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Autore: Tersy    19/10/2010    0 recensioni
Anno 2008. Sono trascorsi sette anni dall'attacco alle Torri gemelle. Ognuno ha ripreso la sua vita in modo più o meno normale, ma ne sono inevitabilmente rimasti segnati. Tre sconosciuti, tre esperienze differenti. Un solo destino.
Dedicata ai veri eroi
Disclaimer: il racconto è di pura fantasia e non è intenzione dell'autrice urtare la sensibilità dei lettori riguardo tematiche attuali e controverse (terrorismo, politica internazionale ecc).
Prima classificata al concorso "Fenomeni paranormali" indetto dal Writers Arena
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II
Davanti a me, il deserto


“Profumo di stelle, spighe di grano. Suoni e fiabe di un tempo lontano. Vento notturno, tepore di fiamma. Non temere, c’è qui la tua mamma.” Mamma, che succede? Perché queste persone scappano? Mamma, dove stiamo andando? Dov’è papà? Perché cade tutto, mamma? Ho paura... Piango, ma non sono triste. Mi è entrato qualcosa negli occhi. Mamma?! Mamma! Dove sei? No, lasciatemi! Sto cercando la mia mamma! Io non vi conosco! Mamma! Papà!

« Boy don't try to front. »
« I - I know just what you are-are-are! 1»
« Mamma... » sibilò tra le sue labbra lucenti.
Non sarebbe stato udito da nessuno in altre circostanze, ma quel microfono era troppo vicino alla sua bocca e il suono si propagò limpido nella stanza. Le altre due ragazze rimasero impietrite, quasi fosse arrivato un intruso. E in qualche modo, quella parola avulsa dal contesto lo era. Un ronzio distorto fece riprendere alla terza ragazzina i sensi.

« Ehm... Scusate, non so... Io non.. non volevo dirlo. » balbettò cercando una giustificazione plausibile, che era lì, nella sua mente, ma che aveva timore ad esternare. Non era affatto cool rimembrare il passato.

« Sono pronta adesso, possiamo ricominciare. »
Fece un paio di colpi di tosse per schiarire la voce e mostrarsi preparata al prossimo attacco della base. Attacco. Non riusciva nemmeno a pensare a questa parola, però fingeva di farlo. E ci riusciva benissimo.

« Fancy, ehm... Sei sicura di stare bene? Senti, cioè, lo so che sei, come dire... »
Barbara non aveva una grande proprietà di linguaggio, come la metà degli adolescenti della sua età, così si aiutava con i gesti. Muoveva il collo da destra verso sinistra e contorceva le mani. Sembrava una pseudo coreografia hip hop, invece era un banale tentativo di comunicazione.

« Ecco, un po’ scossa. Come dire... » Come dire? « Cioè, tesoro, quella storia dei grattacieli. Sappi che ti siamo vicine, okay?»

« Barbara!»
Violet le tirò un pizzicotto sulla coscia, tentando di non farsi vedere da Fancy, e le lanciò un’occhiataccia che era inequivocabile: “sta’ zitta!”

« Quello che stava cercando di dire Barby » iniziò « è che siamo tue amiche. Se per qualche motivo, sei giù e vuoi sfogarti con noi, non devi far altro che chiedere. Se non ti va di cantare, non devi sforzarti. In fondo questo è solo un divertimento. Quello che davvero conta che tu stia bene. »
Posò una mano sulla schiena di Fancy e la strofinò per bene.
La giovane improvvisò una smorfia, torcendo appena le labbra verso l’alto. Era impossibile definirlo un sorriso. Ma alle altre due ragazze bastò, forse immaginavano che non avrebbero ottenuto di meglio. Le loro sei braccia si intrecciarono. Il calore dei singoli corpi venne trasfuso ai restanti. In quel momento, era la sensazione più piacevole che Fancy avesse mai provato. O ricordasse di aver mai provato.

« Grazie, davvero. »
Piegò ulteriormente quell’accenno di smorfia, che assomigliava maggiormente ad un sintomo di serenità. Eppure restava un velo oscuro sul suo volto, che fu impalpabile per le sue amiche, indecifrabile. Erano fin troppo superficiali per accorgersi del marcio che stava scavando una profonda galleria dietro a quel faccino pesantemente truccato come un’idol. Si distaccarono da quell’abbraccio estemporaneo e furono rapide a glissare la conversazione.

« Piuttosto...» Violet incrociò le braccia dinanzi al petto, mentre il mento di sollevò di alcuni centimetri.
« Che ci racconti della “serata”» enfatizzò mimando delle virgolette con l’indice ed il medio di entrambe le mani , a sottolineare che ci fosse stato qualcosa di più « con Ted? » ammiccò, mescolando infantilismo e malizia.

« Bene, insomma. Dipende da cosa vuoi sapere... » roteò le pupille, fingendo indifferenza.

« Oh avanti! » Barby si intromise nello scambio di battute.
« Avete fatto sesso? »
A lei non importava molto della cornice. Voleva solo qualche particolare assai piccante da raccontare in giro. Perché certe cose non le avrebbe mai tenute per sé. E questo Fancy lo sapeva benissimo.

« Che dire? Ci siamo andati molto vicino... »
Lasciò intendere che chissà quale rimorso moraleggiante o impedimento d’altro tipo li avesse fatti desistere, benché era nell’intenzione di entrambi andare fino in fondo. Le amiche restarono alquanto perplesse, forse non credettero in toto alle sue parole. In un certe senso, era una giusta sensazione.

« E così niente? Che peccato... »
Nel volto mortificate, soprattutto Barbara. Aveva appena perso un succoso argomento per l’indomani ed ora sarebbe stata costretta ad inventarsi qualche frottola credibile da propinare alla frotta di ragazzine invasate che lo lodavano come una diva.

« Eh già.. » piazzò le iridi confuse al pavimento, sfregò i palmi tra di loro per poi verbiare.
« Beh, ragazze, credo che si sia fatto davvero tardissimo. Forse sarebbe meglio finire domani. Oggi abbiamo lavorato abbastanza. »
Afferrò il telecomando collegato alla saracinesca del garage e pigiando sul bottone, ordinò a questa di aprirsi per consentire l’uscita delle due fanciulle.

« Okay tesoro. Ci vediamo domani sera. Buona notte. »
Violet la salutò vistosamente con sorriso che pareva un grande triangolo candido. Altra si limitò ad agitare spaziosamente la mano verso di lei, mentre si riversavano in strada.

Sola. Condizione di una sera, condizione di una vita. Sì, perché per una bambina sette anni sono tutto ciò che la separa dalla nascita. Che ne fossero trascorsi altri sette, a lei non faceva alcuna differenza. I suoi seni crescevano, i suoi fianchi si facevano sempre più larghi, l’utero non era più un organo invisibile. Ma non lo percepiva, non aveva la minima sensazione di aver vissuto per ancora un lustro e un biennio. A rammentarle la sua età ci pensavano le sue amiche, con quelle frasi sconclusionate, con in petto i desideri di Cenerentola, ma una quotidianità scialba in cui è difficile intravedere le carrozze.
C’erano i ragazzi che la guardavano come una fonte di eccitazione, come un appiglio primitivo per inaugurare la loro adolescenza. Lei non provava istinti sessuali, non ne sentiva il bisogno. Non aveva attrazione verso i ragazzi (o le ragazze). Fancy era intonsa, casta, immacolata, ma solo nell’anima, nella mente, nei pensieri che le scrosciavano via dalla testa quando si concedeva una riflessione sul mondo che correva, correva. Aveva perso la verginità a soli tredici anni, ma lei non era mai diventata una donna, e nemmeno una ragazza.
Si dice che i bambini che subiscono un forte trauma maturino più in fretta. Non è sempre vero. Fancy era rimasta in quel giorno di settembre del 2001. Era sola, e più era circondata di gente più si rendeva conto di esserlo. Non voleva crescere, infinito presente. Lei desiderava essere cresciuta, infinito passato. Ma non era in suo potere stabilire il quando o il come. Eppure le restava un flebile perché.

Il suo corpicino esile era disteso sul pavimento del garage. Supina, con gli occhi sbarrati e le braccia aperte orizzontalmente. Affannava il respiro, aiutandosi con la bocca. Gemette quando attorno a sé tutto cambiava, si sbiadiva, perdeva consistenza reale. Imbizzarrirono i suoi occhi, scattando da un angolo all’altro delle quattro mura. Non potette fermarlo, lo scorrere del tempo. Dovette correre, correre.

Sono in un luogo affollato. La gente mi passa di fianco, mi spintona pur di passare. Sono tutti di fretta e la calca scorre rapidamente. Riesco a imboccare quella che appare un’uscita, ma mi rendo conto ben presto di essermi maggiormente addentrata in questo luogo. Sollevo il capo: sono in un sotterraneo. Mi faccio strada fino al bordo del marciapiede: ci sono delle rotaie. Non c’è dubbio. Sono nell’Underground. Un treno è in arrivo, mi scanso di qualche centimetro per non farmi scompigliare dalla velocità del mezzo. Sbatto le ciglia.
Non sento più nitidamente. Ho le orecchie tappate e i rumori arrivano lenti e distorti. C’è fumo, troppo. Metto una mano alla bocca per evitare di respirarlo. Volano detriti metallici. E’ meglio andar via di qua. C’è un odore acre e sgradevole: quello dei corpi carbonizzati.


Il futuro è più arido di un deserto. Chi cerca acqua, muore assetato.
   
 
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