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Autore: Mushroom    08/11/2010    9 recensioni
Per tutti è normale fare gavetta: Soul Eater Evans, falce della morte assegnata alla regione nipponica, lo sa fin troppo bene.
Sta lì da qualche anno, fra vecchi ricordi e nuove amicizie.
Finchè, una cartolina della sua Shokunin non costringerà la Buki a una partenza repentina verso la sua vecchia casa.
"Bollette, bollette, pubblicità, pubblicità, bollette, reclamo pubblico, busta con scrittura di Maka, bollette…. Busta con scrittura di Maka?!
Lasciò cadere l’accozzaglia di posta sul tavolo, dedicandosi a quella in particolare.
Oh, avrebbe riconosciuto la grafia della sua Meister tra mille.
Sogghignò: erano mesi che non aveva sue notizie.
Gli avevano detto che era in missione, ma lui ci credeva poco. Sapeva che niente l’avrebbe mai tenuta fuori così a lungo. Era una tipa pragmatica, lei. Faceva tutto e subito, regolando minuziosamente ogni azione.
Aveva semplicemente smesso di rispondere alle sue mail, e lui se n’era quasi fatto una ragione.
Si trovava dall’altra parte dell’oceano, che ci poteva fare?
"
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Maka Albarn, Soul Eater Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I - Perfer et obdura; dolor hic tibi proderit olim
[Pazienta e sopporta; un giorno questo dolore ti sarà utile]

Picchiettò l’indice e il medio sul documento, esaminando con lo sguardo ciò che aveva di fronte. La mano sinistra andò incondizionatamente a darsi un piccolo colpo sulla fronte. Che cos’era esattamente, quello?
C’era d’aspettarselo, da uno come lui. Perché tra tutte le persone che conosceva, solo una – e una soltanto – poteva permettersi quella sfrontatezza. A parer suo era cool, a parer dell’interlocutore era snervante.
E no, non c’erano altri termini per descriverlo.
Snervante.
La buki davanti a lei si passò una mano tra i capelli argentei, guardando insistentemente l’orologio. Era da mezz’ora che faceva così. Mezz’ora.
Per tutto quel tempo, l’idiota non aveva fatto altro che insistere, stramazzare e rendersi ridicolo. Okay, proprio ridicolo no ammise fra sé e sé ma abbastanza comico da rasentare l’insistenza di Excalibur.
Si era presentato lì tutto di corsa, con quella sacca sotto braccio, sbattendole quel foglio in faccia, come se fosse l’ufficio reclami o chicchessia; pretendendo tutto e subito, come un dittatore capriccioso.
Ma lei non poteva farlo. Proprio no.
Non l’avrebbe accontentato. E questo non solo perché non poteva.
La ragazza alzò gli occhi grigi - ormai ridotti a due fessure - di quell’azzurrognolo che tendeva sul bianco, esaminando la figura da perfetto universitario di Soul Eater Evans, la venticinquenne Deathscythe americana che – Dio la mandi buona – stava tornando “urgentemente per motivi personali” – lesse sul permesso – a Death City.
<< Andiamo, Yumi >> l’implorò il ragazzo, congiungendo le mani e rivolgendole un sguardo da perfetto attore dispiaciuto << Aiutami, ti prego. Tra due ore mi parte l’aereo! >>.
Le sopracciglia della Shokunin migrarono involontariamente verso il nord più estremo, mentre cercava di capire cosa fosse esattamente quella scena.
Conosceva Soul Eater Evans da quasi quattro anni, e l’aveva visto solo un’altra volta comportarsi così.
Di quella volta aveva amari ricordi.
La giovane scosse la testa, sistemandosi una ciocca blu dietro all’orecchio. Posò il foglio sul banco, cercando le giuste parole con le quali mandarlo a farsi fottere. Cosa che – tra l’altro – forse avrebbe fatto davvero.
<< Mi spiace, caro >> ghignò la ragazza, incrociando le braccia sotto il seno << Dovevi presentarla una settimana fa, questa domanda >> Yumi non si sarebbe certo fatta sottomettere dal ragazzo, proprio no.
Era una tipa orgogliosa, testarda anche, e quando diceva no era no. L’avevano capito tutti: i suoi studenti e i suoi colleghi; Beh, tutti tranne lui, che aveva preso il suo ruolo di coordinatrice di istituto alla pari di una segretaria. Non era lì per i suoi comodi, echecavolo!

Non poteva portarle quel foglio alla Shibusen dicendo che il suo aereo stava per partire. Andiamo! Era contro ogni principio logico e razionale prendere decisioni così avventate.
Eppure non se ne rendeva conto, il signorino. Non si rendeva conto che una falce della morte non poteva andare oltre oceano senza tremilioni di permessi, di cui alcuni ufficiali e altri un po’ meno.
<< Ma la cartolina mi è arrivata oggi! >> sbottò, congiungendo le braccia a sua volta << Non mi interessa un fico secco della burocrazia e di tutta quest’altra merda qui, io devo partire >>
<< Se non ti fosse interessato, non saresti qui >> rispose, sbuffando appena. Si sedette davanti a lui, incrociando le gambe. L’artigiana aveva imparato a conoscerlo, nel tempo: quando era arrivato a Tokyo sapeva dire pochissime cose in giapponese, molte delle quali erano inutili; l’aveva conosciuto quando era stato costretto – per alte cause – ai lavori burocratici, per i quali la ragazza era molto ferrata. Quando Soul l’aveva sentita parlare inglese per poco con era saltato in aria.
Non sembrava, ma la barriera linguistica poteva essere davvero devastante.
L’arma sbuffò a sua volta, scompigliandosi nuovamente i capelli. Cosa si aspettava? Di andare là e “pufff” risolvere tutto? Beh, effettivamente sì.
Quella ragazza dall’aspetto bizzarro – non più del suo, in fin dei conti – era stata la sua prima amica, lì. L’aveva aiutato tantissimo, e non le sarebbe mai stato grato abbastanza, ma quella era una questione di forza maggiore.
L’amica iniziò a sventolarsi con il suo permesso << Poi… >> interloquì, senza nascondere neanche un briciolo di irritazione << … Ti sei presentato a casa mia in orario non lavorativo, il primo giorno di vacanze… ma dico… un po’ di tatto, cavolo! >>
Gli occhi rossi rotearono verso l’alto: ma quante storie
Poi ritornano a loro posto, esaminando la stretta canotta della ragazza e i pantaloncini corti, degnando di attenzione pure le sue infradito.
Ah, forse era l’unico a non aver ancora preso le abitudini vacanziere.
Anche se di quel abbigliamento non si poteva certo lamentare: era una bella ragazza. Seno prosperoso e curve al posto giusto.
Yumi era veramente bella, l’aveva pensato immediatamente vedendosela comparire davanti. Quelle gambe snelle e in bella vista, i capelli blu – tendenti al corvino – lisci, il sedere sodo, pieno ma non troppo: avrebbe potuto avere qualsiasi uomo.
Per Soul era così che sarebbe dovuta essere ogni donna degna delle sue attenzioni: per questo, forse, quella volta ci era finito a letto.
Ma non c’era stato niente di diverso: una botta e via. Si erano divertiti e erano ubriachi, né più né meno.
<< E non solo ti sei presentato a casa mia! >> continuò, alzandosi << Ma mi hai anche portato di peso qui alla Shibusen! >> gli lanciò uno sguardo accusatore, uno dei migliori del suo repertorio.
In fondo le dispiaceva per lui: sembrava così calmo e apatico. Così disperato.
Si chiese immediatamente se la buki si fosse accorta di quel suo stato così patetico: era irascibile, si muoveva da una parte all’altra e – diamine – stava distruggendosi i capelli.
La Shokunin prese un bel respiro << Facciamo così: tu mi dici il motivo di tanta agitazione e, in cambio, vedrò di accontentare quel tuo culo impaziente >>
<< Hey! >> Soul ghignò, rivolgendole un altro sguardo << Non insultare il mio culo. È un bel culo >> poi rise, e lei lo seguì.
<< Ah, è un culo cool >> gli fece il verso << Ma… >> sorrise, assumendo un aria minacciosa << Non tergiversare o ti strozzo immediatamente, anche se hai un bel sedere >>
<< Devo andare per motivi personali >>
<< Questo lo so: ma che motivi? >>
<< Perunmatrimonio >> sputò tutto d’un fiato, mentre una strana smorfia prendeva possesso del suo viso. Gli faceva quasi ribrezzo pronunciare quella frase ad alta voce. No, gli face schifo anche solo pesarla. Poteva sperare di averla vinta così presto? Assolutamente no.
<< W-H-A-T-? >> sillabò la contro parte.
<< Per un matrimonio, echecacchio! >> infine l’accontentò.
<< Oh, Black☆Star e Tsubaki hanno deciso di… >> ipotizzò, spostando lo sguardo su di lui. Sapeva benissimo che non si sarebbe mai agitato tanto per il matrimonio di quei due: ne aveva sentito parlare, dei suoi amici americani, ma non aveva mai reagito così riguardo alle sue questioni private. Forse perché Soul ne parlava poco e molto raramente: di lui conosceva solo quello che le permetteva di vedere.
Eppure – chissà perché – non aveva potuto far a meno di pensare a quell’arma e quell’artigiano tanto strambi: aveva conosciuto – se così si poteva dire - l’assassino in una video chat, qualche anno prima, quando aveva cenato a casa a casa sua.
Soul scosse la testa << Magari >> alzò la testa, prendendo un veloce respiro << Maka >> sussurrò << È lei che ha deciso di sposarsi, Maka >>.
Dire che quell’affermazione fosse stata totalmente priva di enfasi sarebbe stato come dire che il Kishin era una persona un po’ sopra le righe.
In fondo lo capiva. Lo capiva meglio di chiunque altro: il rapporto che si veniva a creare tra arma e artigiano era il più puro e nobile della terra, tant’è che – molto spesso – questo non si scioglieva mai davvero. La maggior parte delle coppie di Buki e Shokunin diventava inseparabile non solo nella vita professionale, ma anche in quella privata, finendo per diventare una cosa sola e, in certi casi, per passare la propria vita insieme.
Le lanciò un sorriso canzonatorio << E adesso ho l’esigenza di andare fino a lì per farle una bella lavata di capo: non ci si sposa così in fretta senza dire niente >> poi alzò le spalle << Ah, che soddisfazione: finalmente sarò io a rimproverarla >>.
Yumi non poté fare a meno di incantarsi per un secondo, vedendo quell’ombra nei suoi occhi: per quanto ci avesse provato a cancellare quella sensazione, era come averselo davanti di nuovo. Come essere perseguitata da un fantasma: Soul era davvero simile alla sua buki – quando muoveva un certo comportamento, oppure in certe espressioni, rivedeva un po’ il passato.
Era inevitabile: non poteva fare altrimenti.
<< Ti manca, né? >> la ragazza sorrise.
<< Non proprio >> sbottò, alzando ancora una volta gli occhi al cielo << Da quando sono qui ho una salute di ferro, non vengo malmenato e le mie parole vengono prese per quello che sono, senza essere filtrate da quella mente un poco ritardata della mia artigiana. Quella vita non mi manca per niente >> alzò le spalle << Però è dovere. L’arma protegge l’artigiano da ogni tipo di pericolo. >> concluse.
Dovere?
Sorrise amaramente.
Per lui era un dovere.
<< Attento, o morirai al posto della tua artigiana >>
<< Non mi importa di morire >>.
Questa volta fu lei a lanciare uno sguardo al cielo, mentre un qualcosa le offuscava apparentemente la testa. Ridicolo.
Quell’essere era ridicolo.
La verità era che non lo sopportava e non l’avrebbe mai sopportato, e si ritrovava a capire quella ragazza – Maka – che – a detta della falce – lo picchiava continuamente. Soprattutto quando diceva cose simili: le faceva rizzare i nervi.
Non aveva proprio imparato a prendere le ragazze, no. Dicendo cose simili faceva più danni che altro.
<< Certo: così creperai. Non è questo un dovere di una buona buki >>
<< La vita continua, Yumi >> disse << Smettila immediatamente: anche se la tua arma è morta, non significa niente >>
Questa alzò il viso, irritata. Se gli sguardi avessero potuto uccidere, a quest’ora sarebbe stata Maka a vedersi recapitare una cartolina a casa sua: nera, con le parole “funerale” e “Soul Eater Evans” scritte sopra.
Ci scherzavano, ci ridevano, ma pronunciare quella frase ad alta voce, in contesti diversi dalle battute, equivaleva a toccare un tasto troppo dolente.
La morte lo era sempre, in fondo.
Era l’unico caso in cui il dispendio di parole risultava inutile: non vi si trovano mai poiché non ve ne erano e mai c’è ne sarebbero state. Non è una cosa che si descrive, che si affronta come un taglio o un’imperfezione: la morte è relativa. La morte viene accettata da ognuno come meglio può.
La morte è definitiva.
E questo lo dicevano i missionari dello Shinigami. Paradossale.
Alla Shibusen insegnavano tante cose: autodifesa, animismo, psicologia, filosofia, matematica. Perché non insegnavano anche a prepararsi a queste insorgenze?
Solo pochi anni prima, le uova di Kishin erano così numerose da poter forgiare almeno altre dieci armi della morte; le streghe così potenti, da poter sterminare intere città e insediarsi nel fulcro del potere.
Le cose erano cambiate, ma bisognava sempre stare al riparo.
Soul abbassò lo sguardo per qualche secondo, poi ritornò nuovamente sull’amica. Era lì per altro, non per rivangare dei brutti ricordi << Mi spiace >>
<< Fa niente >>
<< Sai cosa mi manca, in realtà? Non tanto Maka, quanto il suono della sua anima >> alzò le spalle << Lei poteva vedere le anime, ma quando entravamo in sintonia, io potevo sentire la loro musica >>
<< Lo ricordo, sai? Una buona risonanza è come fare l’amore >>
<< Allora non lo ricordi abbastanza bene >> sogghignò. L’ombra di quel gentiluomo figlio di puttana che doveva essere << Una risonanza perfetta è più melodiosa di qualsiasi composizione e più appagante di qualsiasi rapporto fisico >>
Yumi si alzò << Ho capito: parti, idiota. Vado a vedere cosa posso fare per questo permesso >>.
Il ragazzo mimò un “Grazie” con le labbra, perché – in fondo – ringraziare a voce alta era davvero poco cool.
Lanciò uno sguardo colpevole all’orologio, dopo di ché si affrettò a chiamare un Taxi.
Perché – in fondo – non poteva certo arrivare in metro fino all’aeroporto.

[***]

Soul, ancora una volta, si ritrovò a chiedersi perché – per quale assurda ragione – i servizi di viaggio, lì in Giappone, dovessero essere così dannatamente efficienti ma allo stesso tempo così affollati.
Alla faccia della crisi economica! Pensò ironicamente, osservando lo stormo di nipponici che si accingeva a partire verso l’Italia. Qua e là riconobbe anche qualche scolaresca, unita dalle proprie divise, brulicante di studenti ansiosi e eccitati, pronti a quelle loro gite scolastiche così entusiasmanti – sì, perché un’uscita didattica estiva rappresentava una piccola grande avventura per ognuno di loro.
Scorse anche qualche studente della Shibusen: Shokunin e Buki in missione o in ritorno da essa.
Vecchi tempi.
Si massaggiò le tempie, con il borsone retto sulle spalle, tenuto a mò di borsa. Aveva corso dal Check-in fino al gate, per poi scoprire di aver sbagliato luogo e piano. Tre giri di ascensore, per ritrovarsi – ancora una volta – al punto di partenza.
Tanto peggio: aveva anche sbagliato orario.
Fortunatamente – nel caso non tutto il mal vien per nuocere – la sua partenza era esattamente un’ora dopo quel che pensasse.
Questo significava semplicemente che avrebbe conosciuto il “futuro sposo” un po’ in ritardo, e rivisto la futura “Signora secchiona senza tette che si stava per sposare” qualche ora dopo.
La sua testa – quindi – aveva ancora un poco di libertà, prima di essere nuovamente colpita da una copia dei promessi sposi o – peggio – di guerra e pace. Inorridì al solo pensiero.
Anzi, constatò tra sé al solo ricordo. Perché il suo cranio, nel corso di tanti anni, aveva visto arrivare fin troppi tomi voluminosi e dai titoli ambigui.
Chissà se si divertiva ancora a lanciare libri. Chissà se si divertiva a lanciarli in testa a quel tizio.
Estrasse il lettore musicale. La seconda volta in una giornata. La batteria mezzo scarica chiedeva pietà. Una venia che lui non volle concedere.
E divenne ancora una volta un tutt’uno con l’ambiente circostante. Una foglia scossa leggermente dal vento, invisibile, omologata all’area e alle altre foglie, accompagnata da qualcosa che doveva essere un’ulteriore sonata di piano. Schubert? Non aveva voglia di scoprirlo.
Lasciò che la terra girasse in tondo con lui sopra, cullandosi nel via vai continuo di individui troppo indaffarati, finché esso non divenne solo un brusio, e il brusio colore. Luci uniformi che si muovevano intorno a lui.
Schubert? Cambiò musica. Perché, di pezzi rilassanti, proprio non aveva voglia.

Qualcosa lo distrasse. Un suono di un altoparlante irruppe la musica, ricatapultandolo in quel che era il mondo reale. La voce di una donna chiamava in diverse lingue vari voli, ma, quel che spiccò, fu il suo. Pigramente si alzò, mentre l’ipod andava via via morendo tra le sue mani.
Promemoria: procurarsi un caricatore della Apple giunti in America.
Lo rimise nella borsa, ormai del tutto andato. Alzò gli occhi verso la fila che si apprestava a raggiungere l’uscita, mentre una scritta lampeggiava in un schermo “Shinigami Airlines vi augura un buon viaggio, Yosh!”; Soul scosse la testa, poi si apprestò a porgere il biglietto alla hostess. Questa gli sorrise, con una fila di denti perfettamente bianchi, i quali riuscivano a sembrare quasi artificiali. Le unghie precisamente smaltate, i capelli simmetrici e raccolti in un’elegante chignon – che invecchiava un poco la giovane – non lasciavano dubbi su chi avesse messo mano al personale di bordo.
Nel caso avesse ancora insicurezze in merito, il ragazzo osservò anche la divisa: nera e bianca, con il logo dello Shinigami a fermare una cravatta annodata perfettamente al collo.
<< Benvenuto: la nostra ditta le augura bu--- >> la donna si fermò. Da quanto diceva il cartellino si chiamava Shizuka e aveva all’incirca ventisette anni. Rimase un attimo ferma, colpita forse, ma la Buki era troppo sovrappensiero per aver la decenza di occuparsi degli altri.
Soul – che aveva sopportato per tanti anni le pazzie dell’amico simmetrico – provò un moto di pietà per la ragazza, sua succube anche dall’altra parte del mondo. Le rivolse un sorriso appena accennato e, incurante di qualsiasi reazione da parte di questa, proseguì per il suo cammino.
Avrebbe volentieri fatto a meno di tutto quello: delle divise monotematiche e della simmetria dell’aeroplano, ma fare la falce della morte era una grande fregatura; lo stipendio che gli davano per star dietro a un branco di pesti sfaccendate era così basso da causargli qualche problemino a fine mese. Non si poteva permettere certo un diretto per Death City non avvalendosi degli sconti che Death the Kid metteva a sua disposizione.
L’abitacolo dell’aeroplano era esattamente come l’arma ricordava: uguale a tanti altri.
Mise il bagaglio a mano nell’apposito contenitore e prese posto. Questa volta, si trovava a ridosso delle ali: ricordava quel viaggio fatto troppo tempo addietro quando si era ritrovato a dover viaggiare nelle ultime file, con il ronzio del motore nelle orecchie.
Sentì gli sportelli chiudersi.
Il comandante annunciò qualcosa che non volle comprendere e che – in ogni caso – sarebbe stata inutile nel caso l’aereo fosse precipitato.
Portò la testa all’indietro e chiuse gli occhi.
Meglio riposare quando poteva, per poi avere abbastanza energie dal reggere… beh, dal reggere il tutto.
Kid. Black*star. Liz. Patty. Maka.
Tsubaki
era esonerata da tutto quello: lei era la vittima. La vittima che sopportava da sempre tutti i loro casini, con un sorriso accondiscendente.
Ci fu un minuto in cui Soul pensò realmente a quello che stava facendo: stava tornando a casa per il matrimonio di Maka.
Di Maka!
Quello – in quel preciso momento – diventò un problema.
L’aereo si inclinò.
Soul portò la testa all’indietro e chiuse gli occhi.
Ci avrebbe ragionato giunto a destinazione.

[***]

Quando la falce della morte sbarcò in Nevada, fu colpito – per prima cosa – da una ventata di calore. Ecco, quel tipo di atmosfera secca era esattamente quel che intendeva per estate.
Altro che quella specie di stagione mezzo umida e soleggiata che facevano passare per tale nella regione nipponica.
Poi ci fu la stanchezza: perché Soul odiava volare, con tutto il cuore, sicché – anche dormendo per quasi tutta la durata dell’attraversata – si ritrovava con le palpebre pesanti e un’emicrania memorabile.
Percorrere l’oceano dava sempre una strana sensazione, pari solo a quella di trovarsi in una piccola bolla. Gli odori e i sapori erano diversi, così come l’ambiente e le usanze, eppure all’interno dell’aeroporto potevi tranquillamente trovarti a Hong Kong o a Roma, ma niente variava. Era un luogo sintetico, costruito da una facciata allegra ma snervante.
Timbrato il passaporto, si prese qualche minuto.
Assaporando un bel boccone d’aria, il ragazzo optò per sedersi nella panchina più vicina. Si massaggiò i lobi, con gli occhi chiusi, in uno stato di parziale disperazione.
La verità era che non ci poteva credere.
Sembrava tutto così surreale.
Era davvero tornato lì, in America, nel suo paese natale, dove era nato e cresciuto. Collegare la cartolina con il viaggio era così difficile, così lontano, da rasentare un dilemma amletico.
Forse era semplicemente troppo stanco.
Forse aveva solo bisogno di un letto.
Forse la mattina dopo gli sarebbe sembrato tutto diverso.
Mattina, pomeriggio, sera.
E chi se lo ricordava quando era partito? In tanti anni, non aveva neanche mai imparato quante ore distassero le due città. Secondo Google, tra Death City e Tokyo vi erano diciassette ore di differenza, ma ci credeva davvero poco.
Riaprì gli occhi e si guardò attorno, scorgendo le cadenze famigliari del luogo.
Tutto era rimasto immutato, in tanti anni.
Probabilmente, se fosse andato a prendersi un caffè al bar del luogo, avrebbe sempre trovato il solito vecchietto sorridente; se avesse percorso una delle vie principali della città, avrebbe sempre visto le solite vetrine dei soliti negozi; se avesse alzato gli occhi, avrebbe visto sempre i soliti astri: quel sole e quella luna così inquietanti e folli.
Pensare che niente era immutato lo rassicurava.
Poi capiva che in realtà tutto era diverso. Lui per primo.
Si alzò.
Diamine!
Non aveva certo pensato di ricevere chissà che accoglienza, però vedere un volto famigliare agli arrivi non l’avrebbe certo urtato nei suoi sentimenti, echecacchio.
Mah, dopotutto nessuno sapeva che era lì.

[***]

Pagò il taxista con gli unici contanti che aveva a presso, facendosi memore solo in seguito del bancomat, quando oramai la macchina gialla stava slittando via per le stradine.
Alzò lo sguardo cremisi verso l’appartamento, situato in quel piccolo condominio: era caldo, piccolo, famigliare. Sorrise, perché cercare di paragonarlo con la sua dimora Giapponese apriva un abisso.
Pregando che Maka non avesse sostituito la serratura, tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca; ne scelse una, quella più logora, e la girò nel pomello senza troppa fatica.
Davanti a lui si aprì un labirinto di scale, percorribile solo a piedi.
Niente ascensore, lì.
Percorse in silenzio i cinque piani, in uno stato di semi realtà.
Si sentiva come se camminasse in un sogno. Un sogno fatto di nuvole, dove un piccolo passo avrebbe distrutto tutto, facendolo precipitare dritto fino all’inferno.
Aveva paura che il tutto potesse diventare un incubo.
La stanchezza non gli permise di indugiare oltre su quei pensieri.
Come se fosse sempre stato lì, con un movimento secco e automatico – un gesto che sapeva di routine – aprì con una seconda chiave il portoncino, ringraziando Maka in tutte le lingue del mondo.
Si spinse dentro, tentennando, chiudendo la porta dietro si sé con un certo rammarico. Sarebbe stato in grado di ironizzare su quello, effettivamente: i paradossi che poteva creare con poca fatica andavano scemando, sistemandosi in un angolino, in attesa di poter tornare a galla.
Accese la luce, accedendo a un ambiente deserto.
Il loro vecchio appartamento era cambiato ben poco, se non per alcuni segni distintivi, tipo quei quattro calzini spaiati che Soul lasciava sbadatamente per terra oppure i piatti sporchi, perennemente ancorati in quel lavello perfetto. Con sua sorpresa, notò l’acquisto di una lavastoviglie. Quando abitava ancora lì, l’artigiana si era opposta con tutte le sue forze a quell’acquisto: a detta sua inquinava e faceva diventare pigri; lo vedeva quasi come un esercizio, che comparava il “Mente sana in corpore sano”.
Chiedersi cosa l’avesse spinta a cambiare idea gli sembrava quasi uno spreco di tempo. Allarmarsi per un elettrodomestico era stupido. Poco cool.
Accingendosi a continuare quell’analisi – in quel che sembrava una casa disabitata – udì un suono. Come qualcosa che cadeva.
Uno scricchiolio.
La porta che dava al corridoio si aprì in uno scatto, e quel che ne uscì fu un libro lanciato a velocità esorbitanti con una mira fenomenale sulla sua fronte. Lo colpì proprio al centro, con la copertina rigida e placcata.
Questo lo fece sbilanciare. Ogni tentativo di tenersi in equilibrio fallì miseramente, concludendosi con un schianto contro la parete.
Un doloroso schianto contro la parete.
<< Ma che caz--- >> sibilò una voce. Due occhi verdi si spalancarono, mentre la frase moriva in gola alla ragazza.
Soul la fulminò con uno sguardo scarlatto, il migliore del suo repertorio << Che caldo benvenuto! >> sbottò ironico, lasciandosi andare a un piccolo ghigno.
Maka Albarn, Kama Shokunin, era davanti a lui. In tutto e per tutto. La Maka cresciuta, con quel suo fisico asciutto e i capelli biondi, slegati, che le ricadevano in modo disordinato intorno al capo.
Lo fissò per qualche secondo, poi aprì bocca, poi la richiuse.
Vestiva un qualcosa di simile a una vestaglia, una specie di camicia da notte attillata, che mostrava le gambe sode e toniche, coprendo quel che c’era da coprire. Si soffermò sul colore, un rosa antico delicato, che per associazione gli fece ripensare a quell’invito così poco degno della ragazza.
Soul non ricordava di aver mai visto quel capo, e un po’ se ne dispiaceva: forse vederla scarpinare per la casa con una cosa simile addosso – al contrario di quel pigiama in flanella giallo ocra che portava qualche anno addietro – avrebbe reso la convivenza più interessante.
Forse l’avrebbe solo irritato maggiormente.
Infine parlò.
<< E che cazzo ci fai tu qui?! >> strinse le mani intorno all’orlo del leggero pigiama, gli occhi spalancati e la voce sinceramente sorpresa.
<< Come “che cazzo ci faccio qui?!” >> la imitò in falsetto << Vuoi un disegnino, secchiona? >>
Questa arricciò le labbra, mentre una luce si accendeva alle sue spalle. Era uno spiraglio lasciato uscire dalla porta sulla sinistra, in fondo al corridoio.
La luce della camera da letto?
<< Maka, tutto bene?! >> chiamò una terza voce.
Era una voce maschile.
Era la camera da letto.
E lei era mezzo nuda.
Ooooh….
<< Ho interrotto qualcosa, per caso? >> alzò un sopracciglio, mentre uno strano moto di fastidio seguiva uno sguardo ironico << Per caso quella piatta e secchiona era occupata a fare sesso? >>
<< Baka! Non ho più quattordici anni! – alzò lo sguardo al cielo. Maka si ricordò cosa significava essere presa costantemente in giro dalla sua ex Arma, che si ostinava a vederla come una bambina - Secondo te? >> rispose, con lo sguardo fermo, le guancie imporporate e la vestaglia scompigliata.
Ohhhhh….
Per qualche strano motivo, l’idea non gli piaceva troppo. Proprio per niente.


 

…saepe tulit lassis succus amarus opem.
[Spesso il succo amaro tolse (distrusse) la forza (la possibilità) alle persone stanche]

 

______________________________________________________

Note: Okay, okay, okay. Questo ritardo fa davvero, davvero schifo. Dovevo postare dopo Lucca (anche se non ci sono andata, sigh) poi mi sono ammalata, e la voglia di postare e/o scrivere è andata tutta verso il mondo degli unicordi (giro di parole per non usare altri termini); dopodichè, quando ho iniziato a stare meglio, mi son detta: appena trovo il tempo di rispondere alle recensioni, pubblico. Peccato che abbia un bel po’ da recuperare a scuola.
Uff… mi spiace non poter rispondere, ma anche ora ho il libro di latino (guarda caso, visto che ho utilizzato una citazione in quella lingua xD) mi aspetta, avido di farmi schiava. Mi scuso anche per i vari errori nel testo: devo ancora sistemarlo a mente lucida =_=
Vengo, invece, a ringraziarvi per le numerose letture e – soprattutto – per le recensioni, che mi hanno rallegrato e allietato la giornata ^^ non so se qualcuno commenterà anche questo capitolo, ma ha i miei ringraziamenti in anticipo.
Allora, facciamo un po’ il punto della vicenda: sono passati circa undici anni dal punto attuale in cui si trova il manga (non prendo come riferimento l’anime, l’ho rinnegato), e abbiamo una situazione un po’ diversa; mi pare anche giusto: i personaggi cambiano, si evolvono – non so se io abbia reso l’idea, ma scrivendo cerco di proiettarli in avanti, anche se – alle volte – assumono atteggiamenti molto adolescenziali e un po’ infantili. Soul è anche rimasto distante da casa per tre/quattro anni: detto questo, ha fatto le sue amicizie, si è ambientato lì dove stava. Anche nel fronte opposto, in giappone, è successa la stessa cosa: questo significa che – sì – ci saranno parecchi nuovi personaggi, che siano di contorno o meno.
Ora, non so se voi possiate prenderli in simpatia, ma spero che non stonino troppo. Questo è anche uno dei motivi per cui i vari ruoli possono sembrare ooc, a tratti; e forse lo sono: non posso sapere come il sensei Ohkubo veda i suoi “ragazzi” tra undici anni ò.ò
ora mi eclisso: vi ho già annoiato (e inorridito) abbastanza.
A presto (se c’è qualcuno)


   
 
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