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Autore: cartacciabianca    19/10/2010    4 recensioni
Il fallimento è una circostanza spietata. Più che il buon animo o l’indulgere dei tuoi nemici, è la sorte a stabilire se avrai o meno un’altra possibilità. Quando un veleno fatale scorre nelle vene rendendoti cieco verso la speranza, a quale altro Dio potresti appellarti se non a quello del destino?
Cinque uomini cambieranno il corso della storia: aprendo una cicatrice nel cuore della corruzione, spargeranno i semi di una nuova rinascita. Solo dopo che sarà caduta, infatti, Roma potrà risorgere dalle ceneri del male e indossare un nuovo vessillo. Ma ad intralciare il compimento della loro sì altruista missione, c’è un essere malvagio capace di fronteggiare a testa alta qualsiasi avversario. Cesare Borgia è lungi dal permettere che gli Assassini irrompano in casa sua e calpestino lo stemma di famiglia. Per impedirlo sfrutterà il mezzo tramandato per secoli accanto al suo nome.
Nella più profonda ciecità, cosa possono insegnare un gruppo di pescatori affamati, un giovane contadino analfabeta, una vedova e i suoi due figli? Da Monteriggioni a Roma, e da Roma a Trevignano: una fuga disperata per le campagne Romane. L'ultima.
Fan fiction ambientata in un periodo ipotetico 1502/1503.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Ezio Auditore, Nuovo personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Helleborus'
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Helleborus
Capitolo II
Suffucit diei malatia sua
(Ad ogni giorno basta il suo male)


Era un buco di stanza, ma agevole abbastanza da custodire sia la segretezza sia l’importanza del loro incontro. Le pareti si confondevano col soffitto, le finestre sprangate, il pavimento di pietra. Il flebile chiarore di alcune candele era sufficiente a distinguere un tavolo e una mappa geografica distesa su di esso. A tenerne piatti gli angoli c’erano da una parte le scodelle nelle quali colava la cera delle candele, dall’altra uno stocco dalla lama sottile e un’ascia da guerra dal fusto imbottito e l’aria pesante. Spianata per bene sul ripiano e larga tre piedi per quattro, la cartina era una perfetta ricostruzione – molto dettagliata e artigianalmente dipinta – del sestiere storico romano. Era di un papiro non troppo antico, ma ugualmente pregiato e piuttosto spesso, oltremodo resistente agli acciacchi degli anni e agli agenti della polvere. Poteva avere duecento, forse trecento anni quanto essere una banale riproduzione di un esemplare andato perduto. Fatto sta che il talentuoso geografa-artista aveva scelto di esaltarne i monumenti più importanti, ingigantendoli: c’erano il Colosseo, affiancato da un’inserzione latina e la data di costruzione, le Terme e la villa di Nerone, anch’esse seguite da uno specchietto con le rispettive nomine storiche. Il Circo Massimo, il Foro, il Mercato e la Colonna di Traiano, principali punti di riferimento della città. In pompa magna la vecchia e rudimentale Basilica Costantiniana – futura San Pietro – e altri edifici cattolici romani. Il Tevere era un serpente d’argento che stritolava i Sette Colli, la cui fonte e foce si nascondevano timidamente oltre i lati confinanti della mappa. In basso, sulla destra, la Legenda incorniciata d’oro era accompagnata da una temutissima effige: quelli che lo avessero visto per la prima volta, lo avrebbero raccontato a parole come un compasso aperto o come la prima lettera dell’alfabeto latino semplificata; chi ne avesse già udito l’eco delle gesta, invece, l’avrebbe chiamato il Simbolo degli Assassini. Un marchio che raccontava di una guerra tanto antica non poteva essere ignorato, nemmeno così ben camuffato tra i decori arborei che ornavano la cornice della Legenda.
Per degli occhi che non fossero stati abituati all’assenza di luce e al dominio dell’ombra, sarebbe risultato difficile distinguere tre figure disposte attorno al tavolo, sistemato perfettamente al centro dell’angusto locale che aveva tanto l’aria di una cantina abbandonata.
A parlare per primo fu un quarto uomo in disparte, fuori dal cerchio di luce, che meglio condivideva l’intimità della propria ombra: “I Borgia hanno spedito nell’Ade abbastanza innocenti” disse. Tra le labbra solcate da una cicatrice ormai coperta di barba era passato appena un filo di voce severa. “Assicuriamoci di fare un lavoro pulito, questa volta.” Gli abiti scuri e informali gli conferivano l’aspetto elegante e spaventoso di un demone. Seduto in disparte e sopra chissà quale vecchia cassa di vino, Ezio era il meno esposto alla luce delle candele che, invece, prestavano la loro attenzione sul suo contingente personale riunito attorno al tavolo.
Lustrando la sua mazza con della pelle di daino, seduta su un vecchio sgabello e con un gomito appoggiato ad un angolo del ripiano, una seconda figura due volte più massiccia ridacchiò sommessamente. “Tu chiedi troppo, amico mio.”
“Leone, smettila d’insistere”, intervenne un terzo incappucciato di grigio, spezzando il tono ironico del compagno. “Sai bene che non possiamo correre il rischio di esporci” concluse irritato.
Leone arricciò le labbra e ignorò il desiderio di agguantarlo per la gola com’era già successo quella mattina. Lui e Davide si erano punzecchiati fino al mezzogiorno e avevano smesso solo quando Ezio li aveva sorpresi a bisticciare in un vicolo di Trastevere. Il capitano aveva decretato che non ci sarebbero state altre occasioni di mostrare le lame al nemico per nessuno dei due, se il fatto si fosse ripetuto ancora. Persino un innocente dibattito sul Mito di Davide e Golia, all’inizio delle indagini, era stato un buon motivo per accapigliarsi. L’astuzia contro la forza bruta era una delle tante polemiche del giorno, tra quei due.
“Davide ha ragione.”
Ezio e tutto il clan spostarono gli occhi su Adriano, il più fresco tra loro.
Il giovane che aveva parlato esitava se mostrarsi o meno, pensieroso sulle sue e sulle parole appena consumate da Davide. Questi aveva assunto un sorriso sghembo a compiacere se stesso – qualcuno che sosteneva le sue idee c’era ed era anche sveglio da gradirle.
Adriano, appena si fu capacitato di dover proseguire nel proprio intervento, mosse un passo verso il tavolo avvicinandosi alla fonte di luce. Vestiva di un completo grigio fumo: le brache sparivano negli stivali a collo alto, le maniche lunghe, il cappuccio alzato, l’ombra del quale gli mangiava buona parte del volto giovane e aguzzo. Aveva ancora indosso l’uniforme che il suo signore lo aveva costretto ad indossare per quella giornata. “Forse, prima di saltare alla conclusione e pretendere un gesto tanto avventato come sgozzare Cesare in casa sua, penso che dovremmo rivalutare le possibilità, tornare a studiare i suoi spostamenti e garantirci il vantaggio della sorpresa: così facevano gli antichi, e così ci è stato insegnato fin ora” suggerì cercando nel buio gli occhi del suo superiore.
Ezio era una statua sul suo trono nero. Gli occhi che Adriano cercava, diamanti nell’ombra, si ridussero a due fessure. Annuì, intimando al ragazzo di proseguire.
Andando ad esaminare la mappa distesa sotto il suo naso, il giovane interpellato non si lasciò intimidire dal mutismo accorto nel quale si erano chiusi i suoi confratelli. Leone in particolare, con la mente sempre volta all’azione, detestava quel genere di riunioni in cui si facevano tante ciance peggio di un pomeriggio da dame; ma, fortunatamente, almeno quella sera stava nei ranghi e taceva.
 “Dobbiamo sorprenderlo in un luogo appartato”, continuò Adriano seguendo col dito sulla carta un segno d’inchiostro rosso, che indicava il percorso più breve dalla Dimora degli Assassini – loro attuale nascondiglio – alla Basilica di San Pietro.
Stava per aprire bocca di nuovo, quando Davide lo interruppe e, in tono nervoso, recitò per lui: “Ma sì, attacchiamolo alle spalle, magari mentre si scopa l’amante!”.
Nel frattempo Leone, che aveva finito di lucidare la propria arma, appoggiò la mazza sul tavolo accanto all’ascia e allo stocco. “Davide, sei davvero convinto che Cesare consumi le lenzuola nella Chiesa di suo Padre?” ironizzò. Era scontato sapere che Cesare non si faceva quel genere di scrupoli.
Risero tutti tranne uno.
“Basta” la voce di Ezio, vibrante nell’oscurità, ruppe quella futile quanto breve allegria.
Davide, Leone ed Adriano si voltarono a cacciare la sua figura nel buio e la scorsero immobile nella postura fatale di un gatto acquattato tra le casse del vino.
“Per oggi è più che sufficiente” mormorò Ezio alzandosi dal suo trono oscuro. Si avvicinò al tavolo, ma non abbastanza perché la luce delle candele ne mostrasse il volto serio ai compagni. “Riprenderemo questa conversazione domani a mente fresca” disse. Estrasse dalla cintola un pugnale col manico d’argento e lo piantò con grazia e forza assieme sul tavolo, trapassando la carta geografica e buona parte del legno. “Approfittate della mia pazienza per deridere voi stessi… nessuno vi toglie questo sfogo, ma voglio che restiate concentrati” concluse lasciando la cantina.
Dispersi tra le ombre e l’uno più sorpreso dell’altro, nel salottino angusto rimasero solo Davide, Leone ed Adriano; faticavano a distinguere i passi troppo silenziosi del loro signore che saliva le scale di pietra.
Davide era scettico. Il destino di Roma si discuteva quella sera e il Gran Maestro dava congedo con l’unico ordine di tenersi all’erta, ma non lo biasimava se parlava di “mente fresca”. Forse sarebbe stato un bene riprendere la discussione l’indomani, affinché la lucidità giocasse la sua mossa nella partita, ma Davide era lungi dal permettere che andasse speso del tempo proprio quando a loro n’era concesso: la frase ‘il nemico è vulnerabile nel sonno’ si riferisce anche alle macchinazioni possibili solo durante una sua distrazione. Avrebbero dovuto approfittarne finché potevano.
Così Davide, di sua iniziativa, si avvicinò alla cartina e ne studiò a lungo, riflettendo, un settore preciso. Gli altri due, già in procinto di smontare le tende, ne furono incuriositi.
“Al sorgere del sole le guardie in questa zona celebrano il cambio. Mi sembra un momento non buono, bensì ottimo per agire” propose.
Ci fu silenzio solo qualche istante.
“Certo, ma non arriveremmo mai in tempo” commentò Adriano indagando lo sguardo contrariato del compagno Leone.
“Lo scricciolo ha ragione, idiota” esordì quello, arrogante, piazzandosi dall’altro capo del tavolo rispetto a Davide. “Ti ricordo che Cesare ha disposto i suoi sacchi di sterco attorno al giardino” indicò il verde che circondava il punto su cui indugiavano gli occhi di Davide. “Se anche superassimo le fontane, arrivati in piazza ci sguazzeremmo fino al collo nella sua merda” concluse.
Davide lasciò cadere le spalle. “Leone, per favore, le parole.”
Quanto lo infastidivano i termini volgari…
“No, adesso stai zitto e ascolti,” tutt’a un tratto Leone sembrava molto preso dalla discussione, più di quanto non lo fosse stato in precedenza al cospetto del Gran Maestro.
Ogni occasione è buona per prendermi a parolacce… pensò Davide, sospirando.
“Non basterebbero altri venti di noi per sgombrare quella zona e avere il via libera fino alla cattedrale. Se proprio Ezio vuole colpire così presto e noi andare sul sicuro, io propongo di aprirci un varco alle loro spalle, qui. Non oseranno lamentarsi se scavalchiamo i loro terrazzi, perché avranno le gole mozzate prima di poter cantare col gallo!”
“Intanto non possiamo permetterci di scatenare l’anarchia in quel distretto; finiremmo per farci tirare dietro mattoni dalla gente del posto. Di nuovo. E poi, chi ti da il diritto di azzittirmi in questo modo?! Sono un tuo fratello di lama, ma soprattutto un tuo superiore in grado, razza di stolto!”
“Al tuo posto, non tremo quando i gatti rizzano il pelo! Se te la fai sotto per un paio di zappa-terra inferociti, penso che faticherai parecchio a tenertela in culo di fronte alle Guardie Papali!”.
“Rimangiati quello che hai detto. Subito!”
“Ragazzi, non ricomin…”
“Adriano, lascia parlare gli adulti” sottolineò Leone, pungente.
“In tal caso, con chi altri potrei parlare se non me stesso?” schernì Davide.
Il sangue gli ribollì nelle vene, ma Leone si limitò a stringere l’asta della sua mazza – probabilmente resistendo all’impulso di fargliela salire su per il culo. Dopodiché borbottò sotto tono qualche insulto a Davide che Adriano si divertì ad ascoltare. In fine, al termine di una sanguinosa battaglia interiore, ripose l’arma tra la stoffa rossa che gli cingeva i fianchi robusti e lasciò la cantina a grandi passi pesanti.
A quel punto Adriano ringraziò il Cielo, potendo godere di una quiete quasi surreale. Era una di quelle rarissime volte in cui le discussioni tra Davide e Leone non si concludevano in una scazzottata. “Dato lo spazio così stretto, poi, ci sarei andato sicuramente di mezzo pur io…” constatò tra sé e sé.
Davide soffiò sulle candele. “Non so quanto ti convenga gioire” borbottò scoccandogli un’occhiata penetrante attraverso la nuova e fitta oscurità. “Abbiamo deciso una botte di niente! L’hai visto, no? E’ tutta la settimana che va avanti così: sempre nero più della sua ombra. Ha smesso di darci ordini, vuole fare tutto da solo! E questa cosa, dannazione, mi fa saltare i nervi!”
Adriano ci mise un po’ per capire. “Ah, parli del Maestro.”
“E di chi, sennò?”
“…Leone?”
Davide scrollò le spalle. “Non tengo a lui tanto da preoccuparmene. Litigandoci sfamo la mia curiosità di sapere quanto può alimentare la sua stupidaggine. Con quel cervello da gallina che si ritrova ci farà ammazzare tutti quanti” pronunciò accigliato fissando un gradino impreciso delle scale, forse il punto nel quale la sagoma di Leone era scomparsa del tutto alla sua vista. “Piuttosto,” disse voltandosi verso il giovane compagno, “è Messer Ezio a preoccuparmi. Non mi piace come si sta comportando ultimamente. Tu cosa ne pensi?”
Adriano si strinse nelle spalle. Era anche la prima volta che messer Davide gli chiedeva un parere così diretto. Il ragazzo aveva capito dove il suo confratello voleva andare a parare con quella domanda e non lo biasimava poiché erano ragioni che l’avevano spinto in più occasioni, nelle ultime settimane, a dubitare della lucidità del suo signore. “Forse dovremmo lasciarlo in pace; infondo…” esitò, ma Davide sembrava realmente interessato al suo parere; così inghiottì la timidezza. “Il Maestro sta combattendo la sua guerra, e noi la nostra, e penso che le motivazioni di ciascuno non debbano influire su quelle dell’altro. Poiché suoi apprendisti, il nostro unico compito è per l’appunto apprendere. E se questo implica tacere sulle sue, di motivazioni, non mi stupisco. Non siamo tenuti a fare altro, al di fuori dall’ubbidire ad ordini provenienti dalla sua bocca. Dipendiamo dalle sue labbra, ma il Maestro non dipende forzatamente da noi.” Un discorso tanto serio, più o meno logico, non gli era mai uscito di testa. Adriano si meravigliò di se stesso.
E di fatti, a maggior ragione, anche Davide annuì compiaciuto. “Sei sveglio” commentò. “Molto sveglio. Ora capisco che c’è altro per cui ad Ezio piace ascoltare la tua voce da bambino” ridacchiò, facendo arrossire il ragazzo. “Ma anche molto ingenuo” assentì a voce più greve.
Quelle sue ultime parole pesarono come mattoni sulle spalle del giovane Assassino. “Su una cosa però ha ragione:” obbiettò Adriano, un po’ offeso, guardando il compagno mettere ordine sul tavolo. “Dobbiamo concentrarci sulla missione!”
“Almeno noi, vorrai dire, sperando che basti” blaterò Davide per sé.
Adriano lo lasciò andare via senza aggiungere altro. Così, mentre il confratello più anziano abbandonava la cantina e prendeva congedo, il più giovane guardò un’ultima volta il manico dello stiletto conficcato nella cartina e nel legno del tavolo. L’impugnatura d’argento era decorata di un motivo piumato; un becco d’aquila si apriva sull’attaccatura della lama e il manico doveva rappresentarne l’ala distesa. Nessuno aveva o avrebbe osato toccare quel pugnale, la cui punta spariva, inghiottita dal disegno, tra le mura del Vaticano.












.:Angolo d’Autrice:.
Ecco un primo accenno dell’imprudente Ezio di cui vi parlavo, ovvero di quell’uomo mentalmente frustrato che maledice il giorno in cui è andato a farsi degli “amici”, come dice nello Story Trailer.
Se all’inizio della pubblicazione ho stimato una ventina di capitoli, adesso ne ho fissati quasi una trentina. Ancora tutti da stilare, ovvio, poiché quello che avete appena letto l’avevo pronto assieme ai prossimi 10 non so da quanto tempo…
Per adesso ho deciso di mantenere gli “apprendisti” di Ezio nell’anonimato, nell’ombra, insomma. Avrete notato (spero…) pochissime descrizioni fisiche. La cosa è voluta. Un po’ perché, ci tenevo a dirvelo, vi chiedo di non immaginarveli tutti bei giovani ventenni. Nel prossimo capitolo conosceremo Vittorio, il quarto discepolo di Ezio, che ha quasi l’età del Gran Maestro :D Se Adriano si aggira attorno alla diciassettina d’anni, massimo diciotto, Davide e Leone si avvicinano ai trenta (e sì! Ancora litigano come dei bambini!)
Spero di non avervi spaventati con tutto quel popò di considerazioni personali su Helleborus, o annoiati con questo nuovo capitolo. In dolce attesa delle vostre impressioni ^^’

*Colgo l’occasione per ringraziare infinitamente Phantom G, che sta alleviando i cuori di molti scrittori e scrittrici con le sue recensioni piene di lusinghe alle varie nuove storie. Non immagini che colpo all’anima (cit. Ligabue) sia stato per me poter finalmente sbocciare la prima recensione. Ci tenevo molto, ci tengo tutt’ora. Grazie, infinite grazie… sai come sollevare il morale alle scrittrici depresse! XD
*Ringrazio anche Runa Magus per aver aggiunto la fan fiction alle seguite. È un onore.
 

   
 
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