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Autore: Sanya    09/10/2010    1 recensioni
Alice Cullen non riesce a ricordare nulla del suo passato. Vede solo uno spesso muro nero, quando ci pensa. Ma vi siete mai chiesti cosa c'era esattamente nel suo passato? Quali sono state le decisioni che l'hanno portata a finire in manicomio e ad essere trasformata in una vampira?
E poi, siamo davvero sicuri che il suo creatore rappresentasse per lei solo uno sconosciuto?
Capitoli in via di revisione. Work in Progress
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Ciao a tutti...
Eccomi qui ad aggiornare, puntualmente. 
Non c'è molto da dire riguardo a questo capitolo, se non che ora la storia si complicherà un po' di più...
Chiedo scusa per l'umore nero che ho oggi, ma sono rimasta un po' delusa da delle persone che giudicavo importanti. Va bhe, ovviamente a voi non interessa un tubo xD
Va bhe, ora vi lascio tranquilli...
Buona lettura ^^

Ps: d'ora in poi a fine pagina troverete le risposte alle recensioni....


CAPITOLO 11

Il giorno dopo, i Brandon accolsero il mio arrivo come la manna dal cielo. Non appena entrai in casa, spazzandomi via dalla giacca di velluto i candidi fiocchi di neve che ancora cadevano fitti dal cielo, vidi gli occhi delle due donne accendersi di una vita che abbosso a loro non avevo mai percepito. Mi travolsero con la loro voglia di agire: non ce la facevano più a sostare in quel eterno stato di dubbio, in quell’eterna consapevolezza di non poter fare niente e quindi di poter solo aspettare che una forma di giustizia divina si abbattesse sui loro malati.
Virginia somministrò il medicinale il pomeriggio di quel giorno stesso sotto il controllo austero del medico Scott. Quando lui seppe che ero riuscito a procurarmi le medicine, mi schioccò un intenso sguardo di sottecchi che lasciava trasparire tutto il sospetto sulla provenienza dei prodotti; io lo rassicurai con un sorriso forzato.
Le settimane passavano lente e uguali, cadenzate solo dal sorgere e dal tramontare del sole ogni giorno. Le giornate in casa Brandon divennero monotone, ma traboccanti di una speranza repressa. Continuavamo a somministrare ad Alice e Christopher le medicine con continuità e puntualità, ma i cambiamenti tardavano ad arrivare, soprattutto per quanto riguardava Alice: la sua febbre non era stabile; passava da momenti tranquilli in cui sembrava che il suo organismo stesse cominciando a guarire ad altri decisamente più difficili: la febbre le saliva ad una temperatura assurda e cominciava a urlare e a esclamare cose insensate. Rabbrividivo, ogni qualvolta succedeva.
Un uggioso giorno di metà gennaio il signor Brandon si alzò dal letto e lo vidi scendere le scale con l’aiuto di Virginia e Margaret. Non appena il suo sguardo stanco e indebolito si posò su di me ai piedi delle scale, corrugò le sopracciglia e chiese alla moglie il mio nome. Mi presentai, le signore spiegarono la situazione e mi elogiarono per il mio prezioso aiuto e lui mi ringrazio stringendo la mia mano in segno di gratitudine.
Si sedette in salotto con noi per circa una mezz’oretta: rimase tutto il tempo vicino al grande camino cercando di ravvivare un po’ il colorito smorto sulle sue guance. Tossì più volte poi annunciò che tornava di sopra a riposarsi.
Da quel giorno cominciò a scendere più frequentamente, partecipando ai pasti e mettendosi a leggere un po’ di giornale vicino al fuoco.
Chiese più volte della salute della figlia, ma la risposta era sempre la stessa: “stazionaria”. Un giorno andò per fino a trovarla: Margaret lo guidò per un gomito attraverso il corridoio, seguita a pochi passi da me e Virginia. Margaret aprì l’ultima porta del corridoio e fece sedere Christopher sulla sedia di vimini ancora posizionata vicino al letto. Io e Virginia rimasimo appoggiati alla soglia della porta fissando la situazione all’interno della stanza, lo stato in cui versava la stanza non era cambiato per niente: la desolazione che la occupava era la stessa che avevo già percepito in passato. Christopher accarezzò la fronte bollente della figlia e sospirò di tristezza, Alice mugulò qualcosa e strinse le mani al bordo della coperta. Fu in quel momento che Margaret disse: “Forza. Scendiamo”.
Il dottor Scott non venne più. Non lo vidi più entrare in casa Brandon per fare una visita di controllo.
Quel giorno, mentre mi stavo dirigendo come tutte le mattine dai Brandon notai che una luce diversa illuminava il sentiero intorno a me. Non era più la luce scurita e morta dell’inverno, era una luce diversa: più fulgida, più… viva.
Alzai gli occhi al cielo e mi misi a scrutare lo strato di nuvole che nascondeva quella luce celestiale. Pensai a Alice e alla sua situazione disperata: sarebbe riuscita davvero a sopravvivere? Oppure quella luce intensa era il preludio di qualcosa di terribile che si stava per abbattere?
Sospirai e cominciai a camminare a passo più veloce e regolare.
Ci misi poco a raggiungere casa Brandon. Bussai come tutti i giorni e, stranamente, venne ad aprirmi la signora Brandon.
Mi guardò con occhi rilucenti ed esultanti. Capii subito che era successo qualcosa di nuovo: un cambiamento, uno di quei cambiamenti che tanto attendevamo, si era posato sulla sorte della piccola Alice.
-Si è svegliata- annunciò. -È cosciente-.
Era il paradiso, il luogo in cui mi ritrovai in quel momento? Così pieno di bellezza e gioia?
Quello che avevamo sempre desiderato che avvenisse si era esaudito. Esisteva beatitudine maggiore?
Fermo sulla soglia d’ingresso mi chiedevo se mi meritavo davvero quel miracolo che Dio mi aveva concesso. Era una seconda possibilità, questa? Un modo per dirmi di non lasciarla andare perché lei avrebbe potuto abbandonarmi più facilmente di quanto immaginassi?
La signora Brandon mi fece entrare, mi tolsi il cappello e mi guardai intorno, in cerca dei tratti del miracolo che si era posato su quella famiglia. Rimasi immobile nel mezzo dell’anticamera, non credendo ai miei occhi. Guardai in cima alle scale e la vidi.
Aggrappata al braccio di Virginia, cercava di mettere un piede davanti all’altro senza inciampare. Si guardava le caviglie, indecisa nel compiere ogni minimo passo.
Era scheletrica, vedevo le ossa del bacino e delle spalle spuntare fuori dalla pelle, il suo viso scarno portava ancora i segni della malattia recente: guance ciniree, sguardo smorto e vagante, le labbra sottili di un color violaceo acceso. I lunghi capelli, legati precariamente in una coda di cavallo, ricadevano smorti lungo un lato della sua schiena. Il suo respiro procedeva inceciso, ma il suo cuore batteva potente del petto.
Lo scialle che legava il suo petto minuto sembrava affaticarla più dei movimenti stessi.
Sentii Margaret nascondere singhiozzi nel candido fazzoletto bianco che teneva ripiegato tra le mani. Io guardavo inebetito la scena: la stavo vivendo davvero? Era reale? O era solo un viaggio fantasioso della mia mente?
Poi alzò gli occhi e in quel momento capii che era tutto reale. Alice era viva, per quanto la malattia l’avesse debilitata ora stava bene, era con noi, era con me.
Fece scorrere lo sguardo su ogni cosa familiare che la circondava, soffermandosi sulle cose a cui era più affezionata.
Quando il suo sguardo debilitato si posò su di me, aggrottò un po’ le sopracciglia, come se stesse cercando un ricordo o una sensazione legata ai tratti del mio viso. Mi aveva riconosciuto? Si ricordava di tutti i pomeriggi che avevamo passato insieme? Le nostre chiacchierate, le nostre risate, i nostri giochi erano state cancellate dalla febbre alta?
Il nostro scambio di sguardi venne interroto da Margaret in lacrime che corse verso la figlia: la abbracciò forte e si ritrovò a singhiozzare sulla sua spalla.
Mi chiesi se avrei mai potuto far parte di quel quadretto familiare. Ovviamente no. Io ero solo l’amico che aveva prestato il suo aiuto in un momento di difficoltà. Non avrei dovuto trovarmi lì. Non avrei dovuto far parte della vita felice di quella famiglia.
-Alice!- esortò Margaret tra le lacrime e i singhiozzi.
-Mamma- mormorò lei con la sua voce roca.
I miei occhi comincirono a pizzicare non appena la sua voce giunse alle mie orecchie. Il pensiero che quella voce avrebbe potuto dissolversi nel nulla della morte mi aveva bruciato le viscere come il veleno che mi avevano inniettato in corpo quella notte maledetta, e riuscire a sentirla ancora mi faceva provare la gioia più forte che un essere avesse mai potuto provare.
L’abbraccio si sciolse e lo sguardo languido di Alice ritornò a fissarmi curioso. Il suo indice ossuto mi indico e la sua voce rimbombò ancora nel silenzio della stanza: -Chi è lui?- domandò.
-Lui è Byron, il nipote di Sophie Chapman. Ci è stato molto vicino in questo periodo, mentre tu e tuo padre eravate malati- spiegò Virginia.
-Sì, esatto. È stato lui a procurarci le medicine- trillò felice Margaret.
Alice mi guardo, sorridendomi debolmente. –Grazie, signor Byron. Non sarei qui se non ci fosse stato lei-, mi porse la mano cadaverica.
-Di nulla-, sorrisi anch’io e cercai di stringere la mano di Alice il più delicatamente possibile.
Quando mi trovai a pochi centimetri dai sui occhi vidi qualcosa di diverso in lei: apparte la malattia e la curiosità che ancora leggevo nel suo sguardo, c’era una luce diversa che le brillava negli occhi, come se in lei si fosse insediato un segreto irrivelabile.
Vedevo quella luce brillare e la consapevolezza che, nonostante ora Alice fosse sana, nulla sarebbe stato più come prima mi travolse come un fiume che rompe i suoi argini naturali. 

*****************

Mafra: Hey carissima!! Bene, sono felicissima che il modo in cui mi immagino Byron ti piaccia così tanto! Alla fine non tutti sono come Edward: dolci, perfetti e tutto il resto, Ci sono anche i vampiri cattivi ;) 
Spero che il capitolo ti piaccia e che continuerai a seguirmi con la stessa gioia di adesso... Bacioni e alla prossima ;)


 

   
 
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