E me ne vado.
Apro la porta di
quel maledetto appartamento, la sbatto dietro di me e esco da quel posto.
Scendo le scale, e
mi lascio l’edificio alle spalle, comincio a camminare.
Perché ogni tanto
ho bisogno di starmene un po’ da sola, con le cuffiette alle orecchie, per
conto mio, a pensare.
Mi sento alquanto
triste in questi giorni, non lo so. Che cosa pensa la gente che mi sta attorno?
Che sia semplice? No, non lo è. Non è per niente
semplice, esser costretta a sopravvivere e non
più a vivere.
Sedici anni,
cavolo! Mica quaranta! Cosa pretendi da me? Che colori
i fiori? Che dipinga l’arcobaleno? Che ti porti un pezzo do luna? Forse così
comincerai a vedere che ci metto tutto l’impegno possibile, per te.
Ma alla mia età,
non riesco a non pensare a i problemi stupidi, come li
ritenete voi grandi.
La scuola, gli
amici, e i sogni, le ambizioni, e quel ragazzo maledetto che mi fa venire i
nervi.
Oh, sì, soprattutto
lui. Maledetta io che riesco sempre a incastrarmi su con i ragazzi che non
riescono proprio neanche a guardarmi per sbaglio.
Eh, sì, sono
invisibile. Il che, non credete, mi sta anche bene, a volte.
Perché mi piace
farmi gli affari miei e vivere nel mio mondo, tranquilla. Solo che, tante
volte, mi farebbe piacere fare parte anche del suo mondo. Sperando, come
sempre, di non pretendere troppo.
Alzo il volume
della musica, ora è tempo di rallegrarsi, di aprire gli occhi al cielo:
dopotutto è per questo che sono uscita, per tirarmi su.
Perciò, come sempre
negli ultimi tempi, raggiungo il prato vicino casa, e mi siedo nella panchina,
intenta a guardarmi intorno, ad ammirare il cielo. Poi, tiro fuori dalla borsa
che ho con me un quaderno e una matita, e inizio a disegnare.
Sì, se non scrivo, solo il disegno mi distrae.
Poi,
distrattamente, alzo la testa dal foglio, per sistemarmi il ciuffo dei capelli
che mi copre l’occhio.
E lo vedo.
Vedo un bambino,
otto anni circa, che piange, lì, poco più lontano da me, in un’altra panchina.
Mi ricorda me
stessa.
Non so perché, non
so neanche se ci ho pensato prima di farlo, ma mi alzo, tolgo le cuffiette
dalle orecchie, spengo la musica, appoggio matita e disegno a terra e mi
avvicino, lentamente, a quel bambino; dopo ogni passo sento il suo lamentarsi
farsi più forte. E il mio cuore batte più forte, consapevole di non saper che
fare.
“Ehi, perché
piangi?” mormoro quando sono abbastanza vicina che son sicura che mi può sentire.
Mi guarda per un
po’, ha degli occhi stupendi, verdi, e poi, tra una lacrima e l’altra, dice
piano: “La mamma non vuole farmi andare da un amico a giocare perché non ho
mangiato tutto”.
Gli sorrido. E
sapete perché?! Perché forse a tanti della mia età
piangere per questo può essere una cosa stupida, ma persino io piango per cose
ritenute “stupide” dai più grandi, perciò, da una parte, lo capisco.
“Sono triste
anch’io – ammetto – ma bisogna comunque trovare il modo, sempre, di essere
felici e di sorridere!”
Lui, smette di
piangere e tira su con il naso. “E come si fa?”
A quel punto, io
non lo so dove mi vengono fuori queste cose, rispondo con aria complice, del
tutto dimentica dei miei pensieri.
“Se vuoi ti insegno
a volare”, gli dico, tendendogli la mano.
Sì, trovo che sia bellissimo volare, anche rilassante. Quando
volo sono felice, realizzata.
E il primo che mi
dice che non si può volare, lo voglio portare qui da me, a vedermi, quanto in
alto so elevarmi nel cielo.
Il bambino
annuisce, e posa la sua mano nella mia. Provo qualcosa di stranissimo nel
vederle unite, due mani così diverse, la sua così piccola nella mia, ma sicura e salda. Lo vedo negli occhi, che si fida,
che posso fidarmi a rivelargli il segreto del mio volo.
Quindi, lo faccio
scendere dalla panchina e, tenendolo sempre per mano, lo porto al centro del
prato. Gli dico: “Guarda il cielo, le nuvole. E quando senti
di poter volare, di essere abbastanza parte del cielo, staccati dalla mia mano
e comincia a girare su te stesso più forte e veloce che puoi”. Mi guarda
scettico, come per dire ‘Sicura che si faccia così?’
“Fidati” sussurro.
E mi metto io per
prima a guardare il cielo. Lui mi imita subito, e non posso fare a meno di
sorridere.
Dopo qualche
istante, sento che la sua mano lascia la mia: siamo entrambi pronti a girare.
Io mi libero
nell’aria in poco più di un secondo, in alto, tocco quasi quella nuvola
lontana, e vedo che lui mi raggiunge, senza più nessuna lacrima negli occhi,
anzi, ora c’è solo un barlume di gioia e speranza.
Dopo qualche
istante, cadiamo entrambi a terra, troppo storni dal continuo girare attorno.
Ci guardiamo e scoppiamo a ridere, di gusto.
Siamo felici, tutti
e due, ora.
“Tu sei un angelo?”
mi chiede, dopo un po’.
Che domanda strana.
Nessuno mi ha mai chiesto una cosa simile.
Che io sia un
angelo? Non mi sembra di essere un essere soprannaturale.
Vengo da questo
pianeta, sono nata qui. Il fatto che vivo sopra le nuvole fa di me un angelo?
Mi distolgo da
questi pensieri e guardo quel bambino, così bello, così semplice.
Non lo voglio
deludere.
“No, io non sono un
angelo. Io sono il tuo angelo”.
E sorrido. E
torniamo a ridere, spensieratamente.
{ Spazio
Harry_Jo.
L’ho
scritta in un momento di tristezza, avevo bisogno di sorridere un po’.
Lo so,
non è un
granché, ma per me è speciale, importante. Lo è sul serio, sono legatissima a questa one-shot.
Una abbraccio, Vostra
Erica.