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Autore: Shinalia    03/11/2010    4 recensioni
L'abitudine.
[estratto capitolo] Delle volte mi piacerebbe comprendere il perché molte cose accadono. Per alcuni ogni avvenimento ha un suo fine, una sua motivazione intrinseca, che forse non ci appare nella sua reale consistenza, almeno non subito, ma che comunque nonostante tutto esiste.
Per me il destino è solo un gran bastardo, si prende gioco di noi, sue marionette, ponendoci dinanzi agli eventi che non siamo in grado di affrontare e che porteranno con loro solo scompiglio.
Il mio incontro con Gabriele mi fece spesso pensare a tutto ciò. Mi chiesi se fosse incappato sulla mia strada come una qualche punizione, una tortura per una mia malefatta, una prova… qualcosa, un segno.
Talvolta penso fu solo sfortuna, o fortuna. Non saprei dirlo con precisione, forse perché nonostante tutto portò con sé quella ventata d’aria fresca di cui necessitavo, probabilmente se non fosse stato lui ci sarebbe stato un altro, più avanti, e le cose avrebbero preso comunque quella piega.
Forse…
Non tutti i mali vengono per nuocere.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Holaa! Eccomi con il primo capitolo di questa storia! ^^  Da premettere che la descrizione della casa riprende quella di una mia compagna di corso all'università ahahahah la prima volta che la vidii rimasi impalata all'ingresso, temendo di vedermi cadere il tetto in testa ahahahah Roba da panico. Questa di seguito è la cover della storia... infatti nelle due foto vengono ritratti i due attori che ho scelto per interpretare Michele e l'altro... che arriverà nel prossimo capitolo. hihiihi Non aggiungo altro. Vi ringrazio per i vostri commenti, sperando vivamente che questa storia possa piacervi. é nata dal nulla, ma in essa ci sono molte cose che mi rispecchiano... chissà. Un bacio! ♥

ps: Link mia pagina su FB, con spoiler e foto dei personaggi:

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Capitolo 1

 

La mia storia con Michele era nata tre anni prima. Ero al mio primo anno di università. Città nuova, casa nuova, gente nuova e senso di abbandono e smarrimento totale. Mi ero trasferita in una palazzina adibita a casa studenti, in un quartiere di Napoli, di cui all’epoca conoscevo poco. Meglio, considerando che non avrei mai deciso di risiedervi se mi fossi adeguatamente informata.

Quando entrai in quella casa il mio primo impulso fu quello di prendere bagagli e scatoloni e fuggire il più lontano possibile, correndo a perdifiato. Naturalmente fui costretta a sopprimere quel folle proposito, salutando con un sorriso stentato la ragazza in pigiama che camminava per il corridoio con uno spazzolino penzoloni da bocca.

Luana.

Ancora mezza addormentata si limitò a squadrarmi sorpresa, allontanandosi nuovamente verso il bagno, dopo aver bofonchiato un frettoloso “Ciao.”

Non un cenno. Non una parola di benvenuto.

Rimasi lì impalata cercando di attribuire a quel comportamento un significato recondito. Solo in seguito avrei scoperto che Luana e le convenzioni sociali erano come due rette parallele, destinate a non incrociarsi mai. Se fosse stata allevata da un branco di lupi non ne sarei stata sorpresa, ma al contrario proveniva da un’affabile famiglia di ceto medio. Suo padre lavorava in un’azienda agricola, sua madre gestiva un negozietto di antiquariato in provincia di Caserta, dove vivevano. Li conobbi il Natale successivo, in onore delle feste, quando fecero visita alla loro figlia. Mi piacque osservare la dolcezza con la quale si rapportavano a lei, le premure che le rivolgevano, temendo non mangiasse abbastanza proteine, che non si coprisse adeguatamente nonostante il rigido inverno.

Lì percepii il calore di una famiglia.

La mia infanzia trascorsa in compagnia di una o di un’altra badante, mi rendevano estranea a quel genere di sensazioni e di coesione. Certo, volevo un gran bene a Lucilla, la vecchia signora che si era occupata di me negli ultimi dieci anni, ma… io non ero sua figlia e neanche una sua parente.

Non ponevo in dubbio il suo affetto per me, ma credo che per quanto si possa voler bene a qualcuno, l’amore e la dedizione di una famiglia non possano avere eguali. Il senso di protezione che possono donarti, quel calore indiscusso dovrebbe essere qualcosa di stabile e insostituibile, quel qualcosa su cui si sa di poter sempre contare. Nonostante i problemi, nonostante gli errori.

La mattina del mio arrivo a Napoli rimasi lì, impalata nel corridoio di entrata, tremolante e a disagio, per quel contesto tanto nuovo e altrettanto bizzarro, implorando mentalmente l’arrivo di una figura amica che potesse trarmi d’impaccio.

Purtroppo, o almeno così ritenni all’epoca, l’unica a giungere in mio soccorso fu Luana.

« Che ci fai ancora qui? – bofonchiò perplessa, addentando una ciambellina. Mi osservava con un cipiglio sorpreso dipinto in volto, mentre masticava frettolosa. – Non credo ci sia molto da contemplare in questo ingresso, ma se ci tieni tanto almeno posa le valige in stanza. »

« Non so dove andare.» mormorai timidamente, imbarazzata da quella ragazza che mi parve tanto strana e dalla situazione in sé. Ero cresciuta in quella bolla di vetro che i miei genitori avevano costruito per me, protetta da tutto e da tutti. Scuole private, una tata che sopperiva alle loro mancanze e il mio gatto.

Troppo introversa per instaurare un vero rapporto con qualcuno, avevo ben poche amiche, con cui ero praticamente cresciuta. Essendo rapporti che si protraevano sin dall’infanzia erano per me alla stregua di sorelle. Le adoravo, ma l’aver sempre fatto troppo affidamento su di loro mi aveva sempre isolata dal resto del mondo.

Non ero mai stata una fan dei luoghi affollati. Prediligevo il silenzio e la pace della mia stanza, magari in compagnia di un buon libro.

Detestavo internet e qualsiasi scempiaggine elettronica, considerando insulsi i social network di cui tanto sentivo parlare e soprattutto pericolose le amicizie che si potevano stringere in quel modo. Non le trovavo reali.

Erano per me qualcosa di artefatto. Se non osservi il viso di una persona, le espressioni che ti rivolge, il suono della sua voce quando ti parla, come puoi valutare la sincerità del suo affetto?

Lo consideravo inconcepibile. Sono le piccole cose a far sorgere un’amicizia, la condivisione di esperienze, di una realtà simile, di sensazioni positive o negative che siano. L’interazione diretta… nulla nasce dal nulla. L’amicizia, proprio come l’amore, è il frutto di un percorso, con i suoi ostacoli che talvolta appaiono insormontabili, ma quando l’affetto c’è anche il muro più alto più rivelarsi alla stregua di uno steccato.

Con Luana tutto partì da qualche frase scostante, mormorata a mezza bocca… eppure con il tempo avrei imparato ad amare anche questo. Anche le sue reazioni bizzarre e inspiegabili, per il resto del mondo, anche gli attimi in cui pareva isolarsi, estraniando tutti dalla sua realtà. Perché, in fin dei conti, il bene che le donavo era contraccambiato da un’amicizia pura e sincera.

Certo all’epoca del nostro primo incontro non avrei mai scommesso a nostro favore. Tutt’altro.

« Potresti indicarmi la mia stanza? Non sono mai stata qui. » le domandai, quel mattino, dondolandomi nervosamente sulle gambe.

Parve riscuotersi, annuendo impercettibilmente. «Non c’è molto da dire. Lì c’è la cucina, lì il bagno e quelle sono le tre stanze. La tua è quella in fondo, con il poster di Hello Kitty, reduce dalla precedente inquilina, sia chiaro.»

Annuii disorientata, mordendo il labbro inferiore. Continuai ad ascoltare il suo farfugliare svogliato, osservando le sue braccia agitarsi scompostamente, cercando di assimilare tutte le informazioni, senza proferire parola.

« Non far caso alle condizioni della casa, avrebbe bisogno di una ristrutturata totale, ma il padrone non intende sentirne parlare, almeno fino a quando non ci tireranno fuori dalle macerie.» borbottò stizzita lasciandomi lì, nel bel mezzo del corridoio.

Le sue parole non mi sorpresero. L’abitazione era realmente in condizioni precarie. Le pareti tappezzate da carta da parati, probabilmente più vecchia di mia nonna, erano percorse da crepe e completamente scolorite. Qua e là erano affissi quadretti di nature morte intervallati da poster di quelli che presupposi essere gruppi rock. Ma il pavimento era il peggio del peggio. Le mattonelle erano rialzate in più di un punto e più di una volta incespicai con le valige, quella mattina, per raggiungere la mia stanza.

La prospettiva che Luana mi dipinse all’epoca non fu allettante ma effettivamente non potei in alcun modo biasimare i suoi timori. Per le prime tre notti osservai le crepe sulle mura della mia stanza con il reverente terrore di vederle crollare sulla mia testa.

«Dove sono finita?» sussurrai sospirando con aria agonizzante.

Se le prime impressioni sono quelle che contano posso affermare con certezze che nessuna persona sana di mente avrebbe trascorso in quel luogo più di dieci minuti.

Purtroppo per me non avevo alternative. Telefonare ai miei per spiegargli la situazione avrebbe involontariamente posto fine a questo mio tentativo di distacco. Erano stati necessari tre mesi di preghiere al vento e di salamelecchi inutili per indurli a darmi abbastanza fiducia per farmi vivere da sola, così lontana da casa.

Perché, se è vero che la loro presenza fisica era un’optional, la loro apprensione per la sorte della loro unica bambina era spropositata.

Facendo leva sul mio spirito di avventura, in realtà inesistente, trascinai i bagagli verso la stanza che mi era stata assegnata mentre, ad ogni passo, lanciavo immani maledizioni ai miei genitori che, suggestionati dall’annuncio, avevano considerato uno spreco di tempo visitare la casa.

Viva la coerenza.

Ma le sorprese quella mattina non erano certo terminate.

Quando passai dinanzi alla cucina vidi un ragazzo con il busto riverso sul tavolo, addormentato su di un cumulo di libri spessi come mattoni. Il viso era completamente coperto da una massa informe di capelli riccioluti, color castano scuro.

Michele.

Lo osservai con perplessità domandandomi il perché della presenza di un uomo in un appartamento per studentesse. Poteva essere il ragazzo di una delle mie coinquiline, ma allora perché dormiva sul tavolo alle sei del mattino, dando l’impressione di aver trascorso la notte in quel modo?

I vestiti erano completamente stropicciati, il respiro profondo e regolare e le braccia poggiate sotto il capo.

«Frequenta biologia con me. – mormorò Luana avvicinandosi e porgendomi una tazza fumante di caffè. La prima gentilezza ricevuta da lei quella mattina. – è un bravo ragazzo.»

 « Non vive qui? »

Scosse il capo.  « Terzo piano, scala A.»

Volsi nuovamente lo sguardo verso di lui, portando la tazza calda. – troppo calda – alle labbra. «Non dovresti svegliarlo? » bofonchiai arricciando il naso per il dolore, mentre la mia lingua implorava pietà. Complimenti Cristina, prima figura da stupida, adesso ti scotti anche con il caffè. Mi ammonii esausta, fortunatamente per me la ragazza non parve far caso alla mia sbadataggine.

« Abbiamo lezione questo pomeriggio.»

«Ma non starebbe meglio su un divano? Non oso immaginare i mal di schiena che avrà al suo risveglio.» obiettai con una certa preoccupazione. In realtà quella scena mi allarmò anche per un altro motivo. Ero terrorizzata dall’idea di iniziare l’università, una parte di me non si sentiva in grado di affrontare un simile percorso e, osservare quel ragazzo, sfiancato dallo studio, non mi lasciava presupporre nulla di buono.

Avrei retto una simile mole di lavoro? Orari sballati e l’opprimente preoccupazione di poter deludere i miei?

Uhm…

«La prossima volta ci penserà due volte a costringermi a passare la notte sui libri. Cretino! » esclamò seccata, allontanandosi verso la sua stanza.

Aveva la pessima abitudine di interrompere a suo piacimento una conversazione, dileguandosi. Con il tempo mi ci sarei abituata, ma in quell’istante trovai la cosa assolutamente bizzarra, oltre che inquietante.

Scuotendo il capo decisi finalmente di raggiungere la mia camera, ignorando lo strano ragazzo che dormiva nella nostra cucina.

Quando fui faccia a faccia con l’enorme poster di hello kitty fui seriamente timorosa di aprire quella porta. Mi domandai se per caso dall’altro lato non avrei trovato il cappellaio matto intento a prendere il the con il bianconiglio. Vista la situazione non mi sarei sorpresa di nulla.

Con mia gioia, più o meno, scoprii che quella in cui avrei vissuto era una camera normale. Lo stato  di usura era pari al resto della casa, le pareti però erano state malamente ridipinte di un rosa antracite decisamente deprimente, che però non aveva ricoperto le innumerevoli crepe.

Una mano di stucco, no?

O forse sarebbe più opportuna una tanica di benzina ed una scatola di fiammiferi.

« Che disastro.» mormorai avvilita, abbandonando la valigia sull’uscio. Avrei dovuto apportare non poche modifiche. Il mobilio era quasi inesistente, solo una cassettiera dall’aspetto logoro pronta a sbriciolarsi da un istante ad un altro. Il letto sembrava in condizioni decenti e con una riverniciata avrebbe acquistato uno stato quantomeno dignitoso.

Per il resto… bhe, mancava praticamente tutto.

Abituata com’ero alla mia stanza, con tutti i suoi confort, quella era una vera e propria topaia, che sperai vivamente di non dover dividere con una famiglia di ratti, anche perché alla vista di una coda probabilmente mi sarei lanciata dal balcone, senza neanche pensarci.

Rabbrividii involontariamente, percependo i tremiti attraversarmi la schiena, al pensiero di quei roditori disgustosamente pelosi e dei loro occhietti piccoli e astuti.

Una delle mie peggiori fobie.

«Se vuoi posso aiutarti a ridipingere. » mormorò una voce calda e morbida, dietro di me.

Sobbalzai vistosamente, portandomi le mani al petto, mentre mi voltavo.

Fu allora che lo vidi per la prima volta.

Aveva un bel viso, dai lineamenti dolci, le labbra piene, le sopracciglia folte e due occhi piccoli e scuri. Un accenno di barba gli colorava il mento e le guance un po’ scavate, sul quale era inciso il segno del libro su cui si era addormentato. Il fisico smilzo era avvolto in vestiti larghi e decisamente fuori moda. Era palesemente trascurato e nel complesso aveva un aspetto quasi buffo.

Non era quello che avrei definito un bel ragazzo, ma nel complesso aveva qualcosa di interessante. Carino, forse.

«Mi dispiace, non volevo spaventarti! – esclamò contrito. - Io sono Michele. »

Lo scrutai attentamente, soffermandomi sugli abiti sgualciti e sui ricci ribelli. « Il ragazzo che dormiva in cucina.» asserii, riconoscendolo.

Arrossì vistosamente, grattandosi il capo imbarazzato, non so se per la mia analisi un po’ troppo sfacciata o per le mie parole. S0lo dopo un po’ notai di averlo fissato un po’ troppo intensamente, distogliendo lo sguardo.

Non avevo ancora disfatto le valige e avevo già collezionato un bel po’ di figuracce. Un record anche per me…

« Già, mi dispiace, non devo aver fatto una buona impressione. Luana non mi ha detto che oggi sarebbe arrivata la nuova coinquilina oppure avrei avuto il buon cuore di non farmi trovare in questo stato.»

« Luana?»

Increspò la fronte. «La ragazza in pigiama. – spiegò indicando un cenno la porta della camera accanto alla mia. – Non dovrei stupirmi non si sia neanche presentata. »

Soffocò una risata, scuotendo il capo bonariamente. All’epoca mi persuasi fosse il suo ragazzo, visto il suo tono affettuoso e dolce. Naturalmente sarebbe stato impossibile, ma questo lo scoprii solo in seguito.

«Ah, giusto, siete compagni di corso. »

Annuì incuriosito, ma non mi pose domande, limitandosi a sorridere impacciato, prima di congedarsi. Lo rividi spesso nei giorni a seguire. Frequentava la nostra casa con assiduità e fu proprio grazie a lui che riuscii a comprendere come relazionarmi con Luana. I suoi comportamenti bizzarri iniziarono quasi ad acquisire un senso.

Quasi.

Eppure, quel suo essere anticonvenzionale, in un certo qual modo, facilitava molto le cose. Non pretendeva nulla, non si abbandonava ad inutili recriminazioni.

Rapportarmi con lei era semplice perché Luana lo era.

Una semplicità genuina, non falsata da uno sforzo o da una qualunque imposizione. Con lei non c’erano significati reconditi, i suoi gesti – nel bene e nel male – erano quelli, lineari e coincisi. Sapeva essere brusca, talvolta, ma mai malevola.

Non temeva ripercussioni ed esprimeva i suoi pensieri totale serenità, anche se la sua sentenza era negativa. Potevo essere certa che se mi esternava un suo giudizio, questo coincideva esattamente con le sue riflessioni.

Per una persona impacciata e timida come me, soprattutto all’epoca, fu stranamente d’aiuto. Avevo sempre temuto il giudizio altrui, timorosa delle impressioni che poteva risvegliare la mia timidezza, il mio modo impacciato di espormi quando ero a disagio, la mia riservatezza.

Fu quasi tranquillizzante scoprire che con lei tutto questo non era necessario.

Per quanto riguardava Michele, invece, inizialmente trovai un po’ strana tutta quella gentilezza.

Solo tempo dopo scoprii che Maria, l’altra coinquilina, lo inviò da me con il proposito di ingraziarsi la mia simpatia. Trascorrendo molte ore nella nostra casa temevano che io fossi una di quelle rompipalle che avrebbe avuto da obiettare sulle sue continue visite. Ovviamente non era il mio caso, ma loro non potevano saperlo.

La settimana seguente, quando mi presentai a casa con pennelli e pittura, lui si ripropose nuovamente di aiutarmi. Con un sorriso stampato in volto trascorremmo una domenica pomeriggio tra barattoli di vernice bianco panna, teli per ricoprire il mobilio e tanto tanto stucco.

Ciò a cui inavvertitamente condusse quella prima gentilezza andò ben oltre le loro intenzioni. La compagnia di Michele si rivelò piacevole. Chiacchierammo e, nonostante la mia iniziale titubanza, parlai davvero molto. Dei miei interessi, della mia famiglia, delle mie amiche.

Lui non si sbottonò particolarmente, non snocciolò dettagli della sua vita, al contrario di me, ma non parve mai annoiato dalle mie chiacchiere. Pose numerose domande, si interessò di conoscere  le mie opinioni in merito al trasferimento, ai nuovi compagni di corso, ad alcuni libri che aveva letto di recente. Non tentò mai di creare imbarazzi, e quando un argomento risvegliava in me un certi imbarazzo, si affrettava a distogliere la mia attenzione con qualche frase semplice o un’altra domanda.

In fin dei conti non ci furono battute di spirito o grasse risate, eppure fu piacevole.

Custodirò sempre nella mia mente il ricordo di quel giorno e con esso la tenerezza che risvegliò in me, sin da allora.

Con il tempo scoprii molte cose di lui, alcune piacevoli altre meno, ma fu la sua dolcezza e quel suo sguardo un po’ da bambino, quasi innocente, a farmi innamorare di lui.

   
 
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