e le gambe che le tremavano. Dopo pochi metri, si incontrarono con il gruppo di soldati, che si fece da parte per farle passare. Qualcuno disse qualcosa, e ci furono delle risate volgari. Rebecca si scostò camminando radente al muro, il volto seminascosto dalla visiera. Alex, subito dietro di lei, non osava alzare gli occhi da terra. Ancora un po' e il suo cuore sarebbe esploso per la paura.

Alla fine, i soldati passarono loro accanto senza degnarle più di tanto, lanciando loro solo qualche occhiata lasciva. Non appena li sentirono lontani, Rebecca si girò a metà verso Alex, strizzandole l'occhio con un sorriso.

«La prova del fuoco» sussurrò. «Non male, vero?»

«Dovrei strozzarti» replicò Alex, con un sospiro sollevato.

Continuarono a cercare ovunque, fermandosi davanti ad ogni porta incustodita. Rebecca si premurava che non ci fosse nessuno nei dintorni; quindi entrava, senza troppe cerimonie. Se non trovava nulla, usciva dopo un attimo.

«Non ho più idea di dove siamo» le confessò Alex, mentre percorrevano l'ennesimo corridoio, uguale a tutti gli altri. «Ho paura che ci siamo perse».

«Non importa. Finché non troverò Marie, non uscirò comunque da questa nave».

Alex sospirò, guardandosi alle spalle. Chissà perché ma aveva una pessima sensazione.

Raggiunsero un bivio. Il corridoio terminava con delle scale, con un passaggio più stretto al termine del quale si raggiungeva un ripostiglio. Sembrava un angolo della nave scarsamente utilizzato. Nel ripostiglio trovarono casse impolverate e vecchi raccoglitori ingialliti. Le scale conducevano invece a un vano superiore, che si affacciava sulla sala motori. Senza pensarci su due volte, Rebecca si issò sulle scale e scomparì oltre la botola.

«Dove vai?» le sibilò dietro Alex, allarmata. Dall'alto della scalinata, Rebecca le fece cenno di restare dov'era.

«Vado a cercare quassù. Tu aspettami lì».

Alex si strinse nelle spalle, mentre Rebecca scompariva di nuovo. Si accigliò, lanciando occhiate preoccupate alle scale e al corridoio alle sue spalle. Se fosse arrivato qualcuno, non avrebbero avuto molti luoghi in cui nascondersi.

Dopo aver attraversato la botola, Rebecca si ritrovò su una pensilina che correva tutt'attorno ai motori principali. Sotto di sé poteva vedere i meccanici al lavoro, e operai che spostavano macchinari da riparazione da una parte all'altra della sala macchine. Tuttavia, nessuno alzò mai gli occhi a guardarla. E poi, se anche qualcuno lo avesse fatto, non avrebbe visto altro che un soldato come gli altri.

Camminò lungo tutta la pensilina, il rumore dei suoi passi coperto dal clangore che emettevano le turbine meccaniche. C'erano alcune porte, ai lati della carlinga. Sembravano ripostigli, o officine. Rebecca ne aprì qualcuna: non si era sbagliata. Per lo più erano depositi in cui giacevano inutilizzati attrezzi meccanici e pezzi di ricambio puzzolenti di polvere e di grasso. Li lasciò perdere, percorrendo in fretta tutta la pensilina. Stava per darsi per vinta, quando arrivata in fondo, sul versante opposto, trovò una porta chiusa. Incuriosita, provò a bussare ma non arrivò alcuna risposta.

«Marie» provò a chiamare. «Marie, sei lì dentro?»

Niente.

Stringendo le labbra, Rebecca, fece per ritornare da Alex, decisa a trovare un modo per aprire quella porta. Peccato che in quel momento, dall'altra parte del ponte, Faloe e Lucano avessero appena varcato la botola, diretti esattamente dove si trovava lei.

Un vero colpo di fortuna.

Rebecca masticò un'imprecazione, incerta su cosa fare. La prima porta utile, era almeno dieci metri più avanti.

Si mosse, senza mai perdere d'occhio il profilo dei due, che ora avanzavano praticamente affiancandola, dall'altra parte del ponte. Parlavano fittamente, e non sembravano averla ancora notata. Lei camminò con le spalle dritte, cercando di sembrare disinvolta, il volto e i capelli nascosti dal cappello militare calato fin sopra gli occhi.

Rebecca contava i passi che la separavano dalla porta. Faloe e Lucano svoltarono l'angolo proprio in quel momento. Ora erano a meno di venti metri da lei. Con un sospiro, si avvicinò al ripostiglio, girando la maniglia.

Oh, no...

Perché non si apriva?

«... e per quanto sia, non credo che ti faccia bene mangiare tutta quella robaccia. Finirai col rovinarti la salute...»

Apriti, maledizione!

Rebecca agitò la maniglia. Sentì Lucano rispondere qualcosa, che fece ridere Faloe. Ormai, erano dietro di lei.

«Forse hai ragione, ma non riuscirei mai a rinunciare a certi piaceri della vita...»

I passi sul reticolato di metallo risuonarono vicinissimi. Disperata, Rebecca spinse la porta. La maniglia girò e con uno scatto la porta si aprì, facendola quasi cadere all'interno. In tutta fretta, si richiuse la porta alle spalle proprio mentre Faloe vi passava davanti, gettando uno sguardo incuriosito al suo interno. Con il cuore in gola, Rebecca si abbandonò contro la porta, ascoltando i passi dei due farsi sempre più lontani.

«Avevo ragione, allora» mormorò, passandosi una mano sulla fronte. «Marie deve trovarsi in quella stanza».

Calmatasi, fece per socchiudere la porta. Girò la maniglia e tirò, ma la porta non volle aprirsi. Mordendosi le labbra, provò a tirare più forte, ma la porta non voleva cedere.

Oh, no. Oh, no, no, no...

Si aggrappò alla maniglia con entrambe le mani, ma per quanto tirasse, non ottenne risultato. Era chiusa dentro.

«Non puoi farmi questo, maledetta bastarda, non adesso!»

Rebecca tirò la maniglia con tutte le sue forze. La sentiva gemere sotto le sue dita, e sentiva il cigolio della serratura. Con speranza crescente, continuò a tirare.

Con un suono secco, la maniglia si staccò dalla porta. Rebecca, perdendo l'equilibrio, rotolò a terra, andando a sbattere contro la parete, urtando una scaffalatura metallica alle sue spalle che oscillò pericolosamente.

Fece appena in tempo ad alzare gli occhi, per vedere che una cassetta di legno le stava cadendo in testa. La fissò sgomenta, praticamente senza riuscire a muoversi.

Non ebbe nemmeno il tempo di reagire.

 

 

*

 

 

«Prego, Maestà. Da questa parte».

Nadia seguì Atys attraverso un ampio salone, le cui pareti di metallo azzurro erano adorne di sofisticate trame dalle linee intrecciate e multicolore. Posandovi sopra gli occhi, soffocò il proprio stupore dietro un gemito. Era come attraversare un denso intrico di rami aggrovigliati, splendenti del colore dell'arcobaleno, che cambiavano lucentezza e sfumatura a seconda del punto da cui li si osservava.

«Sembra un roseto enorme, è incredibile» mormorò. Atys alzò gli occhi al soffitto, là dove le trame si aggrovigliavano più fittamente tra loro, disegnando figure stilizzate che emergevano fugaci in un continuo riflusso di immagini, le più diverse.

«Sì, è davvero stupefacente» commentò sinceramente ammirato. «Non immaginavo che il nostro popolo potesse aver raggiunto in passato una tale magnificenza».

Uno fitto scalpiccio attirò l'attenzione di Nadia, che abbassò gli occhi sui soldati che attraversavano a gruppi di tre o quattro il salone, in varie direzioni. Sembravano già perfettamente a loro agio, capaci di muoversi in quella immensa nave come se la conoscessero da sempre.

«Sembra che i vostri uomini si siano ambientati molto in fretta» disse, rivolgendosi al Comandante con uno sguardo di sottecchi. Lui sorrise, chinando leggermente il capo.

«Vi ringrazio per averlo notato, Maestà» fece. «In effetti, sono riusciti a tracciare una planimetria essenziale della nave in pochissimo tempo. Devo dire che sono molto soddisfatto di loro. Sono bravi ragazzi».

«Mi stupisce sentirla parlare così» fece lei, sorridendo. «Non credevo che nel suo cuore ci fosse spazio per sentimenti quali l'affetto, o la stima».

Lui aggrondò. «Mi spiace se vi ho spinto a credere questo di me» fece. «Non era mia intenzione».

«Veramente io non so nulla di voi» disse lei, spostando con fare indifferente lo sguardo dal volto di lui a ciò che li circondava. «Tutto quello che so, è quello che ho avuto modo di vedere».

«Ciò che ho fatto, è legato unicamente al dovere che mi ha spinto fino a voi» disse lui, ponendosi a fianco a una porta e cedendole il passaggio. Nadia ringraziò con un veloce cenno del capo. «Ma anche io possiedo dei sentimenti, proprio come tutti gli altri».

«E quali sarebbero?»

Lui sorrise, ma sembrò più che il volto gli si contraesse in una smorfia dolorosa. «È complicato» bofonchiò.

«Provi a spiegarmelo».

Atys sospiro. La guardò intensamente, quindi «sono nato nella famiglia dei Gorall» disse. «La mia è una famiglia tra le più antiche di Atlantide, da generazioni presente nella regione di Bassora. Il nostro blasone affonda di diritto nei secoli».

Nadia tacque, non particolarmente impressionata.

«Rimasi orfano quando ero ancora un bambino. Avrò avuto sì e no tre anni... l'ultimo esponente della mia famiglia. Da allora, sono stato accudito da un uomo, il Comandante Plutarco, ora nella Guardia Reale».

«Un uomo?»

«Un essere umano» fece Atys, schiarendosi la gola. «Un uomo buono».

«Credevo odiasse gli esseri umani».

Atys strinse gli occhi. «Io non l'ho mai detto».

«Ma l'ha fatto capire» ribatté lei. Lui incrociò le mani dietro la schiena.

«Il mio odio non va all'uomo in generale, ma va a quella tipologia di uomo che rappresenta il suo esempio peggiore» disse, facendosi arcigno. «I miei genitori vennero entrambi uccisi da ribelli infiltratisi in casa mia, durante la notte. Io dormivo, non mi accorsi di nulla. Plutarco fu ferito nel tentativo di difendere i miei genitori... purtroppo non ne fu in grado, ma almeno riuscì a metterli in fuga, salvando la mia vita. Da allora si è preso cura di me, istruendomi e facendo di me un soldato. Ciò che sono, lo devo unicamente a lui».

Nadia tacque. «Non lo sapevo» mormorò. «Mi dispiace».

Atys sospirò. «Non vi scusate, non è necessario».

Lei si fece pensierosa. Quindi «la vostra è una storia molto simile a quella del tenente Anuri» azzardò. Si volse a guardarlo. Atys si irrigidì.

«Ve l'ha raccontato lei?» chiese. Nadia disse di sì.

«Con l'unica differenza che, al contrario di me, lei non ha avuto nessuno a proteggerla» mormorò. Per un attimo il suo volto si fece scuro, quindi «purtroppo, storie come la mia e quella di Faloe sono molto frequenti, sul nostro pianeta. La guerra che i ribelli hanno scatenato ha come risultato che ormai non si contano più le persone che hanno perso tutto quello che avevano: casa, famiglia... quando tutto finirà, dovremo occuparci di questa massa di disperati. Non so davvero come faremo a dar loro la speranza per ricominciare».

«Ma perché è scoppiata la guerra?» chiese Nadia. Era una domanda semplice, eppure quando Atys la guardò, le sue pupille guizzarono, come cercassero di fissare qualcosa che continuava a sfuggire.

«Io nacqui che la guerra era già iniziata da anni» disse. «Io...»

Nadia si fece perplessa. Lui si adombrò. Si volse, confuso; poi il suo volto si rasserenò, improvvisamente.

«Ecco, siamo arrivati» disse.

Nadia sollevò gli occhi sul portale che avevano di fronte. Un immenso occhio, racchiuso in un ovale, galleggiava su una mobile coltre di luce azzurra, sotto la cui superficie saettavano bagliori simili a lampi. Affascinata, Nadia allungò la mano, fino a sfiorarne la superficie: immediatamente questa reagì, agitandosi e gorgogliando; alcune protuberanze liquide germogliarono sopra di essa, sollevandosi e spingendosi verso di lei come nel tentativo di raggiungere la sua mano.

«Sembra viva» mormorò, ritraendosi. Atys annuì.

«Lo è davvero».

Nadia abbassò la mano e il portale tornò a farsi completamente liscio. Sotto la superficie lucida, le scariche di elettricità che saettavano improvvise si fecero immediatamente più lente, e quiete. Lei fissò come ipnotizzata le continue trasformazioni che la luce imprimeva a quella materia mobile e misteriosa.

«È qui, vero?» mormorò, timida. «Il Trismegisto».

«Pensiamo di sì» fece Atys, gravemente. Nadia chinò il capo.

«Allora ci siamo».

Atys si scostò di un passo, inchinandosi rispettosamente. «Maestà, vi prego di iniziare le procedure di partenza. Attendiamo tutti con ansia di poter tornare a casa insieme a voi, e di potervi presentare finalmente al vostro popolo in qualità di legittima sovrana».

A quelle parole, Nadia impallidì. Quindi «va bene» esalò. «Farò come volete».

 

 

*

 

 

«Rebecca?»

Ma dove diavolo si è cacciata...

Alex girò la testa a destra e a sinistra, cercando di capire dove poteva nascondersi la sua amica. Aveva immaginato che si fosse rintanata in qualche angolo, quando aveva visto arrivare Faloe e Lucano. Lei stessa si era nascosta dentro al ripostiglio, in attesa: e non appena li aveva visti scendere, per poi scomparire di nuovo lungo il corridoio, era guizzata fuori, alla ricerca di quella pazza testarda che non trovava da nessuna parte.

Niente. Sembrava essersi volatilizzata.

«Oh, beh...»

Con un sospiro di rassegnazione, si issò su per la botola, percorrendo nervosamente la pensilina. Provò ad aprire tutte la porte che incontrava, per poi uscire da ogni stanza sempre più scoraggiata. Senza contare che aveva una gran paura di essere scoperta.

In fin dei conti, era Rebecca la testa calda, quella che sapeva reagire prontamente alle situazioni di pericolo. In caso di difficoltà, Alex non avrebbe saputo che pesci pigliare.

«Cavolo, se ti metto le mani addosso...»

Arrivò davanti a una porta chiusa. Provò a girare la maniglia, ma sembrava bloccata. Aggrondando, Alex si guardò attorno con circospezione, alzando la mano per bussare.

Si bloccò poco prima che le nocche sfiorassero la superficie di metallo. Deglutì, mordendosi le labbra. Era sicura di quello che stava facendo?

Se fosse venuto ad aprire qualcuno, non avrebbe avuto idea di come comportarsi. L'avrebbero sicuramente scoperta, e catturata. Non era una bella prospettiva.

Provò ad avvicinare l'orecchio alla porta. Silenzio. Sembrava che non ci fosse nessuno, all'interno.

«Rebecca?» sussurrò. «Sei lì dentro?»

Nulla.

Alex, drizzò il busto, sbuffando sonoramente.

Ma tu guarda.

Stava per bussare, quando udì un gemito provenire distintamente dall'interno. Si gelò, con la mano a un centimetro dalla porta.

«Rebecca...» mormorò tra i denti. Da dietro la porta arrivò un tramestio confuso. Alex si avvicinò, piegandosi in avanti. Un colpo risuonò improvviso, facendola balzare all'indietro con un gridolino strozzato.

«Alex? Sei tu?»

Alex cominciò a tremare. Non si sentiva più le gambe. Si appoggiò al parapetto, chiudendo gli occhi e tirando un sospiro profondo.

«Al diavolo Rebecca! Ma che ti salta in mente?»

«Alex, sono chiusa dentro» disse l'altra. «Vedi se riesci ad aprire».

Alex si chinò sulla maniglia, provando a girarla. Sembrava andasse a vuoto.

«Niente da fare, non funziona» disse. «Ma che hai fatto?»

«Credo di averla rotta»

«Cosa?»

Si passò una mano tra i capelli. Quindi «ascolta, vado a cercare Jean. Lui riuscirà a combinare qualcosa».

«Alex, fai presto. Credo di aver trovato Marie».

Alex si accigliò. «Sei sicura?»

La voce di Rebecca si fece più sottile. «Penso sia nella stanza a fianco. Vi ho visto entrare quei due, prima di finire bloccata qui dentro».

Alex si volse a guardare. C'era un'altra porta, in effetti, poco più avanti. Provò ad avvicinarsi. Non giungeva nessun rumore dall'interno e la maniglia non girava. Tornò indietro.

«Sembra difficile riuscire a entrare» mormorò. «Comunque troveremo il modo. Vado a cercare Jean. Tu non fare stupidaggini».

«Fai presto» la redarguì Rebecca.

Fai presto, una parola, pensò lei, allontanandosi silenziosa. Tutto quello esulava dalle sue capacità. Il massimo con cui aveva avuto a che fare, nella sua vita, era stato organizzare le lezioni di Jean, e occuparsi dei seminari da tenere durante i suoi corsi. Ma per quanto fosse, gestire una classe di centosessanta studenti non era minimamente paragonabile all'aggirarsi sola in una astronave aliena, con la costante minaccia di essere scoperta e catturata.

«Se esco viva da tutto questo, giuro che non metto più piede fuori casa per un mese» borbottò, mentre si calava giù per la botola.

No, per un anno!

Ripercorse i corridoi all'indietro, rischiando più volte di perdersi. Dovette ritornare sui suoi passi più di una volta, e ciò non faceva che acuire la sua paura. Fortunatamente, non incontrò nessuno. Sembrava che le navi fossero state abbandonate dal personale.

Fu con grande sforzo che riuscì a imboccare la strada giusta verso l'uscita. Una volta fuori, respirò profondamente, come se fino a quel momento fosse stata in apnea. Fu allora che li vide. Jean e John, che si allontanavano insieme.

«Ma dove...»

Senza pensarci, si mise a seguirli.

 

 

*

 

 

Poco prima, mentre Alex e Rebecca si facevano strada all'interno del vettore su cui erano saliti Faloe e Lucano, Jean si era introdotto su quello in cui si trovava Nadia. Ne aveva percorso i lunghi corridoi, luminosi e freddi, sgusciando negli angoli bui quando incontrava qualcuno, girandosi di spalle là dove non aveva modo di nascondersi, cercando di contenere la propria paura mentre si spingeva sempre più in profondità nelle viscere della nave, là dove sperava potesse essere tenuta prigioniera Marie.

Ma non era solo Marie, quella che sperava di rincontrare. Lo sapeva bene.

Era l'irrazionale desiderio di rivedere Nadia, a spingerlo. Non perché volesse fermarla. Era ancora convinto della scelta che aveva fatto. Pensava ancora, come prima, che sarebbe stato meglio per entrambi, se lei se ne fosse andata. Ma poterla rivedere anche solo per un istante, senza che lei lo notasse, senza che ci fosse bisogno di parlare... era questo che lo induceva ad avanzare sempre più all'interno di quella nave, senza curarsi dei pericoli a cui poteva andare incontro.

Passò davanti a diverse stanze vuote, dietro le cui porte aperte le sedie spostate e le scrivanie ingombre rivelavano ancora la presenza di chi le aveva occupate, fino a poco tempo prima. Avanzava senza fermarsi, lanciando occhiate a destra e a sinistra, anche se sapeva che Marie non poteva trovarsi in stanze come quelle. Era il modo in cui l'avevano presa che glielo aveva fatto capire. Non era stata un'operazione condotta alla luce del sole: per qualche ragione, le persone che l'avevano rapita, l'avevano fatto agendo in modo sospetto, quasi volessero farlo di nascosto. Se avessero voluto, avrebbero potuto farlo davanti a tutti, senza problemi. Invece, avevano agito in due soli, portandoli in un luogo isolato dove nessuno poteva vedere quello che avevano intenzione di fare.

Tuttavia, una cosa non era ancora del tutto chiara. Perché lui e i suoi amici fossero ancora vivi.

Quei due avrebbero potuto ucciderli tutti. Nessuno se ne sarebbe probabilmente mai accorto, una volta abbandonata la nave. Invece, avevano preferito non ucciderli, anche se li avevano lasciati in una situazione non certo delle migliori. E questo era davvero strano.

Magari era stata Nadia, a chiedere che Marie venisse rapita? Avrebbe spiegato il motivo per cui lui e gli altri non erano stati uccisi... Jean scacciò con fastidio quel pensiero. Non poteva essere stata una sua idea. Conosceva Nadia. Il solo fatto che avesse potuto pensarla capace di una cosa del genere, lo disgustò.

Passò davanti a una porta chiusa. La aprì, sbirciandoci dentro velocemente; quindi la richiuse, avendola trovata vuota.

In fondo...

Era davvero sicuro di conoscere Nadia? Il fatto che l'avesse pensata capace di far del male a lui e agli altri, dimostrava esattamente il contrario. Non solo non si fidava di lei, ma non riusciva nemmeno a ricordare cosa li legasse così tanto, da spingerlo a mettere tutta la sua vita in discussione al suo minimo cenno. Perché Nadia esercitava su di lui una tale presa? Per quanto si sforzasse, non ricordava nulla di lei e della persona che un tempo aveva conosciuto, che potesse minimamente ritrovare nella Nadia di adesso. Il sentimento che li legava era ancora così forte da farlo vacillare, ma la razionalità con cui pensava abitualmente gli suggeriva che, in realtà, tutto quello non era che una sua illusione. Erano cresciuti in modo molto diverso, allontanandosi progressivamente dall'immagine che custodivano l'uno dell'altra: lei era diventata una persona sicura, capace, inserita in un mondo che Jean faceva fatica persino a comprendere. Alla fine, lui non era che un semplice professore universitario, un topo di biblioteca. Non conosceva lo sfavillio dei cristalli che adornano le sale da ballo, né le sue mani avevano mai percorso la schiena di una donna il cui lungo strascico di lamé volteggiasse attorno alle sue caviglie sottili, mentre venivano trascinati dalle note di un valzer sotto gli occhi affascinati di nobili signori in abito scuro, e di dame che nascondevano i loro leziosi sorrisi dietro svolazzanti ventagli di seta.

Represse un sorriso. Nemmeno sforzandosi, sarebbe mai riuscito a calarsi in una parte del genere. Non era un principe azzurro. Decisamente, per quel ruolo era molto più adatto uno come Jonathan.

Parli del diavolo...

John uscì da una stanza poco più avanti, imboccando il corridoio senza nemmeno voltarsi. Jean se lo vide passare davanti a pochi metri di distanza. Camminava veloce, le mani in tasca, il capo chino, come fosse immerso in chissà quali pensieri.

Restò per un istante ad ammirane l'andatura sicura. In un certo senso lo invidiava. Si muoveva come se non conoscesse il significato della parola dubbio. Ogni cosa che quell'uomo faceva aveva la forza di risultare assolutamente naturale, per quanto in realtà potesse essere difficile, o faticosa. Si muoveva senza far rumore, camminava nel fango senza sporcarsi, i suoi abiti, anche se sgualciti, gli conferivano comunque un fascino irresistibile. Jean si chiese se esisteva qualcosa, in quell'uomo, che potesse anche solo vagamente assomigliare a un difetto, o essere ricondotto a una caratteristica di scarso pregio.

Decise di seguirlo. Qualcosa, nel suo volto, lo aveva incuriosito. Come una nota di preoccupazione.

Lo vide imboccare a passo svelto un corridoio deserto, per poi percorrerlo fino in fondo. Jean aspettò che scomparisse dietro l'angolo, quindi si incamminò, tranquillo, evitando di far troppo rumore. Quando arrivò in prossimità del bivio, si sporse a guardare. John sostava davanti a una porta, che si aprì silenziosamente, lasciandolo entrare.

Camminando in punta di piedi, Jean si avvicinò. John non si era premurato di richiudere la porta, dietro di sé. Forse era sicuro che nessuno l'avrebbe visto.

Eppure, avrebbe dovuto preoccuparsi. Soprattutto, quando tirò fuori dalla tasca un aggeggio che svitò, per poi posarlo sul tavolo davanti a sé. Jean si avvicinò all'entrata, spalmandosi contro la parete.

Che diavolo era quel coso?

All'improvviso, la luce parve oscurarsi. Jean sussultò. La stanza in cui si trovava John venne come fagocitata all'interno di un muro di tenebra, da cui spuntarono dodici luci azzurrognole, disposte a semicerchio attorno a lui. John, fermo nel centro esatto, aspettava pazientemente, senza fare nulla.

«Agente Fisher, che piacere. Quali sono le novità?»

Jean trasalì. Una voce profonda e roca era sgorgata fuori da quella oscurità compatta, risuonando come se ci si trovasse all'interno di uno spazio enormemente ampio. Si volse, come per controllare di non essere stato risucchiato senza che se ne accorgesse in un posto completamente diverso. Alle sue spalle, c'era ancora il semplice corridoio di metallo della nave.

«La ragazza ha accettato di attivare il Trismegisto» disse John, con disinvoltura. «Stiamo per partire alla volta di Atlantide».

«Questo è un bene» rispose la voce. «Purtroppo, non siamo ancora riusciti a ritrovare le esatte coordinate del punto di impatto del nucleo del Noè Rosso, in cui erano contenute le spoglie di Adam. Ma è questione di poco conto. Presto riusciremo a individuarlo».

«Come farò a sapere quando dovrà essere attivata l'Enneade?» chiese John. La voce risuonò ancora una volta. Fu come se, al suo suono, le deboli luci che brillavano nell'oscurità come tanti fuochi fatui si fossero appannate improvvisamente.

«Saremo noi a comunicarle il momento. È indispensabile che tutto avvenga con la più estrema coordinazione. Se qualcosa dovesse fallire, sarebbe un disastro. É sicuro che la donna sia disposta a compiere il necessario?»

John sorrise. «Farà tutto ciò che le dirò di fare» disse. «Il Consiglio sospetta qualcosa?»

«Nulla che non volevamo sospettasse» confermò la voce. «Per il momento non possiedono una vera leadership. L'uomo di De Molay è ancora vivo, ma non crediamo possa costituire un problema reale».

«Potrebbe sempre interferire» suggerì John. «Conosco Churchill di fama. È un uomo da non sottovalutare».

«Risolveremo il problema».

John annuì. «Avete altri ordini?» chiese.

«Sì» ridacchiò la voce. «Si occupi della persona che sta spiando questa conversazione».

La luce ritornò improvvisamente, lasciando Jean smarrito a guardarsi intorno. John raccolse l'oggetto a forma di cilindro che aveva posato sul tavolo, quindi si volse in direzione di Jean, fissandolo con un sorriso bieco.

«Ciao Jean» fece, estraendo una pistola da sotto la giacca e puntandogliela addosso con aria divertita. «Che sorpresa. Sono davvero contento che tu sia qui».

 

 

*

 

 

I motori continuavano a funzionare al minimo, trasmettendo il loro sordo ronzio a tutta la nave. Hanson e Sanson avevano già abbandonato la stiva, e ora si aggiravano per i corridoi deserti, diretti alla cabina di pilotaggio.

«Siamo stati fortunati» commentò Hanson, volgendo gli occhi attorno a sé «sembra che non ci sia nessuno...»

«Eho!»

«Ma perché non impari a stare zitto, una buona volta?» ringhiò Sanson tra i denti. Hanson arrossì, per poi impallidire rapidamente alla vista di un ufficiale sbucato chissà da dove alle loro spalle, che avanzava a passo svelto verso di loro.

«Hémeis duòin» fece quello, non appena si fu avvicinato. «Kré iskùrein ton bàron, tàkista».

Quell'uomo parlò così velocemente che Hanson e Sanson non riuscirono a scambiarsi più che un'occhiata desolata. Lui li fissò entrambi severamente; quindi tuonò qualcosa che i due ovviamente continuarono a non capire, agitando il braccio in direzione di un punto non ben definito, alle sue spalle.

«Ma che diavolo vuole?» sibilò Hanson, tra i denti. Sanson biascicò qualcosa che suonò vagamente come «non ci capisco un cazzo» mentre si sforzava di tenere le labbra piegate in un conveniente sorriso di circostanza.

«Kinouestze!» ruggì l'ufficiale, piantandosi a gambe larghe davanti a loro. Sanson fece una smorfia, torcendo gli occhi verso il cugino. Con un veloce cenno di intesa, entrambi si volsero a sorridere all'uomo, un istante prima di assestargli un pugno sul volto, contemporaneamente.

L'uomo indietreggiò, portandosi le mani alla faccia. Ancor prima di rendersi conto di quello che stava accadendo, Sanson l'aveva afferrato per la collottola, facendogli sbattere la fronte contro la parete.

«Sogni d'oro» sibilò, sorreggendone il corpo mentre l'uomo si accasciava a terra privo di sensi. Hanson ridacchiò.

«È stato divertente» fece, massaggiandosi il pugno. «Sai, ti confesso che avevo dimenticato quanto potesse essere eccitante, fare di queste cose».

«Almeno finché non ti scoprono a farle» fece Sanson, issandosi il corpo esanime dell'ufficiale sulle spalle, dopo avergli sfilato la pistola dalla fondina. «Ora dobbiamo trovare il modo di liberarci di questo tipo».

«Perché non lo leghiamo e non lo buttiamo in una delle casse della stiva?» suggerì Hanson. «Chi vuoi che lo trovi?»

Sanson lanciò al cugino un'occhiata divertita.

«Diabolico» fece. «Mi piace».

Tornarono velocemente sui loro passi, finché non raggiunsero la stiva. Era pieno di casse e di materiale da imballaggio. Fu uno scherzo legare l'ufficiale e imbavagliarlo. Sanson scelse la prima cassa che gli capitò, ve lo buttò dentro ancora svenuto e poi richiuse il coperchio, sigillandolo con il lucchetto.

«Sbattiamolo fuori» disse al cugino, mostrando i denti in un ghigno.

Spinsero la cassa fino alla rampa, quindi le diedero una bella spinta. La cassa ruzzolò fino a terra, andando a finire accanto alle altre che erano state accumulate lì a fianco con un gran fracasso.

«Così dovrebbe andare» fece Sanson, battendo soddisfatto la mano sulla spalla massiccia di Hanson. «Ora torniamo indietro a finire quello che avevamo cominciato».

 

Il pilota aveva appena terminato l'usuale controllo dei motori. Stava per spegnere tutto, quando due soldati entrarono inaspettatamente nella cabina. Lui si stirò, lanciando loro un'occhiata annoiata.

«Tì bùlestze?» chiese con un sonoro sbadiglio. Il soldato estrasse una pistola dalla fondina puntandogliela dritto in faccia. L'uomo, con le mani ancora alte dietro la testa, impallidì puntando gli occhi sulla canna, e lo sbadiglio gli si congelò in volto in una smorfia di incredulità.

«Ora prenderemo il comando di questo coso» fece Sanson con un ghigno, mentre Hanson prendeva velocemente posto accanto al pilota, con ostentata disinvoltura. «E tu, prova un po' a fermarci».



  
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