Holaa! Eccomi con il primo capitolo di questa storia! ^^ Da premettere che la descrizione della casa riprende quella di una mia compagna di corso all'università ahahahah la prima volta che la vidii rimasi impalata all'ingresso, temendo di vedermi cadere il tetto in testa ahahahah Roba da panico. Questa di seguito è la cover della storia... infatti nelle due foto vengono ritratti i due attori che ho scelto per interpretare Michele e l'altro... che arriverà nel prossimo capitolo. hihiihi Non aggiungo altro. Vi ringrazio per i vostri commenti, sperando vivamente che questa storia possa piacervi. é nata dal nulla, ma in essa ci sono molte cose che mi rispecchiano... chissà. Un bacio! ♥
ps: Link mia pagina su FB, con spoiler e foto dei personaggi:
Capitolo
1
La
mia storia con Michele era nata tre anni prima. Ero al
mio primo anno di università. Città nuova, casa
nuova, gente nuova e senso di
abbandono e smarrimento totale. Mi ero trasferita in una palazzina
adibita a
casa studenti, in un quartiere di Napoli, di cui all’epoca
conoscevo poco. Meglio,
considerando che non avrei mai
deciso di risiedervi se mi fossi adeguatamente informata.
Quando
entrai in quella casa il mio primo impulso fu quello
di prendere bagagli e scatoloni e fuggire il più lontano
possibile, correndo a
perdifiato. Naturalmente fui costretta a sopprimere quel folle
proposito,
salutando con un sorriso stentato la ragazza in pigiama che camminava
per il
corridoio con uno spazzolino penzoloni da bocca.
Luana.
Ancora
mezza addormentata si limitò a squadrarmi sorpresa,
allontanandosi
nuovamente verso il bagno, dopo aver bofonchiato un frettoloso “Ciao.”
Non
un cenno. Non una parola di benvenuto.
Rimasi
lì impalata cercando di attribuire a quel
comportamento un significato recondito. Solo in seguito avrei scoperto
che
Luana e le convenzioni sociali erano come due rette parallele,
destinate a non
incrociarsi mai. Se fosse stata allevata da un branco di lupi non ne
sarei
stata sorpresa, ma al contrario proveniva da un’affabile
famiglia di ceto
medio. Suo padre lavorava in un’azienda agricola, sua madre
gestiva un
negozietto di antiquariato in provincia di Caserta, dove vivevano. Li
conobbi
il Natale successivo, in onore delle feste, quando fecero visita alla
loro
figlia. Mi piacque osservare la dolcezza con la quale si rapportavano a
lei, le
premure che le rivolgevano, temendo non mangiasse abbastanza proteine,
che non
si coprisse adeguatamente nonostante il rigido inverno.
Lì
percepii il calore di una famiglia.
La
mia infanzia trascorsa in compagnia di una o di un’altra
badante, mi rendevano estranea a quel genere di sensazioni e di
coesione.
Certo, volevo un gran bene a Lucilla, la vecchia signora che si era
occupata di
me negli ultimi dieci anni, ma… io non ero sua figlia e
neanche una sua
parente.
Non
ponevo in dubbio il suo affetto per me, ma credo che per
quanto si possa voler bene a qualcuno, l’amore e la dedizione
di una famiglia
non possano avere eguali. Il senso di protezione che possono donarti,
quel
calore indiscusso dovrebbe essere qualcosa di stabile e insostituibile,
quel
qualcosa su cui si sa di poter sempre contare. Nonostante i problemi,
nonostante gli errori.
La
mattina del mio arrivo a Napoli rimasi lì, impalata nel
corridoio di entrata, tremolante e a disagio, per quel contesto tanto
nuovo e
altrettanto bizzarro, implorando mentalmente l’arrivo di una
figura amica che
potesse trarmi d’impaccio.
Purtroppo,
o almeno così ritenni all’epoca, l’unica
a
giungere in mio soccorso fu Luana.
«
Che ci fai ancora qui? – bofonchiò perplessa,
addentando
una ciambellina. Mi osservava con un cipiglio sorpreso dipinto in
volto, mentre
masticava frettolosa. – Non credo ci sia molto da contemplare
in questo
ingresso, ma se ci tieni tanto almeno posa le valige in stanza.
»
«
Non so dove andare.» mormorai timidamente, imbarazzata da
quella ragazza che mi parve tanto strana e dalla situazione in
sé. Ero
cresciuta in quella bolla di vetro che i miei genitori avevano
costruito per
me, protetta da tutto e da tutti. Scuole private, una tata
che sopperiva alle loro mancanze e il mio gatto.
Troppo
introversa per instaurare un vero rapporto con qualcuno,
avevo ben poche amiche, con cui ero praticamente cresciuta. Essendo
rapporti
che si protraevano sin dall’infanzia erano per me alla
stregua di sorelle. Le
adoravo, ma l’aver sempre fatto troppo affidamento su di loro
mi aveva sempre
isolata dal resto del mondo.
Non
ero mai stata una fan dei luoghi affollati. Prediligevo
il silenzio e la pace della mia stanza, magari in compagnia di un buon
libro.
Detestavo
internet e qualsiasi scempiaggine elettronica,
considerando insulsi i social network di cui tanto sentivo parlare e
soprattutto pericolose le amicizie che si potevano stringere in quel
modo. Non le
trovavo reali.
Erano
per me qualcosa di artefatto. Se non osservi
il viso di una persona, le espressioni che ti rivolge,
il suono della sua voce quando ti parla, come puoi valutare la
sincerità del
suo affetto?
Lo
consideravo inconcepibile. Sono le piccole cose a far
sorgere un’amicizia, la condivisione di esperienze, di una
realtà simile, di sensazioni
positive o negative che siano. L’interazione
diretta… nulla nasce dal nulla. L’amicizia,
proprio come l’amore, è il
frutto di un percorso, con i suoi ostacoli che talvolta appaiono
insormontabili, ma quando l’affetto c’è
anche il muro più alto più rivelarsi
alla stregua di uno steccato.
Con
Luana tutto partì da qualche frase scostante, mormorata
a mezza bocca… eppure con il tempo avrei imparato ad amare
anche questo. Anche
le sue reazioni bizzarre e inspiegabili, per il resto del mondo, anche
gli
attimi in cui pareva isolarsi, estraniando tutti dalla sua
realtà. Perché, in
fin dei conti, il bene che le donavo era contraccambiato da
un’amicizia pura e
sincera.
Certo
all’epoca del nostro primo incontro non avrei mai
scommesso a nostro favore. Tutt’altro.
«
Potresti indicarmi la mia stanza? Non sono mai stata qui.
» le domandai, quel mattino, dondolandomi nervosamente sulle
gambe.
Parve
riscuotersi, annuendo impercettibilmente. «Non
c’è
molto da dire. Lì c’è la cucina,
lì il bagno e quelle sono le tre stanze. La
tua è quella in fondo, con il poster di Hello Kitty, reduce
dalla precedente
inquilina, sia chiaro.»
Annuii
disorientata, mordendo il labbro inferiore. Continuai
ad ascoltare il suo farfugliare svogliato, osservando le sue braccia
agitarsi
scompostamente, cercando di assimilare tutte le informazioni, senza
proferire
parola.
«
Non far caso alle condizioni della casa, avrebbe bisogno
di una ristrutturata totale, ma il padrone non intende sentirne
parlare, almeno
fino a quando non ci tireranno fuori dalle macerie.»
borbottò stizzita
lasciandomi lì, nel bel mezzo del corridoio.
Le
sue parole non mi sorpresero. L’abitazione era realmente
in condizioni precarie. Le pareti tappezzate da carta da parati,
probabilmente
più vecchia di mia nonna, erano percorse da crepe e
completamente scolorite.
Qua e là erano affissi quadretti di nature morte
intervallati da poster di
quelli che presupposi essere gruppi rock. Ma il pavimento era il peggio
del
peggio. Le mattonelle erano rialzate in più di un punto e
più di una volta
incespicai con le valige, quella mattina, per raggiungere la mia stanza.
La
prospettiva che Luana mi dipinse all’epoca non fu
allettante ma effettivamente non potei in alcun modo biasimare i suoi
timori.
Per le prime tre notti osservai le crepe sulle mura della mia stanza
con il
reverente terrore di vederle crollare sulla mia testa.
«Dove
sono finita?» sussurrai sospirando con aria
agonizzante.
Se
le
prime impressioni sono quelle che contano
posso affermare con certezze che nessuna
persona sana di mente avrebbe
trascorso in quel luogo più di dieci minuti.
Purtroppo
per me non avevo alternative. Telefonare ai miei
per spiegargli la situazione avrebbe involontariamente posto fine a
questo mio
tentativo di distacco. Erano stati necessari tre mesi di preghiere al
vento e
di salamelecchi inutili per indurli a darmi abbastanza fiducia per
farmi vivere
da sola, così lontana da casa.
Perché,
se è vero che la loro presenza fisica era
un’optional, la loro apprensione per
la sorte della loro unica bambina era spropositata.
Facendo
leva sul mio spirito di avventura, in realtà
inesistente, trascinai i bagagli verso la stanza che mi era stata
assegnata
mentre, ad ogni passo, lanciavo immani maledizioni ai miei genitori
che,
suggestionati dall’annuncio, avevano considerato uno spreco
di tempo visitare
la casa.
Viva
la
coerenza.
Ma
le sorprese quella mattina non erano certo terminate.
Quando
passai dinanzi alla cucina vidi un ragazzo con il
busto riverso sul tavolo, addormentato su di un cumulo di libri spessi
come
mattoni. Il viso era completamente coperto da una massa informe di
capelli
riccioluti, color castano scuro.
Michele.
Lo
osservai con perplessità domandandomi il perché
della
presenza di un uomo in un appartamento per studentesse. Poteva essere
il
ragazzo di una delle mie coinquiline, ma allora perché
dormiva sul tavolo alle
sei del mattino, dando l’impressione di aver trascorso la
notte in quel modo?
I
vestiti erano completamente stropicciati, il respiro
profondo e regolare e le braccia poggiate sotto il capo.
«Frequenta
biologia con me. – mormorò Luana avvicinandosi e
porgendomi una tazza fumante di caffè. La prima gentilezza
ricevuta da lei quella
mattina. – è un bravo ragazzo.»
« Non vive qui?
»
Scosse
il capo. «
Terzo piano, scala A.»
Volsi
nuovamente lo sguardo verso di lui, portando la tazza
calda. – troppo calda – alle labbra. «Non
dovresti svegliarlo? » bofonchiai
arricciando il naso per il dolore, mentre la mia lingua implorava
pietà. Complimenti Cristina, prima
figura da
stupida, adesso ti scotti anche con il caffè. Mi
ammonii esausta,
fortunatamente per me la ragazza non parve far caso alla mia
sbadataggine.
«
Abbiamo lezione questo pomeriggio.»
«Ma
non starebbe meglio su un divano? Non oso immaginare i
mal di schiena che avrà al suo risveglio.»
obiettai con una certa
preoccupazione. In realtà quella scena mi allarmò
anche per un altro motivo.
Ero terrorizzata dall’idea di iniziare
l’università, una parte di me non si
sentiva in grado di affrontare un simile percorso e, osservare quel
ragazzo,
sfiancato dallo studio, non mi lasciava presupporre nulla di buono.
Avrei
retto una simile mole di lavoro? Orari sballati e
l’opprimente
preoccupazione di poter deludere i miei?
Uhm…
«La
prossima volta ci penserà due volte a costringermi a
passare la notte sui libri. Cretino! » esclamò
seccata, allontanandosi verso la
sua stanza.
Aveva
la pessima abitudine di interrompere a suo piacimento
una conversazione, dileguandosi. Con il tempo mi ci sarei abituata, ma
in
quell’istante trovai la cosa assolutamente bizzarra, oltre
che inquietante.
Scuotendo
il capo decisi finalmente di raggiungere la mia
camera, ignorando lo strano ragazzo che dormiva nella nostra cucina.
Quando
fui faccia a faccia con l’enorme poster di hello
kitty fui seriamente timorosa di aprire quella porta. Mi domandai se
per caso
dall’altro lato non avrei trovato il cappellaio matto intento
a prendere il the
con il bianconiglio. Vista la
situazione non mi sarei sorpresa di nulla.
Con
mia gioia, più o meno, scoprii che quella in cui avrei
vissuto era una camera normale. Lo stato
di usura era pari al resto della casa, le pareti
però erano state
malamente ridipinte di un rosa antracite decisamente deprimente, che
però non
aveva ricoperto le innumerevoli crepe.
Una
mano di stucco, no?
O
forse
sarebbe più opportuna una tanica di benzina ed una scatola
di fiammiferi.
«
Che disastro.» mormorai avvilita, abbandonando la valigia
sull’uscio. Avrei dovuto apportare non poche modifiche. Il
mobilio era quasi
inesistente, solo una cassettiera dall’aspetto logoro pronta
a sbriciolarsi da
un istante ad un altro. Il letto sembrava in condizioni decenti e con
una
riverniciata avrebbe acquistato uno stato quantomeno dignitoso.
Per
il resto… bhe, mancava praticamente tutto.
Abituata
com’ero alla mia stanza, con tutti i suoi confort, quella
era una vera e propria topaia, che sperai vivamente di non dover
dividere con
una famiglia di ratti, anche perché alla vista di una coda
probabilmente mi
sarei lanciata dal balcone, senza neanche pensarci.
Rabbrividii
involontariamente, percependo i tremiti
attraversarmi la schiena, al pensiero di quei roditori disgustosamente
pelosi e
dei loro occhietti piccoli e astuti.
Una
delle
mie peggiori fobie.
«Se
vuoi posso aiutarti a ridipingere. » mormorò una
voce
calda e morbida, dietro di me.
Sobbalzai
vistosamente, portandomi le mani al petto, mentre
mi voltavo.
Fu
allora che lo vidi per la prima volta.
Aveva
un bel viso, dai lineamenti dolci, le labbra piene, le
sopracciglia folte e due occhi piccoli e scuri. Un accenno di barba gli
colorava il mento e le guance un po’ scavate, sul quale era
inciso il segno del
libro su cui si era addormentato. Il fisico smilzo era avvolto in
vestiti larghi
e decisamente fuori moda. Era palesemente trascurato e nel complesso
aveva un
aspetto quasi buffo.
Non
era quello che avrei definito un bel ragazzo, ma nel
complesso aveva qualcosa di interessante. Carino,
forse.
«Mi
dispiace, non volevo spaventarti! – esclamò
contrito. -
Io sono Michele. »
Lo
scrutai attentamente, soffermandomi sugli abiti sgualciti
e sui ricci ribelli. « Il ragazzo che dormiva in
cucina.» asserii,
riconoscendolo.
Arrossì
vistosamente, grattandosi il capo imbarazzato, non
so se per la mia analisi un po’ troppo sfacciata o per le mie
parole. S0lo dopo
un po’ notai di averlo fissato un po’ troppo
intensamente, distogliendo lo
sguardo.
Non
avevo ancora disfatto le valige e avevo già collezionato
un bel po’ di figuracce. Un record
anche
per me…
«
Già, mi dispiace, non devo aver fatto una buona
impressione. Luana non mi ha detto che oggi sarebbe arrivata la nuova
coinquilina oppure avrei avuto il buon cuore di non farmi trovare in
questo
stato.»
«
Luana?»
Increspò
la fronte. «La ragazza in pigiama. –
spiegò
indicando un cenno la porta della camera accanto alla mia. –
Non dovrei
stupirmi non si sia neanche presentata. »
Soffocò
una risata, scuotendo il capo bonariamente.
All’epoca mi persuasi fosse il suo ragazzo, visto il suo tono
affettuoso e
dolce. Naturalmente sarebbe stato impossibile, ma questo lo scoprii
solo in
seguito.
«Ah,
giusto, siete compagni di corso. »
Annuì
incuriosito, ma non mi pose domande, limitandosi a
sorridere impacciato, prima di congedarsi. Lo rividi spesso nei giorni
a
seguire. Frequentava la nostra casa con assiduità e fu
proprio grazie a lui che
riuscii a comprendere come relazionarmi con Luana. I suoi comportamenti
bizzarri iniziarono quasi ad acquisire un senso.
Quasi.
Eppure,
quel suo essere anticonvenzionale, in un certo qual
modo, facilitava molto le cose. Non pretendeva nulla, non si
abbandonava ad
inutili recriminazioni.
Rapportarmi
con lei era semplice perché Luana lo era.
Una
semplicità genuina, non falsata da uno sforzo o da una
qualunque imposizione. Con lei non c’erano significati
reconditi, i suoi gesti
– nel bene e nel male – erano quelli, lineari e
coincisi. Sapeva essere brusca,
talvolta, ma mai malevola.
Non
temeva ripercussioni ed esprimeva i suoi pensieri totale
serenità, anche se la sua sentenza era negativa. Potevo
essere certa che se mi
esternava un suo giudizio, questo coincideva esattamente con le sue
riflessioni.
Per
una persona impacciata e timida come me, soprattutto
all’epoca, fu stranamente d’aiuto. Avevo sempre
temuto il giudizio altrui,
timorosa delle impressioni che poteva risvegliare la mia timidezza, il
mio modo
impacciato di espormi quando ero a disagio, la mia riservatezza.
Fu
quasi tranquillizzante scoprire che con lei tutto questo
non era necessario.
Per
quanto riguardava Michele, invece, inizialmente trovai
un po’ strana tutta quella gentilezza.
Solo
tempo dopo scoprii che Maria, l’altra coinquilina, lo
inviò da me con il proposito di ingraziarsi la mia simpatia.
Trascorrendo molte
ore nella nostra casa temevano che io fossi una di quelle rompipalle
che
avrebbe avuto da obiettare sulle sue continue visite. Ovviamente non
era il mio
caso, ma loro non potevano saperlo.
La
settimana seguente, quando mi presentai a casa con
pennelli e pittura, lui si ripropose nuovamente di aiutarmi. Con un
sorriso
stampato in volto trascorremmo una domenica pomeriggio tra barattoli di
vernice
bianco panna, teli per ricoprire il mobilio e tanto tanto
stucco.
Ciò
a cui inavvertitamente condusse quella prima gentilezza andò
ben oltre le loro intenzioni. La compagnia di Michele si
rivelò piacevole.
Chiacchierammo e, nonostante la mia iniziale titubanza, parlai davvero
molto. Dei
miei interessi, della mia famiglia, delle mie amiche.
Lui
non si sbottonò particolarmente, non snocciolò
dettagli
della sua vita, al contrario di me, ma non parve mai annoiato dalle mie
chiacchiere. Pose numerose domande, si interessò di
conoscere le mie
opinioni in merito al trasferimento, ai
nuovi compagni di corso, ad alcuni libri che aveva letto di recente.
Non tentò
mai di creare imbarazzi, e quando un argomento risvegliava in me un
certi
imbarazzo, si affrettava a distogliere la mia attenzione con qualche
frase
semplice o un’altra domanda.
In
fin dei conti non ci furono battute di spirito o grasse
risate, eppure fu piacevole.
Custodirò
sempre nella mia mente il ricordo di quel giorno e
con esso la tenerezza che risvegliò in me, sin da allora.
Con
il tempo scoprii molte cose di lui, alcune piacevoli
altre meno, ma fu la sua dolcezza e quel suo sguardo un po’
da bambino, quasi
innocente, a farmi innamorare di lui.