Love will tear us apart
Capitolo 35 – Don't you forget about me
Restavano
seduti l’uno di fronte all’altra, immersi in movimenti impercettibili che
lasciavano ad intendere il loro imbarazzo, il disagio di scoprire di spiarsi a
vicenda senza mai permettere ai loro occhi d’incontrarsi. Due bicchieri vuoti
abbandonati sulla tavola non avevano contenuto altro che acqua, a dispetto dei
bisogni di Izzy di sentire il bruciore in gola di whiskey forte. L’uomo cercava
di desistere dal mangiarsi le unghie meccanicamente, non osando però chiedere
di potersi accendere una sigaretta nell’ambiente in cui suo figlio era
cresciuto, sarebbe cresciuto. Le lancette dell’orologio appeso al muro
segnavano la mezzanotte passata, mentre fuori le luci della città fungevano da
unica fonte d’illuminazione per la stanza. – Compie quattro anni fra cinque
giorni – gracchiò Naz, dalla voce ormai consumata sia per le
grida contro Daniel per riuscire a metterlo a letto del tutto, sia per i
discorsi che avevano occupato quelle ultime ore. – Tu non lo sapevi. – non era
una domanda, era l’ultima di una serie di affermazioni mirate a ferire, a far
soffrire l’uomo che, seduto di fronte a lei, non accennava ad alzare lo sguardo
dalle venature del legno del tavolo. – Lo sapevo. – ribattè questo con voce
bassa, flebile, senza l’ombra di falsità in quella breve frase: certo che lo
sapeva. Era tornato, quattro anni prima, quando Daniel era nato: semplicemente,
non aveva avuto la forza di presentarsi all’ospedale.
-
In ogni caso, ti proibisco di fargli regali. – Naz non demordeva: sembrava aver
preso come missione il ridurlo ad un verme raccontandogli i particolari della
loro vita lontana che si era perso, che non sarebbero tornati. Forse era
proprio quella sete di vendetta che l’aveva spinta a richiamare l’uomo fermo
sul pianerottolo, prima che se ne andasse un’altra volta. Forse – Non ne ha
bisogno. Gli basto io. – il significato nascosto dietro quella
parole coincise, amare, non era poi così difficile da comprendere: non
era il bambino a non aver bisogno di regali, nonostante ne venisse ricoperto da
tutti i loro conoscenti per i quali ogni occasione era buona per viziarlo. Era
lei, Naz, che non avrebbe accettato altri segni della presenza di Izzy nella
loro vita, ormai indiscutibile visto il passo che aveva fatto l’uomo nel
comparire. – Non avevo alcun dubbio. – il sottile sarcasmo nella voce abbattuta
di Izzy la infastidì visibilmente, distorcendo la linea sottile delle sue
labbra in una smorfia indignata. Gli aveva raccontato tutto, ed adesso era pentita:
aveva cercato di rinfacciargli gli anni in cui era stato assente, descrivendo
con minuzia i dettagli della vita di Daniel che, ignaro di tutto, dormiva
beatamente qualche stanza più in là. Aveva pensato che attraverso quella
vendetta lei si sarebbe sentita appagata, ed Izzy probabilmente sarebbe stato
distrutto: invece non era cambiato nulla. Rimanevano due anime separate da un strato di rancore che si assottigliava man mano che
rimanevano lì, seduti immobili, intrappolati in quel gioco morboso di sguardi
insicuri che non erano in grado di concludere niente. – Devi capire che non
posso accettarlo. – mormorò la donna, passandosi le dita fra i capelli sottili:
qualcosa nella sua voce s’era fatto tremante.
-
Non posso… non posso e basta. Tu ritorni e pretendi di… di esserci
improvvisamente, ma non posso concederti di tornare a fare il padre dopo… dopo
tutto. – l’aria improvvisamente era fatta di piombo, i loro corpi pesanti
accasciati sulle sedie sembravano sprofondare per il peso di quelle frasi,
della voce rotta della donna. Per la prima volta, entrambi alzarono gli occhi
verso l’altro incatenandosi alla profondità che vi ritrovarono, al legame
perduto di cui riuscivano ad avere un nostalgico assaggio: Naz portò
istintivamente le unghie alla bocca, trattenendo a stento il desiderio di
riprendere a tagliuzzarle per combattere l’ansia. Nei loro sguardi c’era la
profonda malinconia che tutto ciò che avevano passato insieme aveva lasciato:
passati quattro anni a rimpiangere il riflesso l’uno dell’altro nello specchio,
in quel momento sentirono di nuovo come palpabili le loro presenze vicine. –
Non puoi o non vuoi? Qual è la differenza? – il tono di voce e l’espressione
sul viso di Izzy cambiarono talmente in fretta che la donna non ebbe il tempo
di rendersi conto del cambiamento. La stava attaccando come lei aveva
precedentemente fatto con lui, in un modo più sottile, appuntito: il rancore
per quel suo nuovo rifiuto, per la proibizione che Naz gli aveva imposto sulla
sua figura di padre sembrava averlo scosso dal torpore di cui era stato
vittima. – Non posso. Non ti chiedo di capire subito… anche se dovresti. – se
aveva avuto paura che la leonessa che in c’era stata fosse cambiata, quelle
frasi le smantellarono tutte: la fierezza, il suo non demordere nel portare
avanti le sue dure parole, tutto si ricollegava alla ragazzina impertinente che
aveva conosciuto. E della quale si era innamorato. – Come puoi pensare… - non
terminò la frase, limitandosi a ricambiare lo sguardo dell’uomo con rinnovata
ferocia. Perché l’aveva chiamato indietro?
-
Non sono tornato per difendere ciò che ho fatto. – chiarì Izzy con voce dura,
netta, stringendo in pugni le mani prima abbandonate sulla superficie lignea del tavolo inermi. – Ma non puoi negarmi un’altra
possibilità per dimostrarti… per dimostrarti che posso essere un buon padre.
Sono scappato, lo so, e non hai davvero la minima idea di come io mi sia sentito… so benissimo che anche tu hai patito
tanto, ma la mia non è stata una decisione presa a cuor leggero, OK? Cazzo! – uno
di quei pugni alla fine diede un poderoso colpo sulla tavola, che tremò non
solo sotto la sua violenza ma anche sotto la rabbia che pian piano stava
crescendo in lui. Non verso Naz, che sentiva gli occhi pizzicare pronti a
liberare poche lacrime salate. Verso sé stesso: aveva perso l’occasione di
vedere suo figlio, un meraviglioso bambino dal sorriso travolgente, crescere.
Chissà se lo avrebbe mai chiamato papà… - Scusami. – non appena i suoi occhi
scuri si spostarono sul profilo basso della donna, che alle sue esclamazioni
aveva chinato il capo, si calmò improvvisamente. Riusciva a scorgere i suoi
tentativi di trattenersi, di non mostrargli un attimo di debolezza che avrebbe
potuto giocare a suo sfavore. – Scusami. – ripeté, senza più sapere bene a cosa
si stesse riferendo: forse le stava chiedendo di perdonarlo per le sue
mancanze, per la sua paura, per il suo non saper comprendere quale fra i tanti
possibili motivi la stesse spingendo sull’orlo delle
lacrime. Era passato tanto tempo… e loro erano cambiati. Forse era possibile
affermare che fossero maturati, forse invece erano rimasti bloccati in un gabbia di ricordi dorati che avevano alimentato il veleno
nelle loro vene. I “forse” era troppi, erano pesanti, scalpitavano per gettarli
di nuovo in alto mare.
-
È che… è che davvero mi dispiace. Naz… mi dispiace per tutto. Daniel è…
qualcosa che non riesco neppure a descrivere… e tu sei così diversa, ma sei
sempre tu… mi mandi in confusione! – sarebbero state le parole adatte per una
canzone, se non fosse stato per l’inquietante particolare del contesto in cui
furono pronunciate: Izzy, senza essere in grado di stare seduto un minuto di
più, si alzò di scatto sotto lo sguardo ritornato impassibile della donna. Era
troppo brava a reprimere sé stessa. – Non voglio fare lo
stupido coglione che torna dopo anni passati a… a… non ha importanza, non
voglio presentarmi alla tua porta e dire “Ehi, ciao, ti ricordi di me? Sono il padre di tuo figlio, che ne dici di tornare insieme?” –
s’interruppe bruscamente dopo quella frase pronunciata in falsetto, quasi
comica per un esterno alle loro complicate vite, mentre gli occhi cercavano con
improvvisa smania quelli esterrefatti di Naz. Perché l’aveva detto. In
un istante era stato chiaro a tutti che ormai non si parlava più soltanto
dell’importante destino di Daniel, del futuro di cui anche l’uomo voleva fare
parte. “Sono il padre di tuo figlio, che ne dici di tornare insieme?”. Avrebbe
dovuto domandargli cosa diavolo avesse detto, magari con la voce attonita e
un’espressione accusatrice, eppure Naz rimase immobile su quella sedia, come
unica prova del blackout improvviso nel suo cervello la bocca socchiusa, in
procinto di dire qualcosa. Sarebbe rimasta zitta: aveva capito fin troppo bene.
-
Mamma – la vocina assonnata ma contemporaneamente spaventata di Daniel irruppe
tempestivamente nel gelo del silenzio dei due, mentre il loro
corpi rispondevano di scatto a quel richiamo innocente: il bimbo era in
piedi di fronte all’entrata del corridoio, avvolto nel pigiama bianco, la
puzzola di peluche stretta in mano. Si stropicciava gli occhi
confuso, rossi dal pianto che doveva averlo sorpreso nella notte, mentre
subito s’avvicinava alla madre pronta ad accoglierlo fra le sue braccia. –
Mamma, ho fatto un brutto sogno… - quella frase era così limpida nel mezzo
delle loro confessioni da farli star male, mentre il bambino prendeva
comodamente posto sulle gambe di Naz, che lo abbracciava cercando di caricare
su di sé ciò che poteva averlo angosciato. – C’era un mostro enorme che si
mangiava tia Chris, e poi si mangiava anche te, e tio Mason… - Izzy fissava
sbigottito l’intimità pura che emanava quel momento di contatto privato fra una
madre e suo figlio, mentre Naz con le palpebre abbassate sugli occhi cioccolato
accarezzava i capelli di Daniel cercando di calmarlo. Era strabiliante. Era
strabiliante il modo in cui la donna, non appena il bambino accennava al più
piccolo problema lo tormentasse, come un incubo che aveva interrotto le prime
vere parole che si scambiavano dopo anni, era sempre pronta a gettarsi sotto un
treno per quel bambino. Ne era attratto: quel legame che li univa, uno dei più
potenti che Izzy avesse mai visto, era qualcosa di cui
sentiva la mancanza nella sua vita di agi e di vizi. Ma il punto che bruciava
nel suo cuore, che gli mozzava il fiato, era che quel legame non lo avrebbe
voluto con nessun altro all’infuori di quella donna minuta apparentemente
fragile, la ragazza che aveva conosciuta un epoca
prima e che gli aveva spezzato il cuore, e da suo figlio. Suo figlio: non aveva
mai udito parole più melodiche di quelle.
Izzy
seguì la donna in modo automatico quando, dopo qualche minuto passato fra la
delicata stretta di sua madre, Daniel cadde addormentato per la seconda molta,
le braccia allacciate dietro al collo di Naz che sussurrava al suo orecchio
stralci di canzoni. Rimase fermo sulla soglia di una camera semplice e perfetta
che lei aveva pensato da sola, appoggiato allo stipite della porta
nell’osservare come amorevolmente la donna riponeva il bambino nel suo lettino
e gli rimboccava le coperte. – È… - ancora una volta Izzy si ritrovava a dover
setacciare il proprio vocabolario alla ricerca di un termine proprio del
bambino che angelico riposava, senza trovarne uno adatto. – È tutto quello che
potevo chiedere dalla vita – era notevole il cambiamento nei tratti di Naz non
appena s’iniziasse a parlare di Daniel, del suo bambino: l’orgoglio, l’amore si
univano alla fierezza che la contraddistingueva, e negli anni aveva addolcito
il cipiglio orgoglioso. – È tutta la mia vita – era una frase così reale, così
vera, da colpire direttamente al cuore. E, cosa più sensazionale,
improvvisamente era vera anche per l’uomo che sentì il fiato mozzarsi nei
polmoni: com’era stato cieco, vigliacco per tutti quegli anni. Fuggiva da
qualcosa di così tenero, piccolo e grande allo stesso tempo, l’unica fonte di
felicità certa in una vita. – Credo sia ora che tu vada, Izzy – troppo bello
per farlo durare a lungo, ci pensò Naz a sciogliere quello strano incantesimo
che li aveva avvolti nel contemplare Daniel. La donna si volse a guardarlo
improvvisamente turbata, un’espressione completamente diversa da quelle che le
aveva visto addosso fino a quel momento: era come se, rendendosi d’un tratto
conto dei sentimenti che Izzy stava provando, si fosse accorta che non sarebbe
mai potuto essere il quadro perfetto sul quale si era sorpresa varie volte a
fantasticare. L’uomo ricambiò con nascosta negli occhi la stessa intensità con il quale aveva fissato Daniel: eccola, di nuovo, cambiata
nella sua bellezza ma rimasta uguale per tutto quel tempo.
-
Naz, ascoltami – e fece una cosa che non aveva ancora osato fino a quel
momento, qualcosa che sentiva dentro da quando l’aveva vista, qualche giorno
prima, camminare per le strade di una città che credeva aver dimenticato. Le si
avvicinò, coprendo la distanza che li divideva con pochi lunghi passi, senza
badare alla possibilità di rifiuto da parte della donna che non si mosse. I
loro visi vicino erano uniti soltanto dal semplice contatto della mano di Izzy
posata sulla guancia di Naz, che tremava a quel tocco senza essere in grado di
sciogliere la catena che la legava agli occhi dell’uomo. – Naz, ascoltami.
Dammi… un’altra possibilità. Non hai davvero idea… di quanto tu
mi sia mancata. – parole vuote, per lei. Forse, se gliele avesse dette prima,
quando ancora era tutto rimediabile, sarebbe andata in maniera diversa: se le
avesse pronunciate lei al suo posto quando aveva sbagliato strada, quando si
era lasciata tentare dall’illusione di poter cambiare Axl, di poterlo amare,
tutto avrebbe potuto seguire il corso giusto. Aveva rimuginato tante volte su
come sarebbe potuto risolversi quel casino se non
avesse fatto questo e non avesse detto quell’altro: forse non sarebbero nemmeno
stati lì, ma dall’altra parte del mondo, a discutere di qualsiasi altra cosa.
Oppure, se anche non avesse scelto Axl, la loro storia sarebbe finita comunque
lasciando o un’amicizia sincera, o l’amaro in bocca ad entrambi. Era inutile
pensare però alle ipotesi di una vita che non sarebbero mai divenute realtà:
era inutile stare ad ascoltare quelle che lei considerava bugie dettate dal
momento.
-
Devi andare. – mormorò quelle semplici sillabe un attimo prima che Izzy
oltrepassasse la sottile linea di non ritorno, quella della distanza di
sicurezza dalle labbra sottili ed incrinate della donna. Sentire la pelle
dell’uomo sfiorare la propria come un petalo di fiore, avvertire il suo corpo
avvicinarsi a cercare la combinazione perfetta che li aveva sempre uniti era
troppo, dopo la separazione che aveva disabituato entrambi alla scossa
elettrica che i loro corpi emanavano. Potevano sentire a quel semplice tocco la
scintilla propagarsi lungo le loro schiena, le
vibrazioni che si passavano potenti nelle loro vene. E non era necessario fare
altro per parlarsi: se quello si poteva considerare un bacio, era di certo più
eloquente di migliaia di parole, dette e non. Le mani di Izzy era vellutate
sulla pelle del suo viso, bianco nel bagliore della luna che dalla finestra
rischiarava la stanza, quei secondi rubati ai ragazzini imprudenti che erano
stati. Le loro labbra non sentivano il bisogno di dar fogo alla passione che
trattenevano con le catene, si limitavano a rimanere immobile l’una appoggiata all’altra, beandosi del calore improvviso che
i loro corpi emanavano. Poi successe qualcosa d’imprevedibile: Izzy avvertì il
tocco dei polpastrelli delicati della donna sulla sua pelle, animati da
movimenti impercettibili come soffi di vento. Le dita gli scostarono i capelli
neri dal viso provato, contratto in una smorfia di sofferenza quasi irreale:
nell’aprire gli occhi che precedentemente aveva chiuso la trovò con le palpebre
abbassate sullo sguardo, incredibilmente vicini. I loro visi si allontanarono
di poco, mentre le mani di Naz ancora vagavano sul volto dell’uomo, stupito da
quel contatto così… potente. Fino a che le sue, di mani, non si strinsero
attorno al polso destro della donna, che sussultò spaventata.
-
L’hai tenuto. – non c’era espressività nella voce di Izzy, che stringeva fra le
dita il braccio di Naz illuminato non solo dal bagliore lunare ma anche dalla
luce nei suoi occhi. Avvolto attorno al polso c’era una semplice catena
argentata, fredda e splendente quanto la proprietaria, un lucchetto ed una
piccola chiave incastrate nelle spire metalliche che risaltavano sulla pelle
pallida. La sfida negli occhi di Naz era delle più dolci che
Izzy avesse mai assaporato: il regalo del suo ventesimo compleanno, quello che
lui le aveva donato. Un dettaglio a cui scandalosamente nessuno dei due aveva
badato, ma che la donna sempre indossava senza un
ragione concreta che il suo cervello riuscisse a formulare. – L’hai tenuto. –
ripeté, un sentimento nuovo ad animarlo, un’incredibile forza che aveva preso
possesso del suo animo. E che irrimediabilmente, metteva in difficoltà la
donna, rimasta senza parole: la sua prova, che aveva custodito gelosamente per
anni, che nulla era andato dimenticato, era in bella mostra davanti a l’uomo che gliel’aveva donata. Che sembrava aver perso il
dono normale della parola davanti a quella stupenda verità: Naz ritirò la mano di scattò come a coprire il suo segreto, ormai svelato. Potevano
sentire l’elettricità scorrere fra di loro ancora più
intensa degli attimi in cui s’erano toccati, più intima di qualsiasi altra
forma di comunicazione. – Vai. – lo spronò con un sussurro la donna, spostando
gli occhi caldi su Daniel che ancora dormiva: levitando a pochi metri dal suolo
senza staccare i piedi da esso, Izzy le ubbidì. Doveva assimilare ciò che aveva
visto. Il bracciale al polso di Naz continuava a brillare di luce
improvvisamente propria.
Guardando
la sua ombra scomparire oltre il corridoio in attesa di sentire la porta
sbattere, Naz si rese pian piano conto di come tutto stava precipitando nel
vuoto in maniera inaudita. Indietreggiò fino a toccare il letto sul quale
dormiva il bambino, prima di portare le stesse dite che prima avevano cercato
la pelle dell’uomo alla bocca sottile, avvertendo le labbra tremare sotto quel
contatto. Ogni cosa nella stanza improvvisamente vorticava attorno a lei,
nonostante fosse convinta con tutta sé stessa come il mondo fosse immobile in
quegli istanti. Il suo respiro divenne affannato nella comprensione di quello
che aveva appena provato, nella lettura dei suoi pensieri. Con le mani strinse
con forza la catena, sfilandosela fino a graffiare la pelle delicata, ora
arrossata sotto la violenza del metallo, prima di scagliare il braccialetto a
terra. Nonostante fosse freddo come il giaccio,
sembrava scottasse: in realtà era qualcos’altro, più oscuro ed enigmatico, che
dentro di lei scoppiava in fiamme rosse, vive. Si voltò verso Daniel, a
guardare l’espressione angelica del suo viso mentre il suo corpicino si muoveva
ritmicamente sotto sogni più tranquilli. Sconvolta, si stese con la delicatezza
di una foglia portata via dal vento accanto al suo bambino, avvolgendolo in
abbraccio leggero mentre la tensione le distorceva il viso. Cercare di
lasciarsi avvolgere dal soporifero abbraccio di Morfeo non era mai stato così
difficile, tanto erano numerosi i brividi che scuotevano il suo corpo, quasi impercettibili ma profondi di significato. Attese quindi
l’arrivo del nuovo giorno, silenziosa, mentre Daniel al suo fianco si beava di
una tranquillità che aveva abbandonato Naz.
-
Hai dormito male, tesoro? – non s’era nemmeno accorta
che Malcom, uno dei suoi colleghi, s’era seduto sul bordo della scrivania
ingombra di scartoffie d’ogni tipo. Su un paio di fogli ancora completamente
bianchi sonnecchiava Naz, che si levò a guardare l’amico con sguardo perso
ancora nel pisolino che stava schiacciando inconsapevolmente. – Hai delle
occhiaie che fanno paura… - il ragazzo la fissava preoccupato, lanciando
regolari occhiate verso l’uscita dell’ufficio, aspettando che Beverly
ricomparisse da un momento all’altro. Naz era l’unica a non essersi ancora
recata alla mensa durante la pausa pranzo, dove si trovavano insieme agli altri
colleghi per un panino veloce. – Scusa… Ho un sacco di lavoro in arretrato… -
per cosa si scusasse, non era ben chiaro a nessuno dei due: la donna represse un sbadiglio con la mano, rimproverandosi mentalmente
d’essere caduta vittima della sonnolenza. – Sono stata distratta in questi
giorni… - aggiunse davanti all’espressione ansiosa di Malcom che probabilmente
era sul punto di domandarle retoricamente se un po’ di riposo avrebbe per caso
migliorato la qualità del suo lavoro. Già, in quei giorni era stata distratta,
chissà perché. – Ti ho portato questo… Lo sai che Beverly non vuole che si
mangi in ufficio… e che tu ti debba uccidere di lavoro… - mormorò lanciando sulla
scrivania un sandwich sgraffignato dalla mensa, mentre Naz si affrettava a
rassettare la confusione che lei aveva creato addormentandosi sulla scrivania:
afferrò con decisione un paio di documenti plastificati facendo finta di
leggerli per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Malcom, ignorando il panino.
– Grazie, ma devo assolutamente finire di sistemare i moduli che il sindacato
ha inviato… - in realtà non aveva la più pallida idea di ciò che doveva fare in
quel momento, le idee confuse da sogni inquieti. Era una semplice scusa campata
in aria per liberarsi del collega che, sospirando, lasciò l’ufficio subito
dopo: voleva stare da sola.
Si
ritrovò a passare lo sguardo sulla stessa riga più e più volte senza
comprenderne il significato, soffermandosi sulla forma delle lettere stampate
su di essa. Per quanto si costringesse a porre concentrazione sul lavoro, Naz
non era in grado di scappare dai pensieri che la rincorrevano assalendola con
migliaia di dubbi. Sbuffando sonoramente, si allontanò dalla scrivania con un
colpo secco delle mani sul bordo liscio, prima di portare le dita alle tempie
tentando di rilassarsi con un massaggio: niente, il mal di testa e tutti i
motivi della sua inquietudine non accennavano a passare. La sua immagine non
abbandonava i suoi pensieri, insistente compariva nel
buio in cui cercava di chiudere la sua mente. Quello che avrebbe dovuto essere
il suo pranzo rimase dimenticato in un angolo remoto della scrivania: il suo
stomaco era chiuso dall’angoscia che a piccole dosi avvelenava il suo sangue. –
Naz, ho bisogno del rapporto sui costi di produzione entro stasera… e di un
caffè bello forte, quello subito. – la voce acuta e fredda di Beverly servì da
sveglia alla donna, piombata di nuovo in uno stato catatonico di riflessione. Senza
proferire parola, abbandonò al scrivania per dirigersi
alle macchinette in fondo al corridoio, grata al brusio delle voci negli uffici
e dello squillo dei telefoni che confondevano le parole che vorticavano nella
sua testa. Attese paziente che la macchinetta emettesse i suoi trilli meccanici
e i suoi sbuffi, mentre il caffè del capo si riversava bollente nel
bicchierino: erano quelli i dettagli su cui poneva attenzione Naz, appoggiata
al muro bianco con gli occhi rivolti al soffitto, inespressiva.
-
Pronto, ufficio della signorina Beverly Johnson, in che cosa posso esserle
utile? – non s’accorse nemmeno d’aver fatto ritorno alla scrivania, la penna in
mano e la cornetta del telefono in bilico fra il suo orecchio e la spalla
mentre cercava di occuparsi di tutto contemporaneamente. Beverly alzò a
malapena lo sguardo, come al solito felice che Naz s’occupasse delle persone
fastidiose che la cercavano tramite quella macchinetta infernale che le
provocava sempre fastidiose emicranie. – Chiamo dall’accettazione, cerco la
signorina Naz Kurt. – la voce apatica dell’impiegata appostata all’ingresso del
palazzo giunse fastidiosa alle orecchie della donna, che sistemò alla meglio la
scomoda posizione che aveva assunto per poter adempiere a
tutti i suoi compiti. – Sono io. Mi dica. – esclamò schietta, scribacchiando
poi una nota a piè di pagina del rapporto bramato da Beverly che lei compilava
al posto suo. Probabilmente erano arrivati i nuovi materiali per l’allestimento
dei set televisivi, e lei sarebbe dovuta scendere a trattare con un rozzo
magazziniere: meglio così, l’avrebbe tenuta impegnata. – C’è una persona che
chiede di lei… Dice di essere un certo Saul Hudson, e che deve parlarle con
urgenza. Devo mandarlo su? – alle prime parole pronunciate con noncuranza
dall’impiegata Naz lasciò cadere una risma di fogli che aveva appena preso da
sotto la scrivania: la carta si sparse sul pavimento con fruscii e tonfi,
creando un’isola bianca attorno alla sedia su cui stava seduta. – Può ripetere
il nome? – balbettò senza curarsi del disastro che aveva appena combinato e del
suo capo che attraverso le lenti degli occhiali la fissava sospettosa. – Saul
Hudson… è molto insistente. Devo lasciarlo salire? – ripeté sbuffando la voce
dall’altro capo del telefono, soffocata dai rumori della vita laboriosa del
palazzo. – No… No, arrivo subito, gli dica di attendere – con violenza
riattaccò il telefono nero, restando immobile per pochi secondi prima di
precipitarsi a raccogliere i fogli sparsi sul pavimento. – Chi era? – il tono usato
da Beverly suonava indifferente, ma era palese che avesse capito che qualcosa
aveva scombussolato la sua assistente, che nascondeva la faccia dietro il legno
della scrivania.
-
Nessuno! Solo… il gestore dell’ufficio delle assicurazioni… con i dettagli
sull’incidente del tubo che ha allagato il piano. Ci metterò pochissimo… - la
rassicurò con voce nervosa, conscia del fatto che Beverly non sarebbe cascata a
nessuno delle sue bugie raccontate in maniera pessima ma che forse le avrebbe
concesso di andarsene comunque. La donna infatti
replicò con un suono gutturale e gli occhi fissi su chissà quale documento,
lasciando intendere che le concedeva una manciata di minuti. Naz si rialzò
quasi inciampando nei propri passi, prima di uscire con passo svelto dall’ufficio
ed andando a sbattere contro un paio di uomini in giacca e cravatta che
discutevano amabilmente delle ultime azioni in Borsa. Reputandosi fortunata di
essere arrivata sana e salva all’ascensore, Naz premette in fretta i tasti per
il piano terra prima di concedersi un respiro profondo che non servi a
calmarla. Cosa voleva Slash ora? Forse scusarsi per l’incidente di qualche
tempo prima per la loro litigata… forse, come uno squallido giochetto da
elementari, era venuto in qualità di ambasciatore del suo compagnone… Avrebbe
dovuto liquidarlo con poco per potersela filare prima di rischiare un collasso
a causa dei suoi nervi tesi: ogni dettaglio di quella situazione intricata, del
labirinto in cui s’era addentrata minacciava di mandarla fuori di testa. Ogni
acuto suono dell’ascensore che scendeva di piano in piano la faceva sussultare,
spaventata quasi da ciò che la divideva dall’amico in visita: i ricordi della
notte passata tornava ad intervalli regolari di pochi secondi nonostante
tentasse di trovare interessante le forme e la luce dei pulsanti
dell’ascensore. In più, i mille e mille pensieri che la rodevano la spingevano
sempre di più verso la confusione totale: uno strano senso di nausea la investì
quando rilevò, fra le tante sensazioni, l’incredibile delusione per non aver
udito un altro nome, ben più minaccioso di quello del chitarrista.
L’atrio
era immerso nella confusione più totale di centinaia di uffici di svariate
aziende: gruppetti di uomini e donne in completi discutevano fra loro,
dipendenti con cartelline sottobraccio facevano avanti e indietro con
espressioni paranoiche e nervose, i centralini dell’accettazione erano
impazziti. Il ticchettio dei suoi tacchi sul marmo lucido e scuro si disperdeva
nell’intreccio dei rumori che il lavoro produceva, mentre osservava l’ambiente
attorno a lei alla ricerca di una folta massa di ricci neri. Le teste che
poteva vedere erano tante, ma nessuna corrispondeva a quella di Slash,
nonostante continuasse ad addentrarsi nella folla di gente: quella ricerca inaspettata
di un suo segno la rese ancora più alterata di prima,
mentre uno strano nodo le bloccava la gola. – Ehi, tu! – lo sapeva. Lo sapeva
ancora prima di sentire la sua voce chiamarla con sottile ironia, alle sue
spalle. Lo sapeva da quando era uscita dall’ascensore traballante su quei
tacchi maledetti senza vedere la chioma cespugliosa di Slash, forse anche da
prima quando al telefono le avevano comunicato che una persona chiedeva di lei.
Il sorriso di Izzy era largo e rilassato mentre la donna si voltava di scattò in sua direzione, quasi colpendo un’impiegata di
passaggio che le lanciò un’occhiata di sbieco. Eccolo lì, con i suoi vestiti da
rockstar e le mani curiosamente dietro la schiena, che la guardava sfidandola
ad andarsene e a lasciarlo lì: l’espressione del suo viso era ebbra di
soddisfazione, probabilmente per via della vista della faccia sbalordita di
Naz. Lo sapeva che al posto dell’amico c’era lui ad attenderla in quel salone
caotico: lo sapeva e, nonostante l’eco nella testa che ripeteva ostinato un
“No, no, no!”, addirittura ci sperava.
-
Cos’è quella faccia? Ti aspettavi forse di vedere Slash? – come se le avesse
letto nel pensiero, Izzy si fece largo fra le persone che lo dividevano dalla
donna, immobile a pochi passi da lui: l’ombra attorno all’occhio sinistro
lasciava ad intendere che fosse reduce da una rissa. – Sai, mi ha picchiato
quando ieri notte sono tornato all’albergo e gli ho spiegato cos’era successo.
Credo se lo aspettasse, era fermo davanti alla mia camera… - per Naz era inaccettabile
notare tutta la tranquillità che trasudava il viso dell’uomo mentre si
avvicinava, spiegandole in tono amabile gli ultimi fatti che gli erano accaduti
come se nulla di strano fosse successo tra loro. Si sentiva però
improvvisamente fuori combattimento, senza nessun motivo spiegabile fin da
subito, il dono della parola improvvisamente perso. – Ti ho portato questa. So
che non è il massimo dell’originalità, l’ho comprata cinque minuti fa in un
negozio poco lontano da qui… per trovare un parcheggio credo di aver provocato
un incidente, perciò cerca di godertela. – e con un sorriso sghembo tolse la braccia da dietro la schiena scoprendo un’unica rosa
rossa avvolta in carta trasparente, porgendogliela. La donna spostò lo sguardo
da Izzy al fiore, allibita: che fine aveva fatto l’uomo che aveva riconosciuto
davanti all’asilo di suo figlio, nervoso, pentito, triste? Chi era quell’Izzy
che gli sorrideva conscio dell’incapacità di ribattere alle sue frasi divertite
che l’aveva colta alla sprovvista? Improvvisamente, ritrovò davanti a lei il
ragazzino spigliato e con la vena di mistero che aveva conosciuto circa sei
anni prima, quello con cui aveva fatto l’amore sotto un porto abbandonato dove
erano stati presi in giro dai loro amici. Era lì, di nuovo a sorriderle come la
prima volta. Ed era incredibilmente merito suo, di quel bracciale, che in quel
momento tintinnava ancora al suo polso, indossato in modo così naturale che
quella notte aveva rievocato Izzy. L’uomo espanse il proprio sorriso in modo
radioso, chinandosi verso di lei per sussurrarle – Hai perso la lingua? -.
Ed
anche Naz sorrise, sorrise in un modo tale da far dolere i muscoli del viso a
digiuno della felicità che ora li animava: la sua mano s’innalzò per afferrare
il gambo delicato della rosa, stringendola prima di portarla lentamente verso
di sé. Izzy le si avvicinò ancora, incurante degli sguardi dei curiosi o delle
persone che lavoravano con Naz e che la vedevano con quell’espressione sul
viso, quella che concedeva al mondo rare volte. – So che ho sbagliato. Ti
prego, credimi quando ti dico che so di essere stato un bastardo a lasciarti da
sola… a lasciarvi da soli. E mi dispiace. Sul serio. Ma devi concedermi una
seconda possibilità, perché posso essere un buon padre per Danny… e per quanto
sia difficile da credere, ho sempre pensato a te. Sempre. Ecco, un prova di tutto questo è il fatto che sono qui a dirti
queste cose smielate che sicuramente stanno per farti vomitare. Ti conosco. –
nessuno dei due riuscì a reprimere una risatina nervosa alla battutina, forse
un po’ fuori luogo ma reale, di Izzy, prima che questo prendesse il viso della
donna fra le mani, avvicinandolo al proprio – Ti conosco. Non ti chiedo tutto e
subito, perché non riesco nemmeno io ad accettarlo, non ancora. Però, concedi una
seconda possibilità… a noi. Vada come vada, almeno ci avremmo provato. – e fu
così che Naz cedette, come creta nella mani di un Izzy
raggiante quando nell’espressione della donna comparve quell’accenno di
arrendevolezza da cui comprese tutto. E, veloce come il vento, posò le proprie
labbra sulle sue completamente indifferente alla
folla, alle persone che li guardavano fra lo stupore e la commozione, agli
amici che non avevano idea di ciò che stava accadendo, al mondo che li fissava
indiscreto. Le loro bocche si schiusero in un bacio mozzafiato, senza che
nessuno incontrasse resistenza da parte dell’altro: Naz, la rosa stretta in una
mano, s’irrigidì soltanto per quei pochi secondi che le ci vollero per capire
che forse c’era un modo, una soluzione giusta per tutti, prima di abbandonare
le braccia lungo i fianchi. Era impotente davanti alla potenza dei loro
sentimenti.
-
Ci vorrà tempo… - e, rapido com’era cominciato, quel bacio finì mentre le
braccia calde ed accoglienti di Izzy la stringeva in un abbraccio che esprimeva
loro stessi più di mille parole. Il mormorio confuso della donna, che ancora
non si rendeva pienamente conto di ciò che era successo, si perdeva nella forza
di quel contatto. – Ci vorrà tempo… - si trovò a ripetere fra sé e sé passando
le mani sulla schiena forte dell’uomo, mentre una tessera del puzzle complicato
della sua vita che da anni cercava sembra andare al suo posto. – So aspettare…
Posso aspettare tutta la vita, se necessario – la rassicurò Izzy allontanandosi
di poco da lei per poterla guardare meglio, splendente di quello che, tradotto
dal linguaggio segreto della donna che aveva di fronte, equivaleva ad un “sì”:
aveva avuto anni per imparare il doppio significato di parole e gesti. E,
mentre il mondo continuava a vorticare attorno a loro e le persone continuavano
a vivere, sentirono che qualcosa finalmente era cambiato: la strada davanti a
loro era tortuosa, ma al termine di quel sentiero c’era Daniel, il loro
stupendo bambino, e una vita, se non completamente felice, serena… ci avrebbero
provato. E, se anche tutto non fosse andato secondo i loro desideri, almeno
avrebbero potuto gridare di aver fatto un tentativo. – Ci vorrà tempo, e io
adesso devo scappare a lavoro e… - di sicuro Naz non avrebbe demorso alle prime
difficoltà: la forza sul suo viso era pari a quella che concentrava per
sfuggire all’imbarazzo di una gioia grande, cristallina. Izzy rise, prima che
un’idea balenasse nella sua testa come un fulmine a ciel sereno.
-
Ti lascerò tutto il tempo per riflettere, tutto quello che ti servirà – fu
esclamando quelle parole per sovrastare i rumori della massa di persone che li
circondavano ch s’inginocchio, prendendo la mano ad
una sbalordita Naz. – Ma tu concedimi una cosa, una sola. L’anello te lo
comprerò, vedrai, sarà il più bello che tu abbia mai visto! – le persone
attorno a loro osservavano l’uomo improvvisamente serio in volto che fissava
con ardore la donna davanti al quale era
inginocchiato, che stringeva la rosa rossa come se fosse stato il fiore più
prezioso del pianeta. Nessuno seppe dire cosa fosse stata la scarica elettrica
che si propagò per la stanza, fino a raggiungere tutto il mondo, dal punto in
cui le loro mani era unite. Nulla più importava… Christie, Duff, Slash, Ebony,
Justin, Victoria, Steven… forse persino Axl, un fumoso ricordo che forse
avrebbe avvelenato ancora i loro animi ma che in quel momento era lontano mille
miglia: tutti sorridevano attorno a loro, presenti in qualche modo. – Vuoi
sposarmi? – parole magiche che parvero gettare il silenzio attorno a loro, gli
occhi incatenati da migliaia di promesse non dette che forse non sarebbero
andate mantenute, forse sì. C’erano infinite porte aperte per loro in quel
tortuoso cammino: ci sarebbe voluto tempo per percorrerlo fino in fondo, ma
entrambi avevano imparato ad aspettare. Naz si perse nella contemplazione del
viso che, inutile ormai negarlo, le era mancato, che aveva rimpianto, che aveva
odiato, amato e che ora più che mai vedeva nel suo futuro: le parve di udire la
risata angelica di suo figlio in lontananza. – Ma fottiti – mormorò ridendo
leggera, alla vista del cipiglio scherzoso che Izzy adottò dopo aver perso
anche il briciolo di serietà che aveva cercato di mantenere. La fissò
allontanarsi, girarsi di tanto in tanto verso di lui con quel sorriso spontaneo
in faccio, forse non ancora sicuro, ma speranzoso. La
trovò bellissima anche quando per poco non rovinò a terra a causa di quei
tacchi che la faceva dannare, pensando che in ascensore li avrebbe tolti e
avrebbe riso di lui. Aveva sempre saputo che avrebbe risposto così.
Ragazze,
la storia è finita! THIS IS THE END! Non ci posso credere,
la mia prima storia completa! Spero di non aver fatto un finale troppo puccioso o romantico, dopo vari ripensamenti ho deciso di
regalare una specie di lieto fine a Naz e ad Izzy con questo capitolo solo per
loro. Forse non succederà nulla di speciale, ma almeno ci proveranno ;) buahaha adesso scoppio a piangere! No, non è vero u.u okay, la storia si conclude qui, però per non uccidervi
con questo trauma (-.-) prima di schiacciare il pulsante “Incompleta/Completa”,
voglio regalare a tutte voi un piccolo epilogo e i dovuti ringraziamenti!
Quindi invito tutti a recensire, sia coloro che lo fanno sempre, sia chi non
l’ha mai fatto, per farmi sapere i vostri pareri: vi anticipo un enorme GRAZIE,
anche se nell’epilogo lo farò a dovere ;)
AmyHale:
Tu! Sei una fedifraga! Sappi che da adesso odio tua cugina per averti impedito
di leggere l’ultimo capitolo di questa lunghissima storia! Scherzi a parte -.-
non ci posso credere! È finita! La mia vita non ha più senso adesso, anche se
beh, si devo scrivere dell’altro… non mi fermo qui! E tu lo sai,
sai tutto te! ;)
Miss_Rose:
Grazie ;) è finita, e tu si dall’inizio mi hai
supportato e non sai quanto i tuoi commenti mi abbiano fatto piacere man mano
che la storia prendeva vita! Direi che “Lemony Snicket” è un paragone perfetto per le vicende della povera
Naz, che se potesse prendere vita mi prenderebbe a calci, lo ribadisco, anche
se vi lascio con questo finale che presuppone un lieto fine… la fine vera e
propria, potete immaginarla voi! Grazie di cuore!
Sylvie
Denbrough: l’ho già detto, ma lo ripeto J adoro le tue recensioni chilometriche! Grazie anche a te per i
complimenti e per il sostegno, farò tutto per bene nel prossimo chappy! E
invece, a dispetto delle vostre aspettative, la telefonata a vuoto di qualche
capitolo fa è stata l’uscita di scena di Axl, anche se nell’epilogo… beh, non
anticipo nulla, nessuno (nemmeno le mie fidate consigliere) sa di cosa tratterà
l’ultimo briciolo di questa storia! Godetevelo ;)
aivlis8822: è stata dura per Naz, ma si può dire che ce
l’ha fatta! Avevo pensato ad un finale triste, poi ad uno del genere “felici e
contenti”, poi ho optato per la più realistica via di
mezzo e qualcosa per sdrammatizzare tutto! Spero solo di essere riuscita a
rendere la mia idea ;) ahah, mettiti in fila, ci sono
un bel po’ di persone che vorrebbero adottare Daniel, la sottoscritta compresa xD Grazie anche a te!
GioTanner:
tranquilla, non muoio per una recensione mancata ;) comunque non devi pensar
male della tua scrittura, anche tu sei molto brava a rendere reali i personaggi
della tua storia! Accetto comunque i bei complimenti, anche se non credo di
meritarli: ci sarà un ringraziamento per tutte nell’epilogo! Intanto grazie
delle belle recensioni e del supporto J
LovelyLu:
Izzy ha fatto la cosa giusta, era ora che dopo quattro anni si assumesse le sue
responsabilità!... il bello è che parlo come una
lettrice nonostante sia l’autrice della storia, prova della mia pazzia xD comunque ti assicuro che non merito così bei
complimenti: devi innalzare il tuo livello di autostima, bella, perché scrivi
benissimo! ;) Grazie per avermi sostenuto fin
dall’inizio!
Al
prossimo (ed ultimissimo) capitolo!
Bye!