*Prologo*
Un tuono squarciò il cielo, attraversandole
i timpani come una stilettata.
Le prime gocce di pioggia che raggiunsero
il suo volto la convinsero a riaprire gli occhi,
seppur il resto del corpo non accennò a muoversi. Palpebre a parte, il corpo
era fuori uso. Sarebbe morta assiderata.
Il solo pensiero le fece piegare gli angoli
della bocca verso l’alto, per poi mostrare due file di denti rossi, imbrattati
di sangue.
La leggera risata che le fuoriuscì le
procurò un dolore atroce all’altezza del torace, facendole congelare
l’espressione sarcastica sul volto.
Tossì, macchiando il candore della neve su
cui era malamente adagiata con sprazzi di rosso
vermiglio. Puntò lo sguardo su quello, ritornando con la memoria indietro nel
tempo.
“Io
non sono umana”.
Lui
aveva sollevato lo sguardo dalle riviste sconce che era solito leggere, per
rivolgerlo su di lei.
“No?”.
“No”.
L’aveva
osservata a lungo, attraverso le lenti scure degli occhiali, prima di ripiegare
ordinatamente la rivista e avvicinarsi a lei, che aveva lo sguardo rivolto
verso il mare.
“Goku e Crilin hanno il sangue
rosso”.
Si
era interrotta, irrigidendo la mascella, indecisa se continuare o meno.
“E il tuo com’è?” le aveva chiesto cauto, attendendo
pazientemente l’arrivo di una risposta.
Lei
allora aveva rivolto gli occhi verso l’orizzonte, per poi cercare sulla riva
della spiaggia qualcosa che potesse tornarle utile.
Individuato un frammento di vetro, lo aveva recuperato, ponendoselo al centro
esatto della mano e stringendo quest’ultima sufficientemente
da ferirsela, mostrandola poi successivamente
all’anziano uomo.
“È
rosso” aveva constatato il maestro Muten, sperando
che quello fosse il modo giusto.
L’aveva
vista scuotere la testa con rammarico.
“È
nero”.
L’eremita
della tartaruga aveva rivolto gli angoli della bocca verso il basso.
Quanto
poteva scavare a fondo il senso di disadattamento e solitudine di una bambina
di cinque anni?
Sospirando
profondamente, si era piegato sulle ginocchia, in modo da poterla guardare
negli occhi. Poi le aveva sottratto il frammento di
vetro dalla mano, ponendolo nella propria e imitandola. Era riuscito a scorgere
i suoi occhi spalancarsi dallo stupore, prima di riaprire la mano e mostrarle
il risultato.
“O-ho. Mi sa che anch’io non lo sono”.
Lei
si era limitata ad osservare la ferita che si era procurata il maestro,
prendendo a confrontare il colore del proprio sangue col suo. Continuava a
vedere il proprio diverso, solo che non lo espose, limitandosi a socchiudere
gli occhi e a rivolgere lo sguardo altrove.
“Il
tuo è rosso” aveva semplicemente pronunciato, tornando a rivolgere lo sguardo
all’orizzonte. Lui allora aveva estratto un fazzoletto dalle tasche dei
pantaloni corti che era solito indossare, avvolgendolo
attorno alla propria mano, per poi recuperarne un altro dalla stessa tasca.
“Anche il tuo lo è, Shizue” le
aveva detto, afferrandole delicatamente ma con decisione l’arto ferito. “E anche se non lo fosse, non cambierebbe nulla”.
Lei
lo avevo guardato coi suoi occhi grandi e profondi.
Troppo profondi per una bambina.
“Sarei
comunque orgoglioso di averti come allieva”.
Si ritrovò a sorridere mestamente.
Chissà se fosse stato ugualmente orgoglioso
in quel momento, nel vederla ridotta in quelle condizioni.
Chissà se fosse stato
ugualmente orgoglioso nel sapere cos’aveva fatto.
Chiuse gli occhi, avvertendo le poche forze
rimastele scemare lentamente, la vista annebbiarsi,
la volontà di sopravvivere abbandonarla.
Era così che doveva finire. Lo sapeva. Lo
aveva sempre saputo.
Voleva solo che nessuno in futuro s’incolpasse
di niente.
Non seppe dire se in quel momento
l’immaginazione le stesse giocando brutti scherzi. Era escluso che qualcuno
potesse essere ancora vivo… eppure erano quasi sicuramente dei passi, quelli
che i suoi sensi sviluppati avvertivano avvicinarsi.
La neve produceva un rumore graffiante quando veniva pestata, aveva imparato a capirlo nell’arco
di quella permanenza a cui si era costretta, durante le umiliazioni che giornaliermente vedevano affondarle la testa nel manto
candido vellutato procurato dalle nuvole.
Si costrinse a riaprire gli occhi, pregando
intensamente – per la prima volta in vita sua – che non fosse
nessuno delle persone che si era ripromessa di uccidere.
Quando la sua visuale
ebbe catturato nitidamente l’immagine di un paio di stivali familiari, spalancò
gli occhi.
Cosa ci faceva lui lì?
Era abbastanza lontano da poterne scorgere
l’intera elegante figura. Seppur controluce, il
mantello che gli svolazzava alle spalle era la prova inequivocabile che si
trattava di lui.
Si rese conto che, con un leggero sforzo,
avrebbe potuto sollevare la testa sufficientemente da poterlo
vedere in viso. Non lo fece.
Tenne ostinatamente lo sguardo rivolto ai
suoi calzari singolari, provando a immaginare le
diverse espressioni che potevano essergli dipinte sul volto in quel momento.
Divertimento? Soddisfazione? Pena?
Non volle saperlo.
Si arrese all’idea di vederlo avvicinare
lentamente alla sua figura riversa a terra, agonizzante. Quando
fu abbastanza vicino, inspirò profondamente.
-
Uccidimi
- .
Il vento soffiò violentemente, graffiandole
i pochi punti del corpo che non erano ancora stati coinvolti nel processo
d’assideramento.
Era assolutamente certa che l’avesse
sentita. Considerando la particolare peculiarità che contraddistingueva la sua
razza, sarebbe riuscita ad udirla anche se l’avesse
sussurrato, mentre era ancora distante.
Richiuse gli occhi, realizzando solo in
quel momento cos’aveva fatto.
Morire in quel preciso momento, le avrebbe
risparmiato di subire le pene che sarebbero seguite successivamente.
Gli aveva appena chiesto di avere pietà di
lei.
Represse l’impulso di lasciarsi scivolare
sul viso deturpato le lacrime che aveva accumulato al di
sotto delle palpebre. Con un po’ di fortuna – solo un po’ – se ne
sarebbe andato, lasciandola alla fine tanto agognata.
Invece qualcosa andò storto.
Avvertì il proprio corpo venir
voltato, posizionato in modo supino. Poi una raffica di vento
la percorse, investendola interamente, seppur diversamente dalle volte
precedenti.
Si convinse ad aprire gli occhi, trovando
una difficoltà immane a compiere il gesto a causa della velocità a cui era stata
sottoposta.
Stava attraversando il cielo.
Angolo dell’autrice…
Primo esperimento in questo fandom.
Siate buoni J
Note:
-
La
storia è ambientata dopo gli avvenimenti di Freezer, esattamente da quando i namecciani – sbarcati
sulla Terra per la gioia della Capsule Corporation
^ ^ - esprimono il desiderio di
ritornare sul loro nuovo pianeta. Tutto ciò che viene dopo: cancellatelo J
Stavo riguardando le prime puntate della prima serie, quando tutti i personaggi erano ancora dei
cuccioli senza la minima idea di ciò che papà Toriyama
farà affrontare loro in futuro *___* E mi son detta:
E se…?
Ecco dunque a voi questa “What if?” J a cui spero
vorrete dare anche solamente una piccola chance.
Per correttezza, v’informo che gli
aggiornamenti non saranno affatto frequenti. O forse sì. Dipende tutto da molti fattori. La cosa certa è
che – indipendentemente da quanto tempo possa trascorrere tra un aggiornamento
e l’altro – non amo lasciare le mie storie incomplete J e non avverrà di
certo con questa.
Ringrazio
sentitamente chiunque si accosterà a leggerla J
Senza alcuna pretesa.
HOPE87