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Autore: Marselyn    27/10/2010    13 recensioni
Così lui si aggrappava ad ogni singolo secondo, ogni singolo battito di cuore che gli restava.
Ogni goccia, ognuno di quei piccoli frammenti di cielo era essenziale.
E ognuna di loro sembrava scandire ogni istante di quella che era, ora, come una dolce e breve fiala di esistenza.
Era ora di lavarsi degli sbagli commessi.
Quattordicesima classificata al contest 'Proud or Ashamed of Being a Black' indetto da vogue sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Black, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
- Questa storia fa parte della serie 'Coriandoli Neri.'
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Questa storia ha partecipato al contest Proud or Ashamed of begin a Black indetto da vogue, classificandosi al Quattordicesimo posto.

Nonostante la posizione in classifica, sono ugualmente contenta, visto che il giudizio di vogue (che ringrazio infinitamente) è stato tutt'altro che negativo. Condivido assolutamente il giudizio, in tutto e per tutto, in particolar modo il frangente riguardante l'attinenza della frase; ci sta proprio da schifo XD Cercherò di fare di meglio in futuro, promesso ^^'






Una ragione in più




“Aspetta” disse, prima che Kreacher potesse materializzarsi.
L’elfo lo osservò con aria apprensiva, aggrottando la fronte marrone. “Padron Regulus, la caverna” disse, tremando da capo a piedi. “Non c’è altro modo per rag…”
“Lo so” lo interruppe, guardandolo nei grandi occhi acquosi. Deglutì. “Ma prima voglio andare da un’altra parte, Kreacher. Sarò io a materializzarci”.
Kreacher osservò impotente il padrone e annuì debolmente.
Regulus allungò una mano, cingendo l’ossuta spalla dell’elfo e chiuse gli occhi, lasciando che i loro corpi si materializzassero insieme.

Crack

Il rumore gracchiante risuonò nella notte, rimbalzando dall’asfalto alle mura delle case.
Si trovavano in un quartiere babbano e le strade erano deserte per via dell’ora notturna.
La luce gialla dei lampioni illuminava le pozze d’acqua ai margini della strada intorno a loro, e la pioggia vi cadeva giù, punteggiando la nera superficie liscia, creando onde concentriche che morivano mangiandosi a vicenda.
Kreacher si guardò intorno e prese a borbottare, disgustato.
Regulus alzò lo sguardo per trovarsi di fronte il luogo che immaginava di trovare: un breve vialetto conduceva ad una porta chiusa di una casa di un chiaro giallo, non molto diversa da tutte le altre.
La pioggia aveva ormai inzuppato i suoi capelli, e rivoli di acqua gli correvano lungo il viso, spettralmente illuminato dalla fioca luce della notte.
Catturò il labbro superiore in quello inferiore, e si lasciò scivolare in gola una gocciolina d’acqua.
“Kreacher” disse, abbassando lo sguardo sulla figura accanto a sé. “Andrò da solo, non ci vorrà molto” Poi si guardò intorno, scrutando le nicchie e i ripari che quel luogo concedeva dalla pioggia. Adocchiò la sporgenza di un edificio, a pochi passi dalla casa gialla, e proseguì: “Riparati lì, arriverò tra poco.”
Kreacher annuì con gli occhi gonfi, e si diresse.
Il ragazzo ritornò a fissare l’abitazione di fronte a sé, sbatté le ciglia tra loro per far sgocciolare le piccole perle d’acqua che vi si erano impigliate, e si avviò lungo il vialetto.

In che modo ci si presentava a quell’ora della notte, senza rischiare di apparire uno che ha dato di matto?
Un sorriso amaro gli si dipinse in volto: di certo, a qualunque ora avesse bussato a quella porta, la sua semplice presenza lì sarebbe stata in ogni caso una sorpresa sconveniente.
Ne era consapevole.
Non sapeva perché si trovava davanti a quella porta, adesso, di fronte all’ingresso di un passato con il quale aveva già volutamente rotto da molto, e non osava chiederselo.
Eppure, improvvisamente, aveva sentito lo stupido bisogno di ritoccarlo ancora, quel passato, anche solo sfiorandolo con la punta delle dita. Non che quest'anormale necessità avesse alcuna spiegazione logica, ma sapeva di essere un morto camminante, uno spettro in procinto di un sacrificio. Da lì a pochi minuti sarebbe morto: aveva concluso che, per una volta nella vita, – forse troppo tardi - avrebbe potuto concedersi il lusso di mandare al diavolo le ragioni logiche.
E, a dispetto della morale, dell’educazione, del suo stesso sangue, adesso era lì, semplicemente guidato da quell’unico briciolo di umanità che gli restava. Debolezza o follia questa fosse, non gli importava più ormai: dopo, al massimo, ci avrebbe fatto una risata sopra, comunque fosse andata, o avrebbe raccontato quella folle e insensata iniziativa ai suoi molto prossimi amici Inferi.
In fondo cos’altro aveva da perdere?
Alzò in aria un pugno e bussò alla porta.

Il vento era freddo e gli indumenti fradici sembravano inumidirlo fino al midollo. Un soffio d’aria gli sferzò il volto e un brivido gli percosse violentemente la schiena.
Anche se non lo vedeva, sentiva su di sé lo sguardo ansioso di Kreacher.
Infilò le mani dentro le tasche umide, continuando ad ingoiare le goccioline d’acqua che si arrestavano, in bilico tra il suo labbro superiore e il vuoto.
Non l’avrebbe mai pensato, ma bere quell’acqua era tremendamente bello poco prima di morire. Era quasi rincuorante ingoiare le gocce di pioggia: sembravano contenere vita, tranquillità, sapevano dissetarlo di piccoli frammenti di pace.
Ma forse non era che un’impressione.
Una mera e falsa illusione.

Perchè cominciava a sentire l’agitazione montargli addosso; al tre avrebbe voltato le spalle e sarebbe ritornato alla sua missione.
Stava solo perdendo tempo.
Uno…
Che stupida idea era stata quella di recarsi lì.
Due…
Ritornare indietro era la cosa giusta da fare. Lui aveva un compito, era inutile cercare di sfiorare qualcosa che non aveva mai avuto veramente tra le mani, a maggior ragione adesso che avrebbe comunque dovuto abbandonarla.
Tre…

La porta si dischiuse e nel buio Regulus scorse il riflesso di uno sguardo incerto, poi la porta si riaccostò in fretta.
Fece per voltarsi, ma quella si mosse nuovamente.
Due occhi nuovi si inoltrarono adesso oltre l’orlo legnoso: occhi diversi, più sicuri, più attenti e più esperti. Insieme, un brillante, piccolo globo di luce galleggiava in aria, illuminando quanto bastava del viso di Regulus.
Gli occhi indugiarono su di lui qualche istante, scrutandolo in maniera indefinita. Era sicuro di sapere a chi appartenevano.
Poi non li vide più, ma la porta si aprì completamente.

Andromeda, sull’uscio, puntava la bacchetta in lumos contro il suo petto, gli occhi, freddi come mai li aveva visti, fissi su di lui.
Il suo volto era rigido, contratto in una smorfia di disprezzo e rancore: non c’era posto per la sorpresa, per lo stupore, e neanche per il leggero velo di comprensione e dolcezza che era sempre stato compagno indissolubile di quegli occhi. Solo una maschera di profondo disgusto e un’amara delusione.

Quanto stupido doveva essere stato per essersi recato lì? Quanto deboli il suo cuore, la sua mente, la sua razionalità dovevano scoprirsi, per far sì che si portasse in quel luogo, guidato dall’improvvisa urgenza di quell’insensato bisogno?
Quanto disonorevole poteva essere per un Black voltarsi e darsela a gambe, di fronte alla resa dei conti con il proprio passato?
Se uno stralcio di antico orgoglio e radicato onore non si fosse ostinato a permanere ancora in lui, cementato nel suo più profondo animo, Regulus l’avrebbe fatto: sarebbe fuggito.

Andromeda lo guardò intensamente: si sentiva messo a nudo, spogliato delle sue stesse deboli difese.
Lo sguardo accusatore di un’antica promessa.
Poi la vide scrutare intorno. Gli parve che i suoi occhi si fossero soffermati nel punto in cui si era nascosto Kreacher, ma poi scivolarono altrove, indagatori.
Poi indugiò nei giovani occhi chiari, ma neri come il buio, ancora una volta, e si inoltrò nuovamente nell’oscurità della sua casa, chiudendosi dietro la porta.
Regulus sospirò di sollievo: era finita. I suoi desideri erano stati ammutoliti e, delusi o sorpresi che fossero, dovevano sottostare alla realtà: Andromeda non voleva vederlo.

Non se l’aspettava, era vero.
Ricordava come, in altri tempi, Andromeda era stata l’unica cugina a vederlo per quello che era, e non per cosa sarebbe diventato.
Ricordava come, durante le notti estive, capitava che lei, lui e Sirius si immergessero ad osservare le stelle, come un unico, vero nucleo familiare.
Il pensiero gli morse lo stomaco.
Ma lei ora non voleva vederlo e in fondo era giusto così.
Fece per voltarsi, ma in quel momento una striscia verticale di luce si accese davanti a lui, illuminandolo da capo a piedi: la porta era socchiusa e il bagliore proveniva da dentro.
Inspirò profondamente ed entrò.

Si inoltrò nell’ingresso buio, diretto verso la stanza illuminata. Dopo pochi passi si ritrovò in quella che doveva essere la cucina. La stanza era cosparsa di aggeggi babbani – probabilmente Andromeda voleva che il Nato-babbano si sentisse a proprio agio -, alcuni tipici fronzoli domestici magici - che ricordava si trovassero anche in casa sua - e un tavolo con delle sedie. Le pareti erano punteggiate da foto che ritraevano Andromeda, la figlia Ninfadora e il marito Nato-babbano Ted Tonks. Tra le tante, Regulus scorse un’immagine che figurava Ninfadora occupata in un abbraccio calorosamente ricambiato da un ragazzo con il viso incorniciato da lunghe e ribelli ciocche nere: era Sirius.
Sentì un sentimento indefinito attanagliargli lo stomaco: era l’abbraccio che non univa loro due da molto, troppo tempo.

Andromeda era di spalle, sorseggiava un bicchiere d’acqua e con una mano sembrava sorreggersi sul bordo della cucina, e, accanto a lei, un Ted Tonks dagli occhi allarmati si sosteneva invece sullo schienale di una sedia. Era intimorito e lo guardava con espressione tesa sul volto. Tra i due, Andromeda sembrava tenere le redini della situazione.
“Ted, ho bisogno di stare da sola con lui, va’ da Dora prima che si svegli” disse con voce ferma, ma con una nota vibrante di tensione.
“Sicura?”
Andromeda annuì e Ted, rigido, sorpassò Regulus senza rischiare che i suoi occhi incrociassero quelli del ragazzo.
Quando il nato-babbano fu fuori, la donna si voltò a guardarlo, gelida e ferma come una roccia di ghiaccio, facendogli segno di sedersi.
Aveva dimenticato quanto fosse così sorprendentemente simile alla sorella, Bellatrix.

“Cosa sei venuto a fare qui?” domandò, trascinandosi nella voce un filo di disgusto. Nei suoi occhi era riflessa la stessa amara ripugnanza che Regulus aveva letto in quelli di Sirius, non molto tempo prima.
Sirius ed Andromeda erano così simili nella loro reità, nella loro ribellione, nella loro libertà.
Lo stesso disonorevole sangue scorreva nelle loro vene e inquinava il nome della famiglia Black.
La stessa ironica sfida nello sguardo fiero dei due, la stessa fame di vita.

E la verità era che lui aveva sempre invidiato quella forza, quella così fervida capacità di opporsi alle regole, rischiando la solitudine, ma guadagnando la libertà.
Li aveva sempre visti così simili, così complici, così distanti da lui, che rimaneva accucciato nelle grazie del proprio nome, incapace di desiderare altrettanto ardentemente la libertà, per paura di perdere tutto. Per paura di rendersi davvero conto che nella vita non c’era altro che solitudine.
E per tutto questo tempo, lui era sempre stato fermamente convinto dell’inoppugnabile ragione delle proprie scelte.
Non aveva mai aperto gli occhi completamente.

“Perché mi hai fatto entrare? Non temi per la vita di quel Nato-babbano di tuo marito? E per tua figlia?” tacque. “Sai cosa sono?”
Andromeda gli lanciò un’occhiata di ironica commiserazione.
“Temere? Chi, te?” Poi abbozzò un sorriso indulgente. “Ti sei visto? Sei uno spettro, Regulus. Pensi che potrei mai avere paura di te? Guardati, non so come ancora tu ti regga in piedi. Tu non esisti più, hai smesso di esistere nel momento in cui ti sei lasciato abbindolare dalla cieca brama del potere. Sei un fantasma, e se solo io volessi, se solo se ne presentasse la necessità, credi che ci metterei molto a renderti innocuo?” Rise cupamente, scuotendo la testa. “Regulus, sono una strega più esperta di te, anche se sono una madre e una moglie. Uno sfregio di dubbio gusto sul braccio non ti rende più forte” proseguì, incatenandolo con lo sguardo. “Ti da solo uno motivo in più per uccidere.” Regulus si mosse sulla sedia.
“Potrei farlo” replicò, con sfida. “Potrei ucciderti, uccidere tuo marito e tua figlia. Potrei non essere solo.
Andromeda lo scrutò, impermeabile. “C’è Kreacher lì fuori, pensi che non l’abbia visto? A cosa ti servirebbe? E poi perché Voldemort dovrebbe voler fare fuori me? Credi che manderebbe una squadra dei suoi scagnozzi solo per liberarsi di Andromeda Black? No, so benissimo che non sei qui in veste di Mangiamorte, ma di Regulus” Lo guardò intensamente. “O di quello che ne resta di lui.” concluse.
Regulus distolse lo sguardo.
“Perché sei qui?” ripeté lei, con più fermezza.

Cosa avrebbe dovuto dirle?

Forse che da lì a poco sarebbe morto e che nessuno avrebbe mai saputo che Regulus si era sacrificato?
Che lei e Sirius non sarebbero mai venuti a conoscenza del suo cambiamento? Della sua presa di coscienza? Della sua morte?
Avrebbe dovuto spiegarle che quella era l’ultima volta che i loro sguardi si incrociavano, e non c’era altro che disprezzo e rancore per lui?
E che lei era tutto ciò che rimaneva della sua vita, ed era l’unico modo per rivedere, in quelle stesse iridi, gli occhi di Sirius?
Che da tre anni non aveva la minima idea di dove questi fosse, ed era fin troppo vigliacco per cercarlo?
E che il solo pensiero che suo fratello lo avrebbe sempre creduto uno sporco servitore del diavolo era il solo ed unico che lo spingeva a morire, nell’illusione che un giorno questo sarebbe bastato a redimerlo dai propri sbagli?
E avrebbe dovuto dirle che si era pentito?
Che si era pentito?
Che si era pentito?

Tacque, incapace di parlare.
“Puoi ancora tornare indietro, Regulus” disse in un soffio Andromeda. Regulus alzò lo sguardo e vide gli occhi comprensivi e intensi di una volta. I suoi occhi. “Puoi tornare indietro” Una lacrima scivolò lungo la guancia bianca della donna, ma lo sguardo denso di speranze non tradiva la fierezza. “Fallo per te” la voce era ferma: Andromeda era il ritratto di una donna che aveva scelto e che, anche nelle lacrime, malgrado il dolore, continuava a scegliere ogni giorno. “Fallo per lui”.

E avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto dirle che quello che avrebbe fatto da lì a poco era solo per lui, era solo per Sirius.
Perché avrebbe potuto scegliere, Regulus, di farsi aiutare, avrebbe potuto scegliere di compiere questo passo con l’appoggio e l’ammirazione di tutti, con l’appoggio e l’ammirazione di loro. Ma non l’aveva fatto, non l’aveva scelto, perché era giusto così.
Perché era giusto che la verità regnasse sepolta solo nel suo cuore.
Forse, un giorno, Sirius l’avrebbe saputo.
Forse, un giorno, ai suoi occhi sarebbe finalmente parso una persona diversa.
Era una promessa.
Ma la solitudine, adesso, era parte della promessa stessa.

D’altronde, nella vita c’è un momento per fare gli eroi e un momento per far sì che il tempo risciacqui via le antiche ferite, e lasci, da solo, riaffiorare la verità.
Ed allora sarebbe stato più dolce.
Ed allora, Regulus, avrebbe finalmente ripreso a respirare, nelle acque più profonde, tra le nodose braccia del demonio, avrebbe respirato del perdono di Sirius.
Ma adesso aveva una promessa da rispettare.
Una promessa.

Si alzò dalla sedia e Andromeda serrò le labbra, frenando un ignoto sentimento. Forse rabbia, forse disprezzo, forse delusione.
Regulus si sfilò l’anello che teneva al dito e lo lasciò cadere sul tavolo davanti a lui.
Lei lo guardò cupa.
“Sai cos’è questo?” chiese Regulus. Non rispose, ma prese a fissare il gioiello di poco valore sul tavolo. “Ti ricordi quella notte, la vigilia di natale? Io, tu e Sirius abbiamo fatto una promessa, guardando le stelle, e abbiamo infilato quest’anello: saremmo stati insieme, sempre e comunque, non ci saremmo mai traditi a vicenda, saremmo andati incontro a tutti, pur di restare insieme”
“Avevi cinque anni, Regulus. Non c’è più alcun anello nelle nostre dita: io e Sirius abbiamo dimenticato quella promessa”
“Ma come vedi io non l’ho dimenticata”
“Ci hai traditi” rispose, con freddezza. “Che vale adesso quella promessa? Tu non l’hai mantenuta”
“E non sto dicendo che la manterrò” rispose. “Ma voglio che tu lo tenga, voglio che qualcosa del vecchio Regulus vivi ancora.”
Andromeda lo guardò intensamente. “Che stai cercando di dirmi?” disse, scrutandolo.
Tacque qualche secondo. “Niente” disse semplicemente.
Andromeda rimase a fissarlo.
Forse, un giorno, anche lei avrebbe capito.
Regulus indietreggiò, senza scostare gli occhi, immersi in quelli della donna.
“Voglio che non torni più, Regulus” disse lei, con i resti della sorpresa ancora in volto. “Non tornare mai più.”
Gli sembrò, improvvisamente, che fosse stanca. Immensamente stanca e abbattuta.

C’era stato un tempo in cui Regulus, Sirius e Andromeda erano stati una cosa sola, un nucleo familiare che sapeva di casa, soli contro il mondo.
C’era stato un tempo, molto lontano, in cui non esistevano vincoli di sangue e di nome, ed i sogni volteggiavano liberi tra le stelle, disegnando traiettorie che prendevano i loro nomi.
C’era stato quel tempo, tanto tempo prima, in cui Regulus era felice.
E non l’avrebbe mai dimenticato.
Non l’avrebbe mai dimenticato.

“Non lo farò” rispose. “Addio, Andromeda.”
E si voltò, incamminandosi verso l’uscita.


“Mamma, cos’è tutto questo baccano?”
Regulus si voltò appena davanti la porta, cercando l’origine dalla voce. Sapeva che doveva uscire da quella casa, un compito l’aspettava, ma non riuscì a frenare la curiosità: una bambina, piuttosto bassa per la sua età, dai capelli celesti che sembravano di raso, si trovava sull’ultimo gradino delle scale, qualche passo oltre la cucina. Le sue spalle erano cinte dalle mani paterne di Ted Tonks.
“Io voglio dormire, non vi viene in mente a voi? E’ notte fonda!” continuò quella, mentre si torturava un occhio con l’indice, e l’altro occhio, insonnolito, si chiudeva e si riapriva a scatti.
Quando vide la sagoma del ragazzo sull’ingresso sobbalzò e prese a scrutarlo nel buio, cercando di riconoscerne i lineamenti, illuminati dalla sola, debole luce lunare che filtrava dalle imposte aperte.
Sir…” iniziò a gridare, ma poi si frenò bruscamente. “Tu chi sei?” domandò con spavalderia. Il padre le strattonò lievemente le spalle, lo sguardo allarmato.
“Dovresti avere paura degli sconosciuti, piuttosto che domandare loro chi sono” replicò Regulus, con la stessa sfida di un bambino che si scontra con un coetaneo.
“Paura? Pfua!” esclamò lei, gonfiandosi il petto. “Perché cosa vuoi farmi, vuoi uccidermi?” canzonò, indispettita.
“E se lo facessi?” domandò lui.
Come ti perm…
“Shh, zitto papà! Devo sentire che dice!” protestò lei, strattonandogli la vestaglia. Poi ritornò a fissare Regulus, e gli fece gentilmente cenno di continuare.
Quella bambina era tremendamente burbera. Più burbera di un’ottantenne.
Era così divertente che a Regulus non venne in mente niente che potesse concludere l’ultima serata della sua vita in maniera migliore.
“Se volessi ucciderti” continuò, in tono di sfida. “Non avresti paura della morte?”
La bambina prese ad annuire gravemente, come se stesse ponderandoci un po’ su, poi alzò il mento e parlò: “Se ogni notte non mi permettono neanche di dormire in santa pace e sarò condannata a quest’Inferno per sempre, penso di no. Insomma, in quel caso la vita non sarebbe poi una gran sorpresa, non vedo perché la morte non potrebbe esserne una più grande, più degna di me, e molto più piacevole” disse, con tono saggio. “Magari sì, magari poi potrei riposare senza che estranei, squilibrati, piombino così in casa mia e disturbino il mio sonno.”
Ted Tonks era una maschera di orrore e indignazione.
Regulus rimase a guardarla negli occhi, poi non riuscì più a trattenere le risate: e rise.
La bambina lo guardò offesa, e per paura che cominciasse anche a credere che non avesse preso la loro conversazione seriamente, Regulus disse: “Mi piace, ma vedi di non pensarci più. Vivi e basta, sei troppo giovane ancora.”
Lei lo guardò in modo strano, poi borbottò: “Io me ne torno a letto, vedete di farlo anche voi. Buonanotte.” E sparì indispettita su per le scale, seguita dallo sguardo attonito di Ted Tonks.
Prima che il mezzo-babbano potesse ritornare a fissarlo, Regulus aprì la porta e se la richiuse alle spalle.

Fuori continuava a piovere.

Vide Kreacher uscire dalla nicchia e venirgli incontro.

“... in quel caso la vita non sarebbe poi una gran sorpresa, non vedo perché la morte non potrebbe esserne una più grande, più degna di me...”.
Le parole della figlia di Andromeda gli risuonarono nelle orecchie.
E, incredibilmente, quella frase, ora più che mai, sembrava adatta a lui.

Forse la vita non aveva più niente da offrirgli?
Forse lui era degno solo della morte?
Forse solo la morte poteva lavarlo dei suoi sbagli?

, era così che doveva andare.

Camminò fino a superare il vialetto, ritrovandosi di nuovo in strada, gambe a faccia con l’elfo.

Continuava a piovere.

“Possiamo andare Kreacher” disse, e di nuovo le gocce gli scivolavano lungo il volto. “Sono pronto, ora.”

E lo era davvero.
Andromeda, inaspettatamente, gli aveva dato una nuova ragione per fare ciò che doveva fare: la ragione giusta.
Lei.
Lui.
Loro.
Se stesso.

Era pronto.

La pioggia sembrava stranamente più importante ora, stranamente più bella, come mai l’aveva vista.
Ogni singola goccia che scivolava sulla pelle diafana, che si spingeva fino all’ultimo millimetro lungo le ciocche di capelli neri, era un momento in più da vivere, un secondo in più a cui aggrapparsi, una preziosa consapevolezza dell’essere ancora lì, presente e vivo.
Si sentiva un po’ come una di quelle gocce, quando una di loro corre lungo una pennellata scura di capelli, corre, corre fin quando non giunge all’orlo del precipizio, e fino all’ultimo si aggrappa audacemente, finché poi non molla la presa e cade giù, inesorabile, verso l’asfalto.
Così lui si aggrappava ad ogni singolo secondo, ogni singolo battito di cuore che gli restava.
Ogni goccia, ognuno di quei piccoli frammenti di cielo era essenziale.
E ognuna di loro sembrava scandire ogni istante di quella che era, ora, come una dolce e breve fiala di esistenza.

Era ora di lavarsi degli sbagli commessi.


*


Oblivion.

Quella stessa notte, come Regulus gli aveva chiesto di fare, Kreacher si inoltrò in casa Tonks, e cancellò dalle menti dell’intera famiglia e della sua ogni singola memoria di quel fugace incontro.
Mentre lui moriva.
Con una ragione in più.



*


16 anni dopo.

“Cos’è?” domandò Sirius, osservando intensamente un vecchio anello impolverato.
“Bè, se non lo sai tu, cugino” ridacchiò Andromeda.
“No, questo l’ho pescato da lì, non è mio” replicò lui, indicando uno scatolone pieno di vecchie cianfrusaglie che Andromeda aveva portato da casa sua: già che c’era, aveva preparato anche lei uno scatolone pieno di roba che aveva in mente di buttare da tanto tempo. Avrebbero messo lì tutto ciò che entrava dei cimeli del cugino, per poi incenerire tutto insieme.
Sirius ritornò ad osservare l’anello, come magnetizzato.
“Allora, cos’è?”
“Ah, beh, non so” disse Andromeda, scrollando le spalle. “Si direbbe che sia un anello”
Sirius le lanciò un’occhiata torva con la mente: non riusciva a distogliere lo sguardo dall’oggetto.
C’era qualcosa…
Gli sembrava di conoscerlo…
“Voglio dire” disse, un po’ annebbiato. “Ti ricordi a chi apparteneva?”
Andromeda si fermò a scrutare l’anello da lontano, ma poi riprese a frugare in un cassetto del salotto Black.
“No” disse. “L’ho trovato in casa una decina di anni fa, o forse molto di più, e l’ho messo da parte. Non so neanche perché non l’abbia buttato prima… beh, sì, probabilmente per la stessa ragione per cui non mi sono disfatta di tutta quell’altra roba… Per fortuna, mi ci hai fatto pensare tu” continuò. “Ad ogni modo, perché me lo chiedi?”
“Non so…” mormorò, continuando a rigirarselo ipnotizzato tra le mani. “Mi sembra di averlo già visto…”
Eppure non riusciva a ricordarselo.
Sentiva qualcosa… qualcosa lo turbava profondamente in quell’anello…
Non sapeva perché, ma, piano piano, una languida malinconia gli impregnò ogni membra, e più cercava di allontanarla, più quella lo invadeva…
Sirius?”
Sirius sobbalzò e sbatté ripetutamente le palpebre per riprendere lucidità. Vide Andromeda guardarlo con un cipiglio preoccupato in volto.
“Stai bene?”
“Sì…” rispose. “Non è niente… pensavo di averlo già visto, ma l’avrò confuso con qualcos’altro”
Andromeda annuì, sorridendo.
“Posso gettarlo via allora?”
 “Sì” rispose l’uomo, rilanciando l’anello dentro lo scatolone, insieme agli altri cimeli. “Buttalo… buttalo pure.”
Ma c’era tristezza nella sua voce, eppure non riusciva a capire perché.



*






-Grammatica: 9/10 
-Stile e Lessico: 9/10 
-Originalità: 15/15 

-IC: 14/15 
-Attinenza alla citazione: 9/10 
-Giudizio personale: 9/10 


Totale: 65/70 

Solo due errori dal punto di vista grammaticale, uno proprio all’inizio ed uno nella frase finale. Il primo è un ‘si diresse’ lasciato in sospeso, mentre avresti dovuto aggiungere un ‘verso’ qualcosa, oppure un ‘lì’. L’altro invece è l’utilizzo nella stessa frase di ‘ma’ ed ‘eppure’, che ho trovato assolutamente ridondante. Per il resto, la grammatica è abbastanza precisa. 
Un eccesso di virgole ti ha penalizzata nello stile, che invece sarebbe stato abbastanza scorrevole. Sono davvero troppe in certi punti, e rendono parzialmente frammentaria la lettura. Buono è invece il lessico, colloquiale ma ben adatto alla storia in sé. 
Nulla da eccepire sull’originalità, dato che sei riuscita a parlare di Regulus in una situazione del tutto innovativa, e in rapporto con ‘l’ultima delle cugine’, dato che sinceramente non avevo mai letto nulla che riguardasse il rapporto fra Regulus ed Andromeda. Uno scorcio davvero interessante, insomma. 
Non mi è parsa del tutto IC Andromeda, in quanto l’ho trovata forse troppo dura nei confronti del cugino, così come troppo remissivo mi è parso lui. Mi rendo conto che la situazione è del tutto atipica, ma forse sarebbe stato preferibile smussare quei lati del rispettivo carattere che hai deciso di descrivere. 

L’inserimento della frase mi pare forzato. Tonks è ancora una bambina, seppure particolarmente sveglia, e metterle in bocca quelle parole mi è sembrato eccessivo. Regulus la provoca, e questo è vero, e ci si può aspettare anche una risposta per le rime, ma fa un po’ storcere il naso sentire una bambina che parla della morte con così tanta nonchalance. 
Ciononostante, la storia mi è piaciuta. E mi è piaciuta proprio perché hai saputo mostrare Regulus sotto un aspetto differente dal solito, rapportandolo con persone con le quali nelle storie non si trova mai ad interagire, creando un’atmosfera quasi di resa nei confronti del giudizio della cugina su di lui. Particolarmente toccante la parte finale, e la confusione di Sirius nel vedere quell’anello, in quanto sa che gli dovrebbe ricordare. In sintesi, è una bella storia, brava. 










   
 
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