Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    29/09/2010    1 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Muoviti».

John agitò la canna della pistola, in direzione dell'uscita. Jean gli lanciò un'occhiata torva, prima di incamminarsi davanti a lui.

«Abbassa quelle mani. Non vorrai che ci scoprano?»

«Se anche fosse?» fece Jean, con una smorfia. «Di che hai paura?»

«Meglio non attirare l'attenzione. Non vorrei che Nadia venisse a sapere che sei qui. Rischieresti di rovinare i miei piani».

«Immagino...»

Jean stava per uscire lungo la rampa della stiva, quando John lo fermò, trattenendolo per un braccio ma senza farlo voltare. Si avvicinò alle sue spalle, premendogli la canna della pistola contro le reni.

«Ti avverto, bamboccio. Prova a fare il furbo, e te ne pentirai. Non ho nulla da perdere, ma tutto da guadagnare; quindi non esiterò a spararti, se sarà necessario».

«Non faccio fatica a crederlo» ghignò Jean, fissando dritto davanti a sé. John rise, battendogli leggermente la canna della pistola contro la nuca.

«Credimi, mi farebbe davvero piacere. Ma vista la situazione, ti offro la possibilità di sopravvivere almeno per un po'. Che ne dici? Affare fatto?»

«Quanto sei generoso».

John lo sospinse in avanti con una risata, quindi presero a scendere lungo la rampa. Continuava a tenere Jean sotto tiro, con la pistola nascosta sotto la giacca che portava arrotolata intorno al braccio.

«Vai a destra».

Jean alzò gli occhi. C'era un montacarichi, poco più avanti. Una volta che vi fu davanti, John allungò il braccio, premendo il pulsante di chiamata.

«Sai dove andiamo?» disse. Jean guardò in alto. La luce che si rifletteva sulla volta della caverna, decine di metri più su, arrivava a lambire leggermente la cavità interna del Noah, splendendo lontana come fosse quasi irraggiungibile.

«Credo di poterlo immaginare».

Le porte del montacarichi si aprirono silenziose. John diede una spinta brusca a Jean, che salì senza fiatare. Una volta che entrambi furono entrati, John premette il pulsante di risalita. Attraverso la fessura delle porte che si richiudevano, Jean lanciò un ultimo sguardo ai numerosi soldati che percorrevano tranquilli l'hangar del Noah, indifferenti a quello che stava accadendo davanti ai loro occhi.

Inutile, pensò. Anche se avesse potuto attirare la loro attenzione, non sarebbe cambiato nulla. Non c'erano amici pronti ad aiutarlo, tra quelle persone.

«Allora, Jean» fece Jonathan con fare sardonico, mentre lo fissava appoggiato alla parete del montacarichi, con le gambe incrociate. «Non vuoi dirmi come hai fatto a seguirci fin qui?»

«Te lo direi volentieri, ma visto il bastardo che sei, credo che mi terrò il segreto».

«Fai il gradasso» rise John. «Sai, mi fai persino tenerezza. Capisco perché Nadia si è innamorata di te. Siete entrambi così dannatamente romantici».

Jean impallidì.

«Lei è ancora innamorata di te, lo sai?» fece John, assolutamente tranquillo. «O meglio, crede di esserlo. Intanto, però, viene a letto con me. Credo che lo faccia per dimenticarti, in un certo senso».

Jean strinse i denti, irrigidendosi.

«Devo dire che la cosa non mi dispiace» continuò John. «Sai, la nostra Regina ha un po' l'animo della puttana. È una che sa cosa vuol dire divertirsi, basta solo darle la spinta giusta. E tu le hai dato proprio quella necessaria a finire nel mio letto. Il resto è venuto da sé, io non ho dovuto insegnarle proprio nulla...»

«Figlio...»

Jonathan alzò l'impugnatura della pistola, colpendo Jean alla fronte un attimo prima che questi riuscisse a mettergli le mani al collo. Con un gemito strozzato, Jean indietreggiò, andando a sbattere contro la parete.

«Non fare l'eroe» sibilò John, alzandogli il mento con la punta della sua arma. «La prossima volta ti spappolo la faccia».

Jean si sollevò lentamente, fissandolo in volto con odio profondo.

«Credevo che la amassi» fece. «Pensavo che fossi sincero con lei. Non ti accorgi di quanto è debole? Se dovesse scoprire...»

«Che cosa, che me la scopo perché mi piace?» rise John. «Falla finita. È una donna adulta, ed è capace di fare le sue scelte. Il bello è che io non ho dovuto fare nulla. È arrivata da sola a trarre tutte le conclusioni, a scegliere di partire, e...»

John si interruppe. Aveva notato un'ombra passare veloce negli occhi di Jean. Lo studiò intensamente per qualche istante. Quando lo vide impallidire, scoppiò a ridere.

«Mio dio, non ci credo. Sei stato tu. Tu l'hai convinta a partire».

Jean distolse lo sguardo.

«Pazzesco!» fece John, allargando le braccia. «Devo ammettere che sei un vero genio!»

Il montacarichi si arrestò e le porte si aprirono. Ancora sghignazzante, John fece cenno a Jean di uscire, quindi lo seguì.

«Fermati, qui va bene» gli fece, dopo che si furono allontanati di qualche decina di metri. Jean si voltò. Intorno a loro c'erano solo gli edifici diroccati che si reggevano sulle spoglie addormentate del Noah, penzolando l'uno contro l'altro come a sorreggersi a vicenda.

«Un bel luogo per morire» fece John. «Immerso nella storia».

«Un luogo come un altro» rispose Jean. «La gente muore dappertutto».

«Non qui» fece John, sospirando mentre si guardava attorno. «Qui sopravvive ancora il ricordo delle anime grandi che hanno plasmato anticamente la vita. Questo è ciò che resta della civiltà che Atlantide ha impiantato sulla Terra. Qui le anime dei miei antenati sopravvivono ancora».

«I tuoi antenati?» fece Jean, stringendo gli occhi. John sogghignò.

«Anche io discendo da una stirpe Atlantidea, caro il mio Jean» disse. «Anche se per te può risultare incomprensibile».

«Credevo che Nadia fosse l'ultima rimasta».

«Sbagliato. Siamo in molti, in tutto il mondo. Ma su una cosa, hai ragione. Nadia non faceva parte di noi, fino a poco tempo fa. Non sapevamo nulla della sua esistenza, così come lei e la sua famiglia non sapevano nulla di noi. Per questo, è cresciuta sola».

«È cresciuta sola per colpa di gente come te, e come i tuoi amici» fece Jean, con disprezzo. «Gente che preferisce agire nell'ombra, per perseguire i propri scopi. E non importa se ciò che volete raggiungere, lo ottenete sulla pelle della povera gente».

«L'avevo detto che sei un vero romantico» fece John, scrollando le spalle. «Sai, il mondo avrebbe davvero bisogno di più uomini come te, così sarebbe molto più facile per quelli come me arrivare al potere».

Jean lo fissò con astio. Quindi fece qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua. Drizzò il busto e sputò per terra, accanto ai suoi piedi. John lo fissò, con aria di sfida.

«Tu non vali niente» mormorò Jean. «E mi fai schifo».

John sollevò la canna della pistola.

«Ti saluto, professore».

«No!»

Sorpreso, John si volse all'improvviso. Nessuno di loro si era accorto che una volta saliti, il montacarichi era stato richiamato. Nessuno si era accorto che qualcuno l'aveva usato per risalire, così come nessuno si era accorto che le porte si erano di nuovo aperte, lasciando uscire qualcuno.

Ci misero un attimo a mettere a fuoco di chi si trattava. Jean, coperto dal corpo di Jonathan, si dovette sporgere. John non si aspettava una cosa del genere. Nel voltarsi, l'indice premette involontariamente il grilletto. Il cane scattò, ricadendo contro il tamburo con un movimento che sembrò non finire mai. In realtà accadde tutto in un meno di un secondo. Quando lui riaprì gli occhi, l'eco dello sparo si era già dissolto.

«Alex!»

Jean si lanciò su di lei, che lo fissava con lo sguardo spento, la mano imbrattata di sangue tesa in avanti, con incredulità. John indietreggiò di un passo, sbattendo le palpebre.

«Io non volevo...» farfugliò. «Mi dispiace...»

«Alex, no...»

Jean si gettò su di lei, facendola distendere delicatamente al suolo. Era pallida, e sudava. Aveva gli occhi spalancati e pieni di paura.

«Jean...» mormorava, muovendo instancabilmente la mano a cercare le sue. Deglutiva faticosamente, aprendo e chiudendo gli occhi.

Jean le tamponò la ferita all'addome. Il sangue sgorgava scuro e denso, ma lento. Probabilmente, la pallottola le aveva perforato il fegato. Ecco perché era ancora così lucida. Se non faceva qualcosa al più presto, le sarebbe toccata una morte lenta, e dolorosa.

«Non restare lì, aiutaci!» fece Jean, guardando John disperatamente. Lui restò immobile a fissarli, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata in un gesto di muto stupore.

«Io...»

«Jean, ho paura».

Jean le strinse la mano. Con la coda dell'occhio, intravide John che fuggiva verso il montacarichi.

«Non puoi lasciarci qui!» gridò Jean. «Mi hai sentito?»

John premette furiosamente il pulsante, finché le porte non si richiusero. Jean fece per corrergli dietro, ma Alex gli strinse la mano, gemendo.

«Non lasciarmi, non lasciarmi...»

Lui si chinò su di lei, sollevandole il volto e poggiandoselo sulle ginocchia.

«Sono qui» disse, accarezzandole il viso spento e tergendosi le lacrime con il dorso della mano. «Stai tranquilla, non andrò da nessuna parte».

«Sto per morire?» fece lei. E le scappò un singhiozzo. Jean represse i suoi. Quindi le sorrise.

«Ti porterò fuori di qui. Non morirai, te lo prometto».

«Tu mantieni sempre le promesse» rise lei, debolmente. Jean strinse i denti. Annuì, pregando in silenzio, dentro di sé.

Pregò che quella non dovesse essere la prima volta in cui aveva seriamente mentito a qualcuno.

 

 

*

 

 

Una brezza sottile le risalì le membra, facendola rabbrividire. Nadia aprì gli occhi. Stupita, si guardò attorno, lasciando che lo sguardo si spingesse lungo il muretto di cinta ornato di giacinti ed ibiscus dalle sfumature violacee, e lungo il prato tagliato di fresco, dove qua e là spuntavano piccoli ciuffetti di margherite selvatiche. Le frasche sopra la sua testa ondeggiarono al vento, e le foglie frusciarono allegre, risuonando come una risata nella calda calura estiva.

Sorrise. Non ricordava come fosse finita ancora una volta in quel luogo. Tutto ciò che sapeva, era che una volta entrata nel santuario del Trismegisto, e avvicinate le mani alla grande pietra che sorgeva davanti a lei, una luce immensa l'aveva avvolta. Era stato come addormentarsi tra le braccia di qualcuno, e sentire il proprio respiro farsi regolare, sottile. Fino a perdere la consapevolezza di tutte le cose inutili che circondano la vita, per abbandonarsi a un sonno ristoratore.

Il vento le spirò tra i capelli, portandole un ciuffo davanti al volto. Lei lo scostò; e quando riaprì gli occhi vide quello che sapeva essere il suo bambino, chino sul prato. Accanto a lui, un uomo le dava le spalle.

Nadia si sollevò, inquieta. Fissò il profilo di quell'uomo, e sentì l'improvvisa urgenza di avvicinarglisi. Voleva sapere chi era colui che giocava con suo figlio, che lo faceva ridere. Si alzò, percorrendo scalza il sottile tappeto erboso che li divideva. Era piacevole sentire sotto i piedi accaldati la fresca carezza dell'erba. Si avvicinò, finché non fu a un passo da loro. Socchiuse gli occhi.

Perché non riusciva a vedere il volto di quell'uomo? Tutta la sua testa era come avvolta da un'ombra ondeggiante...

Suo figlio si volse, alzando gli occhi verso di lei. Sorrise.

 

«Sapevo che ti avrei trovato ancora qui».

 

Nadia si riscosse e una luce bianca, abbagliante, cancellò ogni cosa attorno a lei. Quando si volse, Gargoyle le lanciò uno sguardo di commiserazione.

«Proprio non imparerai mai, vero Nadia?» rise, scuotendo il capo.

«Non è colpa mia, io...»

Trasalì. Perché sentiva il bisogno di giustificarsi? Dopotutto...

«...dopotutto, sei tu a dover scegliere. Non è così?»

Nadia impallidì. «Come hai fatto a sapere quello che avrei pensato?» gli chiese. Gargoyle scosse le spalle.

«Ho tirato a indovinare. Sei così scioccamente prevedibile...»

Lui si allontanò di qualche passo. Estrasse la mano destra dalla tasca e tracciò un semicerchio nell'aria, con il palmo. Improvvisamente tutto, dalla casa al prato, a suo figlio che giocava, riapparve davanti a lei; solo che tutto pareva immobile, come congelato nel tempo.

«Cosa hai fatto?» chiese lei, sconcertata. Lui nicchiò.

«Nulla. È ancora tutto come lo vuoi tu. Mi sono solo ritagliato un attimo del tuo tempo, e della tua attenzione. È per questo che sembra che il tempo si sia... fermato».

Nadia strinse le mani tra loro, intrecciando le dita. L'uomo che giocava con suo figlio era ancora là. Avrebbe potuto vederlo, se avesse voluto...

«Non farlo».

Lei si fermò, a un passo dal volto di lui. Si volse, lanciando a Gargoyle uno sguardo supplichevole.

«Perché?» chiese. «Perché non dovrei?»

«Perché poi non saresti più in grado di tornare indietro».

Nadia si tornò a voltare verso l'uomo che stava seduto immobile ai suoi piedi. Un brivido la percorse, e si raddrizzò, indietreggiando di un passo.

«Sarebbe davvero tanto terribile?» mormorò. Gargoyle la raggiunse, mettendosi al suo fianco.

«È questo il potere tremendo che possiedono i sogni» disse. «Fagocitano tutto ciò che li circonda, portandoci a isolarci dalla realtà. Le trame dei sogni si sviluppano come un parassita, una pianta che si avvolge stretta attorno a un'altra, risalendo il suo tronco per raggiungere il cielo, sopra di loro. Solo che, una volta che vi è arrivata, essa ha completamente ricoperto la pianta di cui si è servita per salire, soffocandola».

Nadia rabbrividì.

«Eppure...»

Gargoyle scoppiò a ridere. «Suvvia, Nadia» fece. «Non mi dirai che ci siamo ritrovati per questo, vero? Per assistere al seguito del tuo delirante sogno?»

«Io... non lo so» fece lei, gli occhi accesi da una luce sinistra.

«Sì che lo sai!» sibilò lui, chinandosi sopra di lei e cingendole le spalle con un braccio. «Lo sai eccome. Ecco perché mi hai voluto qui, con te; ed ecco perché mi hai sognato, proprio quando...»

«Non è vero!»

Lei chiuse gli occhi, portandosi le mani al volto e allontanandosi furiosamente, disgustata. Gargoyle ridacchiò, rizzando il busto e infilando le mani in tasca. La fissava attraverso la sua maschera spezzata a metà, il volto scarno atteggiato in una smorfia maligna.

«Puoi continuare a mentire, ma questo non cambierà le cose» mormorò, sogghignando. Lei cadde in ginocchio.

«Perché?» singhiozzò. «Perché?»

«Perché io sono te» fece lui. «Ecco la verità. Io e te, siamo la stessa cosa».

«Tu sei...»

«Un mostro?» latrò lui, ridendo. «Forse. Ma per quanto ti ostini a rifiutarlo, tu sai benissimo che ciò che senti è lo stesso. Sai che i tuoi pensieri da tempo tendono a confondersi con i miei, sai che non riesci più a distinguere il confine tra ciò che ritenevi fossero i tuoi ideali e quello in cui ora realmente credi».

«Sei tu, è solo colpa tua se mi sta succedendo tutto questo!»

«È colpa mia?» fece lui, afferrandola per il mento e costringendola a guardarlo. «Non mentire, sciocca! Perché tu sai che avevo ragione, e questo ti assilla ogni giorno. Sai che, nonostante tutto, sebbene tu non condividessi la mia lotta, quello che ti dissi riguardo alla malvagità dell'uomo e al suo insanabile egoismo era vero. Sai che non ci sarà mai speranza per un mondo in cui non esistano lotte fratricide, battaglie per assicurarsi un po' di quel potere di cui tutti sono così affamati. Sai che solo vincendo gli altri, puoi imporre la tua verità, il tuo obiettivo».

«No, io...»

«Anche tu disprezzi l'uomo, proprio come lo disprezzo io. Anche tu godi nel restare sola, perché sai che nessuno esiste, al mondo, di cui tu possa fidarti. Sai che affidandoti a qualcuno verrai tradita, proprio come è successo con lui, quando più avevi bisogno del suo aiuto».

«Lui non mi ha mai tradita» piagnucolò lei. «Sono stata io ad abbandonarlo».

«Dici così, ma sai che non è vero!» rise Gargoyle. «Sai che lo odi per averti lasciato fare, per non aver capito che doveva combattere la tua tendenza all'isolamento, perché doveva mostrarti lo scopo della vita che avresti voluto avere! Lo sai che ha fallito, ritirandosi nel comodo del suo egoismo, lasciandoti completamente libera, facendoti sprofondare nell'angoscia. Perché tu non vuoi essere libera, non è così? Tu vuoi appartenere a qualcuno, vuoi sentirti importante, vuoi che gli altri ti amino e ti apprezzino, perché sei sempre stata sola...»

«Loro non capiscono...»

«Sì, non capiscono, non sanno cosa significa. Ma tu sì. Allora smettila di opporti. Accetta quello che sei. Tu puoi cambiare le cose, tu sei la Regina di Atlantide. Tu puoi riportare l'universo nelle mani dei suoi signori e padroni!» esalò lui. «Con te, tutto ritornerà come prima. Tutto sarà esattamente come deve essere».

Come deve essere...

Nadia apri gli occhi. Tremava. Ma non perché avesse paura. Tremava per un'emozione violenta e improvvisa che la scuoteva nell'intimo, eccitandola segretamente.

«Posso avere anche questo?» chiese, alzando gli occhi sul quadretto che aveva davanti. Gargoyle sorrise. Si avvicinò all'uomo che sedeva accanto a lei e gli passò la mano sul volto, cancellando l'ombra che lo copriva. Nadia lo vide, e il suo sguardo vacillò per la gioia.

«Puoi avere tutto. Ma una volta avuto questo, dovrai consegnare a me ciò che resta di te stessa» disse. «Ti senti pronta?»

Lei si avvicinò a quell'uomo, spostandosi sulle ginocchia. Portò le mani al suo volto e si chinò a baciarlo. Quindi alzò gli occhi su Gargoyle.

«Niente di ciò che resta è davvero importante» gli disse, commossa. Al che, lui sorrise, tendendole la mano. Nadia guardò prima lui, poi la sua mano. Quindi, gli tese la propria.

«Nulla sarà più come prima» le sussurrò lui, chinandosi sul suo volto.

E in un solo attimo, fu tutto.

 

 

*

 

 

«Ma che diavolo succede?»

Tutta la nave prese a tremare improvvisamente, come scossa da un violentissimo terremoto. Sanson alzò gli occhi sul volto del pilota; e non appena vi lesse lo stesso sconcerto che animava anche lui, si sentì gelare il sangue.

«Tà Merkaba» esclamò il pilota. «Tà Merk....»

«E stà un po' zitto, coglione! Ho capito!» ringhiò Sanson, afferrandolo per il bavero della giacca. Il soldato sbarrò gli occhi, guardando fuori dal finestrino. Ormai sul ponte non c'era più nessuno. Tutti si erano ritirati nelle parti più interne del Noah.

«Vedi di far partire questo coso, muoviti!» gli gridò Sanson. Il pilota scosse il capo.

«Non te lo ripeterò» fece lui, puntandogli dritto in faccia la pistola. «Scegli: o muori adesso, o ci aiuti ad andarcene. In un modo o nell'altro, lascerai comunque questa astronave».

«Sanson, non sono riuscito a trovare Rebecca e gli altri» fece Hanson, spuntando tutto trafelato alle sue spalle. «Non sono ancora saliti nella stiva».

«Dannazione!»

Qualcosa echeggiò rumorosamente sopra di loro, aumentando il frastuono che già si levava tutt'intorno, assordante. Alzarono gli occhi, il volto appiccicato al vetro. Molto più in alto, sopra le loro teste, il Noah si stava richiudendo, pronto per la partenza.

«Cristo!» mormorò Sanson. «Dobbiamo andarcene!»

«Cosa?» fece Hanson. «E gli altri?»

«Non possiamo... ehi!»

Sanson indicò il montacarichi, che si aprì proprio in quel momento. Jonathan si precipitò fuori dalle porte ancora socchiuse, caracollando verso l'estremità opposta del ponte.

«Tienilo a bada, io vado da lui» disse, passando ad Hanson la pistola. Quello la prese, puntandola con un sorriso contro il pilota.

Sanson si affacciò dalla stiva proprio mentre John vi passava davanti. Ma quando lo vide, invece che fermarsi, quello accelerò il passo.

«Ehi, fermati!»

Sanson gli corse appresso, rischiando più volte di perdere l'equilibrio a causa delle continue scosse che facevano letteralmente sobbalzare il suolo. Non appena fu a pochi passi da John, gli si gettò addosso, facendolo rovinare a terra.

«Lasciami!» si dibatté lui. Sanson lo teneva, senza capire da dove gli venisse quella sua furia quasi isterica.

«Calmati, voglio solo...»

Scattò in piedi, alzando le mani. Sconvolto, John gli puntava contro una pistola.

«Ehi, amico, diamoci una calmata» disse Sanson, scandendo bene le parole. «Non voglio farti del male».

«Devi lasciarmi andare, capito?» sibilò John, rabbioso, mentre si alzava in piedi. Sanson annuì, senza abbassare gli occhi dalla canna della pistola.

«Volevo solo sapere se hai visto Jean e gli altri... tutto qua...»

A quelle parole, John impallidì.

«Sono di sopra» farfugliò. «Sì... non è stata colpa mia. Io non volevo. Si sono messi in mezzo...»

Sanson strinse gli occhi. «Ma che diavolo stai blaterando?»

John rise, un riso nervoso, e freddo. «Non me ne frega. Non me ne frega niente. Andate al diavolo» fece. Quindi si allontanò, indietreggiando lentamente. La terra tremò ancora e lui incespicò. Per un attimo il suo volto sudato impallidì ancora di più, e un lampo di sconcerto gli attraversò gli occhi. Ma subito riacquistò l'equilibrio; e alla fine, si allontanò senza ulteriori problemi. Sanson restò a fissarlo finché non lo vide sparire dietro una porta. Solo allora si rilassò, abbassando le mani.

«Ma porca...»

Si volse, ritornando di corsa sul vettore. Richiuse il portellone della stiva, quindi si precipitò in cabina, dove Hanson teneva ancora sotto controllo il pilota, sempre più pallido.

«Dobbiamo andarcene» fece, con il fiato mozzo. «Sono tutti di sopra».

«Di sopra?» fece Hanson. «Cosa cazzo vuol dire, di sopra?»

«Vuol dire di sopra, là!»

Sanson indicò vagamente un punto sopra le loro teste. Hanson sbirciò fuori dal finestrino, là dove il Noah si stava richiudendo. E sbiancò.

«Muoviti!» fece, dando uno spintone al pilota. «Fai partire questo coso, presto!»

Il pilota li guardò, scuotendo il capo. Non capiva nulla di quello che dicevano. Spazientito, Hanson afferrò la cloche, e indicò in alto.

«Fai salire questo affare oltre quel buco» disse, agitando la pistola «o ti infilo questa nel tuo!»

Quello il soldato parve capirlo. Senza farselo ripetere, afferrò la cloche con una mano, mentre con l'altra spinse i motori al massimo. Le turbine presero ad accelerare sempre più e il rumore si fece insopportabile.

Il pilota disse qualcosa, che venne soffocato dal rombo dei motori. Hanson scosse la testa. Il soldato si guardò attorno, poi gli indicò qualcosa.

«Che succede?» fece Sanson, chinandosi sul cugino. Questi studiava con sguardo teso la plancia dei comandi, passando un dito su alcuni pulsanti mentre si ripeteva qualcosa a fior di labbra.

«Ok!» disse, alzando il pollice verso il pilota. «Credo di aver capito come funziona».

Il pilota gli rivolse uno sguardo perplesso, ma alla fine annuì. Hanson azionò alcuni pulsanti e i motori si spostarono sotto la fusoliera. Il pilota sembrò sollevato. Strinse le labbra e diede potenza. La nave cominciò a sollevarsi.

«Presto!» mormorò Sanson, a denti stretti. «Si sta per chiudere!»

La nave acquistò velocità, risalendo sempre più rapidamente lungo il condotto. Il tetto del Noah era quasi chiuso, quando vi si avvicinarono. Strinsero i denti, mentre le enormi cataratte di metallo sfilavano al loro fianco, avvicinandosi a stringerli come in una morsa gigantesca. La nave urtò contro di esse, scricchiolando, e uno sfolgorio di scintille schizzò tutto intorno alla fusoliera. Teso, con gli occhi sbarrati, il pilota aumentò la potenza. La nave ebbe un sussulto, quindi schizzò fuori dalla fessura, appena prima che questa si serrasse definitivamente sotto i loro piedi.

 

 

*

 

 

Con orrore, Jean si rese conto che John aveva sabotato il congegno di risalita. Non potevano fuggire da lì usando il montacarichi. L'unica soluzione era andarsene lungo la scalinata di pietra.

Si volse a guardare Alex, distesa al suolo. Era inutile nasconderselo. Non avevano molte possibilità. Soprattutto ora che il Noah aveva cominciato a muoversi.

Stringendo i denti, si precipitò su di lei, che gli cercò subito la mano.

«Cosa facciamo?» mormorò, tremando. Jean le strinse la mano tra le sue.

«Dobbiamo cercare un posto in cui metterci al riparo» disse, cercando di mostrarsi il più possibile tranquillo. «Il Noah sta partendo, e presto qui crollerà tutto. L'unica cosa che possiamo fare, è tentare di risalire lungo la scalinata, laggiù, e metterci in salvo da qualche parte».

Alex volse la testa. Non appena vide la scalinata che si levava per più di cento metri lungo le profondità della roccia, chiuse gli occhi, sconfitta.

«Jean...».

«Ce la fai a camminare?» le chiese lui. Non voleva darle il tempo di abbattersi. Doveva preservare ogni sua possibile speranza. Lei lo fissò. E vedendo la sua determinazione, sorrise, annuendo debolmente.

«Aiutami».

Jean la aiutò a sollevarsi. Con una smorfia, lei tentò di mettersi in piedi, ma al primo passo si accasciò; e se non fosse stato per lui, che la sorreggeva, sarebbe caduta malamente al suolo.

«Non so se ce la faccio» disse, pallida in volto. Jean si strinse le labbra.

«Ti porto io, vieni».

Si chinò, lasciando che lei gli montasse sulla schiena. Lui le passò le mani dietro le ginocchia, issandosela sulle spalle. Quindi prese a muoversi il più velocemente possibile verso la scalinata.

Si rese subito conto che non sarebbe stata una passeggiata. I gradini erano incrostati di fango e di marciume, cosa che li rendeva estremamente scivolosi. Alcuni poi, erano sbeccati e corrosi. Ma non aveva tempo per questo. Doveva metterla in salvo, sperando che riuscisse a resistere ancora a lungo.

«Mi dispiace» mormorò lei, stringendogli le braccia al collo. Lui la sentiva sempre più stanca. La voce le usciva piatta e lontana, e la sua presa si faceva sempre più debole, man mano che salivano. Jean lanciò uno sguardo verso il basso. In tutto, non avevano percorso che una ventina di metri.

«Non ti preoccupare» fece, allegro. «Tu cerca solo di tenere duro, va bene?»

«Va bene...»

Jean saliva i gradini senza ascoltare né la fatica né il dolore che gli lanciavano i suoi muscoli indolenziti. Si fermò solo per un attimo, per issarsi meglio Alex sulle spalle. Lei si faceva sempre più inconsistente; poteva sentire il sangue che colava caldo tra l'addome di lei e la sua schiena, imbrattandogli la camicia. Strinse i denti, scacciando le lacrime che già affioravano agli angoli degli occhi.

«Devi resistere, capito?» le disse. «Vedrai che ce la faremo. Ti porterò di sopra e poi cercheremo il mio amico Atahualpa. Lui è un tipo eccezionale. Ti curerà, vedrai».

«Sono così stanca...»

«Resisti, ti prego».

Jean continuava a sorreggere Alex, mentre risalivano i gradini sdrucciolevoli dell'immenso pilastro di pietra. Ma non era una cosa semplice. Oltre a stare attenti a non scivolare, dovevano guardarsi dalle rocce che a causa delle vibrazioni si staccavano dalla parete, andandosi a schiantarsi contro i gradini che cominciavano così a crepare e a frantumarsi.

«Forza, Alex» mormorò lui. Lei gemette, stringendogli la camicia.

«Non ce la faccio, non ce la faccio...» mormorò, affranta. Lui strinse le labbra. Con uno sforzo silenzioso, si issò su un altro gradino.

«Jean, dovresti continuare senza di me» sussurrò stanca lei. Jean non la ascoltò nemmeno. Guardò verso il basso. Erano quasi a metà strada, ma il cammino era ancora lungo.

«Ti ricordi quando siamo saliti su quella collina, a Princeton, quando siamo andati a vedere la gara di canottaggio?» fece lui all'improvviso, cercando di nascondere la propria fatica e la propria paura. Gli venne in mente Sanson. In quel momento, avrebbe dato qualsiasi cosa per essere come lui.

«No...»

«Sì, quando ti facesti male alla caviglia».

«Perché tu mi avevi fatto scivolare» mormorò lei. E rise, debolmente.

«Poi ti ho portato in cima, proprio come ora».

«Ricordo».

«Anche oggi ce la faremo».

«Va bene».

Jean sentì che lei stava lasciando la presa. Si chinò in avanti, caricandosela meglio sulle spalle.

«Alex, cerca di tenerti stretta».

«Sono tanto stanca».

Metro dopo metro, continuavano a risalire. Ai loro piedi, la terra si era aperta in un immensa voragine. Il pilastro restava abbarbicato alla pareti di roccia, ma il suolo, sotto di loro, era già completamente crollato e così gli edifici che per tanti secoli avevano resistito sopra di esso, germogliando sulla superficie del Noah. Ormai, non erano ridotti che a un cumulo di macerie polverose, sotto le quali si poteva intravedere l'armatura di metallo della nave, splendente nella luce azzurrognola che la illuminava.

«Ancora uno sforzo e saremo fuori» fece Jean, cercando di mantenere un tono rassicurante. «Poi cercherò Atahualpa. Lui ti aiuterà. Quel vecchio è incredibile, devi conoscerlo. Sono sicuro che ti aiuterà».

«Jean, io ti amo».

Jean ricacciò indietro le lacrime, tirando su con il naso. Lei lo strinse.

«Anche io ti amo, Alex» disse, con gli occhi che gli si offuscavano. Lei sorrise, stringendolo a sé.

«Mio meraviglioso bugiardo» sussurrò.

«Tieni duro, Alex» fece lui. «Vedrai che andrà tutto bene. Ti prometto che passerò la mia vita a prendermi cura di te. È questo quello che voglio. Voglio stare con te, ogni giorno. Voglio sentirti parlare, e ridere... parlami, Alex, continua a parlarmi ti prego».

«Sarebbe bello» fece lei. «Ma adesso è finita. Mettimi giù, ti prego».

Jean la strinse, scuotendo la testa e continuando a salire imperterrito. Ma per quanto si sforzasse, era troppo lento. Di quel passo, non ce l'avrebbe mai fatta a risalire prima che il Noah fosse partito, facendo crollare tutto.

«Alex...»

«Jean, ti prego, ho bisogno di fermarmi».

Lui la posò delicatamente al suolo. Una scossa più forte delle altre fece cadere alcuni frammenti di pietra. Jean si chinò sopra di lei, a ripararla con il proprio corpo. Alex aprì gli occhi, e lo fissò, sorridendo.

«Sei il mio amore» disse, accarezzandolo con la mano. Lui la strinse, portandosela alle labbra.

«Chi l'avrebbe detto che sarebbe andata così?» mormorò Alex, sorridendo. Jean le accarezzò i capelli, ricoperti di polvere.

«Non dire così, non è ancora finita».

Lei lo fissò con tenerezza.

«Devi andare via» disse. Jean spalancò gli occhi.

«No, non ti lascerò qui».

«Non ha senso morire in due» fece lei, con la voce rotta. Jean la prese tra le braccia e la strinse, posandole un bacio sulle labbra.

«Se non posso portarti con me, allora resterò qui con te fino alla fine».

«Perché?»

«Io non ti lascio sola».

Lei lo guardò e le lacrime le velarono gli occhi.

«Sei davvero uno stupido» fece, piangendo. «Perché mi fai capire di amarmi solo ora che sto per morire?»

Lui pianse. Lei gli portò una mano al volto e gli terse le lacrime che scorrevano abbondantemente lungo le guance.

«Ma va bene così. Io sono felice. Alla fine, anche se per poco, tu mi hai scelta. Se è questo tutto quello che possiamo avere, non mi serve altro».

«Io voglio te» disse lui. «Voglio che sopravvivi, perché possa dimostrartelo ogni giorno della mia vita».

Alex sorrise. Quindi strinse gli occhi, cercando di alzarsi. La terra tremò di nuovo e alcuni gradini sotto di loro crollarono.

«Aiutami» fece lei. Lui la aiutò a sollevarsi. Quando furono in piedi, lei lo abbracciò, baciandolo.

«Voglio che tu sappia che non ce l'ho con te» disse, guardandolo negli occhi. «Tutto quello che è successo, io l'ho voluto. E se sono qui, ora, è stata una mia scelta. Non dovrai mai tormentarti per questo, promettimelo».

Lui non riusciva a parlare. I singhiozzi lo soffocavano.

«Promettimelo, Jean» ripeté lei. Lui annuì.

«Ti prego...» fece. Alex alzò gli occhi sul suo volto, sorridendogli. Quindi lo spinse con tutte le sue forze, allontanandolo prima che dei frammenti di roccia cadessero sui gradini che li sorreggevano. Quando riaprì gli occhi, Jean si rese conto troppo tardi che tra lei e lui si era aperta una voragine.

«Dammi la mano, presto» gridò, avvicinandosi al bordo. Fissava Alex con apprensione, ma lei era tranquilla. Scuoteva la testa, ferma su ciò che restava di quei pochi gradini che ancora ne sorreggevano il corpo esile.

«Se non vai ora, morirai. E io non voglio che accada» fece lei, appoggiandosi pallida al muro. Jean cominciò ad agitarsi.

«Ma che diavolo dici? Ti ho già detto che non ti lascio!»

«Sei proprio incorreggibile, con te bisogna fare tutto da soli» disse lei, con un sorriso. Jean si sporse ancora di più, allungandosi verso di lei più che poté.

«Ti prego, afferra la mia mano» la supplicò. La terra lanciò un'altra scossa e Jean si sentì scivolare. Indietreggiò di un passo, ma appena tutto tornò tranquillo, tornò a sporgersi. Una nuvola di polvere saliva verso di loro, offuscando la visuale. Entrambi sembravano come sospesi nel cielo.

«Possiamo farcela, forza!»

«In due non ce la faremo. Non potremmo mai risalire in tempo. Ma tu puoi farcela, se ti sbrighi».

«No, io...»

«Jean» fece lei, avvicinandosi. «Ti giuro che ti amo». Tese la mano verso di lui e gli sfiorò i polpastrelli. Jean fece per prenderla, ma lei sorrise tra le lacrime, quindi indietreggiò. Non si fermò nemmeno quando posò il piede nel vuoto, alle sue spalle. Per un attimo, lui la vide restare così, come sospesa. L'ultimo istante, prima che il suo corpo svanisse, precipitando nel nulla.

 

 

*

 

 

Il vettore schizzò fuori dal Noah avvolto in una nuvola di polvere. Tutto ciò che ancora resisteva sulla superficie dell'astronave, si stava velocemente sgretolando, e una immensa nuvola di pietrisco e pulviscolo si levava sempre più alta, a causa delle vibrazioni sempre più forti.

Mentre risalivano verso la superficie del lago, Sanson continuava a guardare disperatamente da un lato all'altro della cabina, alla ricerca dei loro amici. Tutto era andato distrutto. Se era vero che si trovavano là, dove ora non restavano altro che polvere e detriti, allora non c'era davvero più alcuna speranza di...

«Ehi guarda là. Quello è Jean!»

Hanson indicò al cugino il punto in cui Jean si stava tenendo stretto alla parete. I gradini intorno a lui stavano per crollare. Era questione di attimi e presto sarebbe precipitato.

«Avviciniamoci, presto».

Hanson fece cenno al pilota di avvicinarsi al pilastro, ma l'uomo rifiutò.

«Che diavolo ti prende, idiota? Ti ho detto di avvicinarti». Sanson lo colpì alla nuca. L'uomo prese a indicare la parete, parlando e gesticolando nervosamente.

«Credo che intenda dire che non possiamo avvicinarci. La parete rischia di crollarci addosso» fece Hanson.

«Provate ad avvicinarvi il più possibile. E restategli sotto, d'accordo?»

Hanson cercò di spiegarsi a gesti con il pilota. Quello strinse le labbra, quindi rifiutò decisamente. A quel punto, Hanson gli puntò contro la pistola.

«Fai come ti ho detto, idiota».

L'uomo impallidì, e mosse torvo la cloche. La nave ondeggiò leggermente, avvicinandosi alla parete di pietra e mantenendosi ferma ai piedi di Jean. Sanson aprì un portellone laterale di emergenza, affacciandosi e richiamando a gesti l'attenzione del ragazzo.

«Jean, resisti!»

Jean abbassò gli occhi. Vide Sanson, affacciato dallo sportello laterale, che gli faceva dei gesti concitati.

«Buttati!» gli gridò quello. Jean fece per staccarsi dalla roccia, ma la terra sotto di lui tremò e alcune rocce andarono a frantumarsi proprio sopra lo scafo del vettore, facendolo oscillare pericolosamente. La nave fu costretta ad allontanarsi, per poi riavvicinarsi lentamente.

Sanson si trovava ancora al suo posto, scosso, ma deciso a non mollare. Con un gesto, incitò Jean a riprovarci una seconda volta.

«Forza, non abbiamo molto tempo».

Jean raccolse tutto il suo coraggio e si lanciò. Atterrò sul tetto della nave, pesantemente, rotolando verso il bordo opposto. Cercò di aggrapparsi, ma il tetto era troppo spiovente; e la nave, che si inclinò in quel momento per allontanarsi in fretta dalla parete pericolante, lo fece scivolare. Mentre cadeva, Jean cercò disperatamente qualcosa a cui reggersi, ma si rese conto che era troppo tardi. Lanciò un grido: e all'ultimo istante, quando già era stato sbalzato fuori bordo, si sentì afferrare per la mano. Avvertì uno strattone alla spalla; e con sua enorme sorpresa, si ritrovò a penzolare nel vuoto.

«Preso» fece Sanson, lanciandogli un sorriso. Lo issò a bordo, dove si sedettero esausti per terra, uno di fronte all'altro.

«Mica male come esperienza, eh?» fece Sanson. «Allora, dove sono Rebecca e le altre ragazze?»

Jean deglutì. Cercò qualcosa da dire, ma non sapeva da che parte cominciare. Il ricordo del volto di Alex che scompariva nel vuoto, riapparve improvvisamente davanti ai suoi occhi, costringendolo a chiuderli.

«Allora? Vuoi deciderti a parlare?» fece Sanson, sbrigativo. «Tra poco qui salta tutto»

Jean impallidì. «Non lo so» mormorò, spento. Sanson lo fissò, aggrondando.

«Non lo so?» fece. «E che cazzo significa, non lo so?»

«Non ho idea di dove siano Rebecca e Marie» disse. «Non sono riuscito a trovarle».

«E Alex?»

Jean chiuse gli occhi. «Lei è morta».

Sanson trasalì. «Morta? Come...»

«L'ha uccisa John» mormorò Jean. Sanson si alzò in piedi, passandosi una mano sulla fronte. Quindi lanciò un'occhiata a Jean e con un ruggito lo afferrò per la camicia, sbattendolo contro il muro.

«No, razza di idiota, l'hai ammazzata tu!» fece. «È stata un'idea tua, quella di venire fin qua per aiutare la tua dannata Nadia. Se loro sono morte, è solo colpa tua!»

«Io...»

«Sta' zitto, coglione» fece Sanson, sbattendolo lontano. «Se non fosse stato per te, ora io sarei tranquillo a casa mia, e Rebecca e le altre sarebbero dove dovrebbero essere!»

«E se voi vi foste sbrigati prima, allora?» fece Jean, teso. Sanson vacillò per un attimo.

«Cosa dici?» sibilò.

«Dico che se voi vi foste sbrigati prima a venire, allora Alex non avrebbe dovuto lanciarsi nel vuoto, per permettere a me di salvarmi!»

Sanson bloccò senza fatica il pugno che Jean fece per dargli, ma restò a guardarlo sconcertato. Jean piangeva, ma lo fissava con un odio e un fervore che non aveva mai visto in lui. Restò immobile, con il pugno di lui stretto nel suo. Quindi lo allontanò, e gli sferrò un pugno al volto.

«Ti giuro su dio, che se osi venirmi ancora vicino ti ammazzo con queste mani» disse, piattamente.

In quel momento la nave ebbe un'improvvisa scossa. Sanson perse l'equilibrio e Jean, accasciato al suolo, scivolò lungo il pavimento. Con uno sforzo estremo, Sanson riuscì a chiudere il portellone della nave, proprio mentre sotto di loro il Noah Bianco emergeva finalmente dalla roccia che lo teneva imprigionato, mostrandosi in tutta la sua possenza.

«Che mi venga...»

«È il Noah!» gridò Hanson, dalla cabina. «È proprio sotto di noi. Stanno partendo!»

«Reggetevi!» gridò Sanson.

Ci fu un lampo, che culminò in un silenzio improvviso e denso. Jean sollevò gli occhi su Sanson, che lo fissò preoccupato. Un boato esplose devastante, frantumando tutto ciò che restava della caverna. La nave oscillò, andando a sbattere violentemente contro la parete, mentre la luce che sotto di loro avvolgeva il profilo del Noah, salì fino ad avvolgerli completamente. Durò tutto un attimo. Poi, tornò il buio. Il Noah era sparito.

«Siamo fuori?» mormorò Sanson, stordito. «Ehi, ce l'abbiamo fatta?»

«Porca puttana!»

Sanson e Jean si alzarono, precipitandosi in cabina di pilotaggio. L'uomo al timone tentava disperatamente di governare la nave, con l'aiuto di Hanson che intanto continuava ad imprecare.

«Abbiamo danneggiato gli stabilizzatori» gridò. «Non possiamo governarla».

«Ci sta per crollare addosso!» gridò Sanson, pallido. Hanson lo fissò con sguardo vacuo. Non capiva a cosa si riferisse.

«Cosa?» urlò, disperato, mentre tentava di tenere la nave in assetto. «Cosa ci sta per crollare addosso?»

«L'acqua!»

Jean si affacciò al finestrino. Sopra di loro, l'immensa colonna d'acqua che si era sollevata grazie al potere della Pietra, stava lentamente collassando su se stessa. Migliaia di litri cubi d'acqua che si sarebbero riversati direttamente sulle loro teste, annientandoli.

«Se non usciamo in fretta di qui, siamo tutti morti» latrò Hanson. Sanson non riusciva a staccare gli occhi dal finestrino.

«Dobbiamo cercare di imboccare l'apertura» fece Jean. La fenditura nell'acqua si stava lentamente richiudendo, mentre dall'alto l'acqua crollava verso l'interno.

«I comandi non rispondono, la nave non procede in linea retta» fece Hanson. «Non riusciamo a manovrarla!»

Il pilota urlò qualcosa, trafficando con i pulsanti. Indicò ad Hanson una manovella.

«Girate quella!» fece lui, tenendo stretto il timone. «Muovetevi».

Sanson e Jean si aggrapparono alla manovella, girandola con tutte le loro forze. Per un istante, la nave sembrò riacquistare equilibrio. Sopra di loro, l'apertura era sempre più vicina.

«Tenetevi!»

La nave subì una sbandata, andando a sbattere contro la colonna d'acqua. Roteò su se stessa, fuori controllo, mentre Hanson e il pilota tenevano disperatamente la cloche, per stabilizzarla. In quel momento, Hanson alzò gli occhi. E vide con sgomento che una montagna d'acqua grigia e di fango stava per riversarsi sopra di loro.

«Ora!»

Il pilota spinse i motori al massimo. Ci fu una scossa violentissima, quando la nave andò ad impattare quell'enorme massa liquida. Lo scafo vibrò e le luci all'interno si spensero e si riaccesero alcune volte. I vetri si incrinarono e lo scafo si ammaccò; con un ultimo, disperato gesto, il pilota assegnò ai motori tutta l'energia di riserva.

Ci fu uno scatto: e la nave squarciò la superficie dell'acqua, schizzando verso il cielo come un proiettile, mentre la colonna di denso liquido scuro si infrangeva al suolo con un fragore assordante. Onde alte decine di metri arrivarono a lambire i fianchi delle montagne, cancellando ogni traccia di vegetazione che vi fosse cresciuta, prima che lentamente ritornasse la calma tra le sponde del lago.

«Siamo vivi?»

Sanson si alzò. Il pilota continuava a parlare tra sé, pallido in volto, mentre Hanson lo guardava, abbandonato sulla poltrona, sfinito.

«Siamo senza timone» esalò Hanson, sfregandosi il volto con le mani. «Non possiamo più governare la nave».

Lentamente, Jean si alzò, avvicinandosi al finestrino. Fuori era giorno, e il terreno sotto di loro si faceva sempre più lontano. Stavano continuando a prendere quota.

«Vuoi dire che siamo alla deriva?» azzardò Sanson. Hanson si passò una mano tra i capelli.

«Proprio così» fece, allargando le braccia. «Non possiamo andare né su né giù, né a destra né a sinistra. Siamo completamente, assolutamente alla deriva».

  
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