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Autore: Maybe Charlie Knows    14/11/2010    10 recensioni
Los Angeles, 1985. Ai Guns N'Roses si sono appena uniti Saul Hudson e Steven Adler. La strada per il successo è lastricata di flop e compromessi, ma i ragazzi sono giovani e affamati. Nell'aria c'è quella nota frizzante che indica che qualcosa sta cambiando nella musica, almeno a chi sa cogliere i segni.
Naz Kurt decide di svenire proprio sul retro del locale dove si sta tenendo un loro concerto. Va ancora a scuola ma non è mai stata una ragazzina. Quello che sembra dover finire con un litigio si trasformerà in una spirale discendente che sconvolgerà i ragazzi dalle fondamenta.
"- E io ho capito che per trovare una quadra dovevo scrivere la mia musica e i miei testi, e non avrei potuto farlo con nessun altro se non con lui. - [..] Non si accorse se non dopo qualche istante che il racconto di Izzy era terminato. Naz aveva iniziato ad osservarlo mentre parlava, fumando lentamente. Si riscosse quando intercettò l'occhiata del ragazzo, sollevando le sopracciglia. - E immagino che la scimmia sia alle percussioni. -" Dal Cap. 4
IN CORSO DI REVISIONE - Cap. 25 ultimato
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axl Rose, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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Love will tear us apart

 

 

 

 

Love will tear us apart

 

Capitolo 35 – Don't you forget about me

 

 

 

 

Restavano seduti l’uno di fronte all’altra, immersi in movimenti impercettibili che lasciavano ad intendere il loro imbarazzo, il disagio di scoprire di spiarsi a vicenda senza mai permettere ai loro occhi d’incontrarsi. Due bicchieri vuoti abbandonati sulla tavola non avevano contenuto altro che acqua, a dispetto dei bisogni di Izzy di sentire il bruciore in gola di whiskey forte. L’uomo cercava di desistere dal mangiarsi le unghie meccanicamente, non osando però chiedere di potersi accendere una sigaretta nell’ambiente in cui suo figlio era cresciuto, sarebbe cresciuto. Le lancette dell’orologio appeso al muro segnavano la mezzanotte passata, mentre fuori le luci della città fungevano da unica fonte d’illuminazione per la stanza. – Compie quattro anni fra cinque giorni – gracchiò Naz, dalla voce ormai consumata sia per le grida contro Daniel per riuscire a metterlo a letto del tutto, sia per i discorsi che avevano occupato quelle ultime ore. – Tu non lo sapevi. – non era una domanda, era l’ultima di una serie di affermazioni mirate a ferire, a far soffrire l’uomo che, seduto di fronte a lei, non accennava ad alzare lo sguardo dalle venature del legno del tavolo. – Lo sapevo. – ribattè questo con voce bassa, flebile, senza l’ombra di falsità in quella breve frase: certo che lo sapeva. Era tornato, quattro anni prima, quando Daniel era nato: semplicemente, non aveva avuto la forza di presentarsi all’ospedale.

 

- In ogni caso, ti proibisco di fargli regali. – Naz non demordeva: sembrava aver preso come missione il ridurlo ad un verme raccontandogli i particolari della loro vita lontana che si era perso, che non sarebbero tornati. Forse era proprio quella sete di vendetta che l’aveva spinta a richiamare l’uomo fermo sul pianerottolo, prima che se ne andasse un’altra volta. Forse – Non ne ha bisogno. Gli basto io. – il significato nascosto dietro quella parole coincise, amare, non era poi così difficile da comprendere: non era il bambino a non aver bisogno di regali, nonostante ne venisse ricoperto da tutti i loro conoscenti per i quali ogni occasione era buona per viziarlo. Era lei, Naz, che non avrebbe accettato altri segni della presenza di Izzy nella loro vita, ormai indiscutibile visto il passo che aveva fatto l’uomo nel comparire. – Non avevo alcun dubbio. – il sottile sarcasmo nella voce abbattuta di Izzy la infastidì visibilmente, distorcendo la linea sottile delle sue labbra in una smorfia indignata. Gli aveva raccontato tutto, ed adesso era pentita: aveva cercato di rinfacciargli gli anni in cui era stato assente, descrivendo con minuzia i dettagli della vita di Daniel che, ignaro di tutto, dormiva beatamente qualche stanza più in là. Aveva pensato che attraverso quella vendetta lei si sarebbe sentita appagata, ed Izzy probabilmente sarebbe stato distrutto: invece non era cambiato nulla. Rimanevano due anime separate da un strato di rancore che si assottigliava man mano che rimanevano lì, seduti immobili, intrappolati in quel gioco morboso di sguardi insicuri che non erano in grado di concludere niente. – Devi capire che non posso accettarlo. – mormorò la donna, passandosi le dita fra i capelli sottili: qualcosa nella sua voce s’era fatto tremante.

 

- Non posso… non posso e basta. Tu ritorni e pretendi di… di esserci improvvisamente, ma non posso concederti di tornare a fare il padre dopo… dopo tutto. – l’aria improvvisamente era fatta di piombo, i loro corpi pesanti accasciati sulle sedie sembravano sprofondare per il peso di quelle frasi, della voce rotta della donna. Per la prima volta, entrambi alzarono gli occhi verso l’altro incatenandosi alla profondità che vi ritrovarono, al legame perduto di cui riuscivano ad avere un nostalgico assaggio: Naz portò istintivamente le unghie alla bocca, trattenendo a stento il desiderio di riprendere a tagliuzzarle per combattere l’ansia. Nei loro sguardi c’era la profonda malinconia che tutto ciò che avevano passato insieme aveva lasciato: passati quattro anni a rimpiangere il riflesso l’uno dell’altro nello specchio, in quel momento sentirono di nuovo come palpabili le loro presenze vicine. – Non puoi o non vuoi? Qual è la differenza? – il tono di voce e l’espressione sul viso di Izzy cambiarono talmente in fretta che la donna non ebbe il tempo di rendersi conto del cambiamento. La stava attaccando come lei aveva precedentemente fatto con lui, in un modo più sottile, appuntito: il rancore per quel suo nuovo rifiuto, per la proibizione che Naz gli aveva imposto sulla sua figura di padre sembrava averlo scosso dal torpore di cui era stato vittima. – Non posso. Non ti chiedo di capire subito… anche se dovresti. – se aveva avuto paura che la leonessa che in c’era stata fosse cambiata, quelle frasi le smantellarono tutte: la fierezza, il suo non demordere nel portare avanti le sue dure parole, tutto si ricollegava alla ragazzina impertinente che aveva conosciuto. E della quale si era innamorato. – Come puoi pensare… - non terminò la frase, limitandosi a ricambiare lo sguardo dell’uomo con rinnovata ferocia. Perché l’aveva chiamato indietro?

 

- Non sono tornato per difendere ciò che ho fatto. – chiarì Izzy con voce dura, netta, stringendo in pugni le mani prima abbandonate sulla superficie lignea del tavolo inermi. – Ma non puoi negarmi un’altra possibilità per dimostrarti… per dimostrarti che posso essere un buon padre. Sono scappato, lo so, e non hai davvero la minima idea di come io mi sia sentito… so benissimo che anche tu hai patito tanto, ma la mia non è stata una decisione presa a cuor leggero, OK? Cazzo! – uno di quei pugni alla fine diede un poderoso colpo sulla tavola, che tremò non solo sotto la sua violenza ma anche sotto la rabbia che pian piano stava crescendo in lui. Non verso Naz, che sentiva gli occhi pizzicare pronti a liberare poche lacrime salate. Verso sé stesso: aveva perso l’occasione di vedere suo figlio, un meraviglioso bambino dal sorriso travolgente, crescere. Chissà se lo avrebbe mai chiamato papà… - Scusami. – non appena i suoi occhi scuri si spostarono sul profilo basso della donna, che alle sue esclamazioni aveva chinato il capo, si calmò improvvisamente. Riusciva a scorgere i suoi tentativi di trattenersi, di non mostrargli un attimo di debolezza che avrebbe potuto giocare a suo sfavore. – Scusami. – ripeté, senza più sapere bene a cosa si stesse riferendo: forse le stava chiedendo di perdonarlo per le sue mancanze, per la sua paura, per il suo non saper comprendere quale fra i tanti possibili motivi la stesse spingendo sull’orlo delle lacrime. Era passato tanto tempo… e loro erano cambiati. Forse era possibile affermare che fossero maturati, forse invece erano rimasti bloccati in un gabbia di ricordi dorati che avevano alimentato il veleno nelle loro vene. I “forse” era troppi, erano pesanti, scalpitavano per gettarli di nuovo in alto mare.

 

- È che… è che davvero mi dispiace. Naz… mi dispiace per tutto. Daniel è… qualcosa che non riesco neppure a descrivere… e tu sei così diversa, ma sei sempre tu… mi mandi in confusione! – sarebbero state le parole adatte per una canzone, se non fosse stato per l’inquietante particolare del contesto in cui furono pronunciate: Izzy, senza essere in grado di stare seduto un minuto di più, si alzò di scatto sotto lo sguardo ritornato impassibile della donna. Era troppo brava a reprimere sé stessa. – Non voglio fare lo stupido coglione che torna dopo anni passati a… a… non ha importanza, non voglio presentarmi alla tua porta e dire “Ehi, ciao, ti ricordi di me? Sono il padre di tuo figlio, che ne dici di tornare insieme?” – s’interruppe bruscamente dopo quella frase pronunciata in falsetto, quasi comica per un esterno alle loro complicate vite, mentre gli occhi cercavano con improvvisa smania quelli esterrefatti di Naz. Perché l’aveva detto. In un istante era stato chiaro a tutti che ormai non si parlava più soltanto dell’importante destino di Daniel, del futuro di cui anche l’uomo voleva fare parte. “Sono il padre di tuo figlio, che ne dici di tornare insieme?”. Avrebbe dovuto domandargli cosa diavolo avesse detto, magari con la voce attonita e un’espressione accusatrice, eppure Naz rimase immobile su quella sedia, come unica prova del blackout improvviso nel suo cervello la bocca socchiusa, in procinto di dire qualcosa. Sarebbe rimasta zitta: aveva capito fin troppo bene.

 

- Mamma – la vocina assonnata ma contemporaneamente spaventata di Daniel irruppe tempestivamente nel gelo del silenzio dei due, mentre il loro corpi rispondevano di scatto a quel richiamo innocente: il bimbo era in piedi di fronte all’entrata del corridoio, avvolto nel pigiama bianco, la puzzola di peluche stretta in mano. Si stropicciava gli occhi confuso, rossi dal pianto che doveva averlo sorpreso nella notte, mentre subito s’avvicinava alla madre pronta ad accoglierlo fra le sue braccia. – Mamma, ho fatto un brutto sogno… - quella frase era così limpida nel mezzo delle loro confessioni da farli star male, mentre il bambino prendeva comodamente posto sulle gambe di Naz, che lo abbracciava cercando di caricare su di sé ciò che poteva averlo angosciato. – C’era un mostro enorme che si mangiava tia Chris, e poi si mangiava anche te, e tio Mason… - Izzy fissava sbigottito l’intimità pura che emanava quel momento di contatto privato fra una madre e suo figlio, mentre Naz con le palpebre abbassate sugli occhi cioccolato accarezzava i capelli di Daniel cercando di calmarlo. Era strabiliante. Era strabiliante il modo in cui la donna, non appena il bambino accennava al più piccolo problema lo tormentasse, come un incubo che aveva interrotto le prime vere parole che si scambiavano dopo anni, era sempre pronta a gettarsi sotto un treno per quel bambino. Ne era attratto: quel legame che li univa, uno dei più potenti che Izzy avesse mai visto, era qualcosa di cui sentiva la mancanza nella sua vita di agi e di vizi. Ma il punto che bruciava nel suo cuore, che gli mozzava il fiato, era che quel legame non lo avrebbe voluto con nessun altro all’infuori di quella donna minuta apparentemente fragile, la ragazza che aveva conosciuta un epoca prima e che gli aveva spezzato il cuore, e da suo figlio. Suo figlio: non aveva mai udito parole più melodiche di quelle.

 

Izzy seguì la donna in modo automatico quando, dopo qualche minuto passato fra la delicata stretta di sua madre, Daniel cadde addormentato per la seconda molta, le braccia allacciate dietro al collo di Naz che sussurrava al suo orecchio stralci di canzoni. Rimase fermo sulla soglia di una camera semplice e perfetta che lei aveva pensato da sola, appoggiato allo stipite della porta nell’osservare come amorevolmente la donna riponeva il bambino nel suo lettino e gli rimboccava le coperte. – È… - ancora una volta Izzy si ritrovava a dover setacciare il proprio vocabolario alla ricerca di un termine proprio del bambino che angelico riposava, senza trovarne uno adatto. – È tutto quello che potevo chiedere dalla vita – era notevole il cambiamento nei tratti di Naz non appena s’iniziasse a parlare di Daniel, del suo bambino: l’orgoglio, l’amore si univano alla fierezza che la contraddistingueva, e negli anni aveva addolcito il cipiglio orgoglioso. – È tutta la mia vita – era una frase così reale, così vera, da colpire direttamente al cuore. E, cosa più sensazionale, improvvisamente era vera anche per l’uomo che sentì il fiato mozzarsi nei polmoni: com’era stato cieco, vigliacco per tutti quegli anni. Fuggiva da qualcosa di così tenero, piccolo e grande allo stesso tempo, l’unica fonte di felicità certa in una vita. – Credo sia ora che tu vada, Izzy – troppo bello per farlo durare a lungo, ci pensò Naz a sciogliere quello strano incantesimo che li aveva avvolti nel contemplare Daniel. La donna si volse a guardarlo improvvisamente turbata, un’espressione completamente diversa da quelle che le aveva visto addosso fino a quel momento: era come se, rendendosi d’un tratto conto dei sentimenti che Izzy stava provando, si fosse accorta che non sarebbe mai potuto essere il quadro perfetto sul quale si era sorpresa varie volte a fantasticare. L’uomo ricambiò con nascosta negli occhi la stessa intensità con il quale aveva fissato Daniel: eccola, di nuovo, cambiata nella sua bellezza ma rimasta uguale per tutto quel tempo.   

 

- Naz, ascoltami – e fece una cosa che non aveva ancora osato fino a quel momento, qualcosa che sentiva dentro da quando l’aveva vista, qualche giorno prima, camminare per le strade di una città che credeva aver dimenticato. Le si avvicinò, coprendo la distanza che li divideva con pochi lunghi passi, senza badare alla possibilità di rifiuto da parte della donna che non si mosse. I loro visi vicino erano uniti soltanto dal semplice contatto della mano di Izzy posata sulla guancia di Naz, che tremava a quel tocco senza essere in grado di sciogliere la catena che la legava agli occhi dell’uomo. – Naz, ascoltami. Dammi… un’altra possibilità. Non hai davvero idea… di quanto tu mi sia mancata. – parole vuote, per lei. Forse, se gliele avesse dette prima, quando ancora era tutto rimediabile, sarebbe andata in maniera diversa: se le avesse pronunciate lei al suo posto quando aveva sbagliato strada, quando si era lasciata tentare dall’illusione di poter cambiare Axl, di poterlo amare, tutto avrebbe potuto seguire il corso giusto. Aveva rimuginato tante volte su come sarebbe potuto risolversi quel casino se non avesse fatto questo e non avesse detto quell’altro: forse non sarebbero nemmeno stati lì, ma dall’altra parte del mondo, a discutere di qualsiasi altra cosa. Oppure, se anche non avesse scelto Axl, la loro storia sarebbe finita comunque lasciando o un’amicizia sincera, o l’amaro in bocca ad entrambi. Era inutile pensare però alle ipotesi di una vita che non sarebbero mai divenute realtà: era inutile stare ad ascoltare quelle che lei considerava bugie dettate dal momento.

 

- Devi andare. – mormorò quelle semplici sillabe un attimo prima che Izzy oltrepassasse la sottile linea di non ritorno, quella della distanza di sicurezza dalle labbra sottili ed incrinate della donna. Sentire la pelle dell’uomo sfiorare la propria come un petalo di fiore, avvertire il suo corpo avvicinarsi a cercare la combinazione perfetta che li aveva sempre uniti era troppo, dopo la separazione che aveva disabituato entrambi alla scossa elettrica che i loro corpi emanavano. Potevano sentire a quel semplice tocco la scintilla propagarsi lungo le loro schiena, le vibrazioni che si passavano potenti nelle loro vene. E non era necessario fare altro per parlarsi: se quello si poteva considerare un bacio, era di certo più eloquente di migliaia di parole, dette e non. Le mani di Izzy era vellutate sulla pelle del suo viso, bianco nel bagliore della luna che dalla finestra rischiarava la stanza, quei secondi rubati ai ragazzini imprudenti che erano stati. Le loro labbra non sentivano il bisogno di dar fogo alla passione che trattenevano con le catene, si limitavano a rimanere immobile l’una appoggiata all’altra, beandosi del calore improvviso che i loro corpi emanavano. Poi successe qualcosa d’imprevedibile: Izzy avvertì il tocco dei polpastrelli delicati della donna sulla sua pelle, animati da movimenti impercettibili come soffi di vento. Le dita gli scostarono i capelli neri dal viso provato, contratto in una smorfia di sofferenza quasi irreale: nell’aprire gli occhi che precedentemente aveva chiuso la trovò con le palpebre abbassate sullo sguardo, incredibilmente vicini. I loro visi si allontanarono di poco, mentre le mani di Naz ancora vagavano sul volto dell’uomo, stupito da quel contatto così… potente. Fino a che le sue, di mani, non si strinsero attorno al polso destro della donna, che sussultò spaventata.

 

- L’hai tenuto. – non c’era espressività nella voce di Izzy, che stringeva fra le dita il braccio di Naz illuminato non solo dal bagliore lunare ma anche dalla luce nei suoi occhi. Avvolto attorno al polso c’era una semplice catena argentata, fredda e splendente quanto la proprietaria, un lucchetto ed una piccola chiave incastrate nelle spire metalliche che risaltavano sulla pelle pallida. La sfida negli occhi di Naz era delle più dolci che Izzy avesse mai assaporato: il regalo del suo ventesimo compleanno, quello che lui le aveva donato. Un dettaglio a cui scandalosamente nessuno dei due aveva badato, ma che la donna sempre indossava senza un ragione concreta che il suo cervello riuscisse a formulare. – L’hai tenuto. – ripeté, un sentimento nuovo ad animarlo, un’incredibile forza che aveva preso possesso del suo animo. E che irrimediabilmente, metteva in difficoltà la donna, rimasta senza parole: la sua prova, che aveva custodito gelosamente per anni, che nulla era andato dimenticato, era in bella mostra davanti a l’uomo che gliel’aveva donata. Che sembrava aver perso il dono normale della parola davanti a quella stupenda verità: Naz ritirò la mano di scattò come a coprire il suo segreto, ormai svelato. Potevano sentire l’elettricità scorrere fra di loro ancora più intensa degli attimi in cui s’erano toccati, più intima di qualsiasi altra forma di comunicazione. – Vai. – lo spronò con un sussurro la donna, spostando gli occhi caldi su Daniel che ancora dormiva: levitando a pochi metri dal suolo senza staccare i piedi da esso, Izzy le ubbidì. Doveva assimilare ciò che aveva visto. Il bracciale al polso di Naz continuava a brillare di luce improvvisamente propria.

 

Guardando la sua ombra scomparire oltre il corridoio in attesa di sentire la porta sbattere, Naz si rese pian piano conto di come tutto stava precipitando nel vuoto in maniera inaudita. Indietreggiò fino a toccare il letto sul quale dormiva il bambino, prima di portare le stesse dite che prima avevano cercato la pelle dell’uomo alla bocca sottile, avvertendo le labbra tremare sotto quel contatto. Ogni cosa nella stanza improvvisamente vorticava attorno a lei, nonostante fosse convinta con tutta sé stessa come il mondo fosse immobile in quegli istanti. Il suo respiro divenne affannato nella comprensione di quello che aveva appena provato, nella lettura dei suoi pensieri. Con le mani strinse con forza la catena, sfilandosela fino a graffiare la pelle delicata, ora arrossata sotto la violenza del metallo, prima di scagliare il braccialetto a terra. Nonostante fosse freddo come il giaccio, sembrava scottasse: in realtà era qualcos’altro, più oscuro ed enigmatico, che dentro di lei scoppiava in fiamme rosse, vive. Si voltò verso Daniel, a guardare l’espressione angelica del suo viso mentre il suo corpicino si muoveva ritmicamente sotto sogni più tranquilli. Sconvolta, si stese con la delicatezza di una foglia portata via dal vento accanto al suo bambino, avvolgendolo in abbraccio leggero mentre la tensione le distorceva il viso. Cercare di lasciarsi avvolgere dal soporifero abbraccio di Morfeo non era mai stato così difficile, tanto erano numerosi i brividi che scuotevano il suo corpo, quasi impercettibili ma profondi di significato. Attese quindi l’arrivo del nuovo giorno, silenziosa, mentre Daniel al suo fianco si beava di una tranquillità che aveva abbandonato Naz.

 

- Hai dormito male, tesoro? – non s’era nemmeno accorta che Malcom, uno dei suoi colleghi, s’era seduto sul bordo della scrivania ingombra di scartoffie d’ogni tipo. Su un paio di fogli ancora completamente bianchi sonnecchiava Naz, che si levò a guardare l’amico con sguardo perso ancora nel pisolino che stava schiacciando inconsapevolmente. – Hai delle occhiaie che fanno paura… - il ragazzo la fissava preoccupato, lanciando regolari occhiate verso l’uscita dell’ufficio, aspettando che Beverly ricomparisse da un momento all’altro. Naz era l’unica a non essersi ancora recata alla mensa durante la pausa pranzo, dove si trovavano insieme agli altri colleghi per un panino veloce. – Scusa… Ho un sacco di lavoro in arretrato… - per cosa si scusasse, non era ben chiaro a nessuno dei due: la donna represse un sbadiglio con la mano, rimproverandosi mentalmente d’essere caduta vittima della sonnolenza. – Sono stata distratta in questi giorni… - aggiunse davanti all’espressione ansiosa di Malcom che probabilmente era sul punto di domandarle retoricamente se un po’ di riposo avrebbe per caso migliorato la qualità del suo lavoro. Già, in quei giorni era stata distratta, chissà perché. – Ti ho portato questo… Lo sai che Beverly non vuole che si mangi in ufficio… e che tu ti debba uccidere di lavoro… - mormorò lanciando sulla scrivania un sandwich sgraffignato dalla mensa, mentre Naz si affrettava a rassettare la confusione che lei aveva creato addormentandosi sulla scrivania: afferrò con decisione un paio di documenti plastificati facendo finta di leggerli per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Malcom, ignorando il panino. – Grazie, ma devo assolutamente finire di sistemare i moduli che il sindacato ha inviato… - in realtà non aveva la più pallida idea di ciò che doveva fare in quel momento, le idee confuse da sogni inquieti. Era una semplice scusa campata in aria per liberarsi del collega che, sospirando, lasciò l’ufficio subito dopo: voleva stare da sola.

 

Si ritrovò a passare lo sguardo sulla stessa riga più e più volte senza comprenderne il significato, soffermandosi sulla forma delle lettere stampate su di essa. Per quanto si costringesse a porre concentrazione sul lavoro, Naz non era in grado di scappare dai pensieri che la rincorrevano assalendola con migliaia di dubbi. Sbuffando sonoramente, si allontanò dalla scrivania con un colpo secco delle mani sul bordo liscio, prima di portare le dita alle tempie tentando di rilassarsi con un massaggio: niente, il mal di testa e tutti i motivi della sua inquietudine non accennavano a passare. La sua immagine non abbandonava i suoi pensieri, insistente compariva nel buio in cui cercava di chiudere la sua mente. Quello che avrebbe dovuto essere il suo pranzo rimase dimenticato in un angolo remoto della scrivania: il suo stomaco era chiuso dall’angoscia che a piccole dosi avvelenava il suo sangue. – Naz, ho bisogno del rapporto sui costi di produzione entro stasera… e di un caffè bello forte, quello subito. – la voce acuta e fredda di Beverly servì da sveglia alla donna, piombata di nuovo in uno stato catatonico di riflessione. Senza proferire parola, abbandonò al scrivania per dirigersi alle macchinette in fondo al corridoio, grata al brusio delle voci negli uffici e dello squillo dei telefoni che confondevano le parole che vorticavano nella sua testa. Attese paziente che la macchinetta emettesse i suoi trilli meccanici e i suoi sbuffi, mentre il caffè del capo si riversava bollente nel bicchierino: erano quelli i dettagli su cui poneva attenzione Naz, appoggiata al muro bianco con gli occhi rivolti al soffitto, inespressiva.

 

- Pronto, ufficio della signorina Beverly Johnson, in che cosa posso esserle utile? – non s’accorse nemmeno d’aver fatto ritorno alla scrivania, la penna in mano e la cornetta del telefono in bilico fra il suo orecchio e la spalla mentre cercava di occuparsi di tutto contemporaneamente. Beverly alzò a malapena lo sguardo, come al solito felice che Naz s’occupasse delle persone fastidiose che la cercavano tramite quella macchinetta infernale che le provocava sempre fastidiose emicranie. – Chiamo dall’accettazione, cerco la signorina Naz Kurt. – la voce apatica dell’impiegata appostata all’ingresso del palazzo giunse fastidiosa alle orecchie della donna, che sistemò alla meglio la scomoda posizione che aveva assunto per poter adempiere a tutti i suoi compiti. – Sono io. Mi dica. – esclamò schietta, scribacchiando poi una nota a piè di pagina del rapporto bramato da Beverly che lei compilava al posto suo. Probabilmente erano arrivati i nuovi materiali per l’allestimento dei set televisivi, e lei sarebbe dovuta scendere a trattare con un rozzo magazziniere: meglio così, l’avrebbe tenuta impegnata. – C’è una persona che chiede di lei… Dice di essere un certo Saul Hudson, e che deve parlarle con urgenza. Devo mandarlo su? – alle prime parole pronunciate con noncuranza dall’impiegata Naz lasciò cadere una risma di fogli che aveva appena preso da sotto la scrivania: la carta si sparse sul pavimento con fruscii e tonfi, creando un’isola bianca attorno alla sedia su cui stava seduta. – Può ripetere il nome? – balbettò senza curarsi del disastro che aveva appena combinato e del suo capo che attraverso le lenti degli occhiali la fissava sospettosa. – Saul Hudson… è molto insistente. Devo lasciarlo salire? – ripeté sbuffando la voce dall’altro capo del telefono, soffocata dai rumori della vita laboriosa del palazzo. – No… No, arrivo subito, gli dica di attendere – con violenza riattaccò il telefono nero, restando immobile per pochi secondi prima di precipitarsi a raccogliere i fogli sparsi sul pavimento. – Chi era? – il tono usato da Beverly suonava indifferente, ma era palese che avesse capito che qualcosa aveva scombussolato la sua assistente, che nascondeva la faccia dietro il legno della scrivania.

 

- Nessuno! Solo… il gestore dell’ufficio delle assicurazioni… con i dettagli sull’incidente del tubo che ha allagato il piano. Ci metterò pochissimo… - la rassicurò con voce nervosa, conscia del fatto che Beverly non sarebbe cascata a nessuno delle sue bugie raccontate in maniera pessima ma che forse le avrebbe concesso di andarsene comunque. La donna infatti replicò con un suono gutturale e gli occhi fissi su chissà quale documento, lasciando intendere che le concedeva una manciata di minuti. Naz si rialzò quasi inciampando nei propri passi, prima di uscire con passo svelto dall’ufficio ed andando a sbattere contro un paio di uomini in giacca e cravatta che discutevano amabilmente delle ultime azioni in Borsa. Reputandosi fortunata di essere arrivata sana e salva all’ascensore, Naz premette in fretta i tasti per il piano terra prima di concedersi un respiro profondo che non servi a calmarla. Cosa voleva Slash ora? Forse scusarsi per l’incidente di qualche tempo prima per la loro litigata… forse, come uno squallido giochetto da elementari, era venuto in qualità di ambasciatore del suo compagnone… Avrebbe dovuto liquidarlo con poco per potersela filare prima di rischiare un collasso a causa dei suoi nervi tesi: ogni dettaglio di quella situazione intricata, del labirinto in cui s’era addentrata minacciava di mandarla fuori di testa. Ogni acuto suono dell’ascensore che scendeva di piano in piano la faceva sussultare, spaventata quasi da ciò che la divideva dall’amico in visita: i ricordi della notte passata tornava ad intervalli regolari di pochi secondi nonostante tentasse di trovare interessante le forme e la luce dei pulsanti dell’ascensore. In più, i mille e mille pensieri che la rodevano la spingevano sempre di più verso la confusione totale: uno strano senso di nausea la investì quando rilevò, fra le tante sensazioni, l’incredibile delusione per non aver udito un altro nome, ben più minaccioso di quello del chitarrista.

 

L’atrio era immerso nella confusione più totale di centinaia di uffici di svariate aziende: gruppetti di uomini e donne in completi discutevano fra loro, dipendenti con cartelline sottobraccio facevano avanti e indietro con espressioni paranoiche e nervose, i centralini dell’accettazione erano impazziti. Il ticchettio dei suoi tacchi sul marmo lucido e scuro si disperdeva nell’intreccio dei rumori che il lavoro produceva, mentre osservava l’ambiente attorno a lei alla ricerca di una folta massa di ricci neri. Le teste che poteva vedere erano tante, ma nessuna corrispondeva a quella di Slash, nonostante continuasse ad addentrarsi nella folla di gente: quella ricerca inaspettata di un suo segno la rese ancora più alterata di prima, mentre uno strano nodo le bloccava la gola. – Ehi, tu! – lo sapeva. Lo sapeva ancora prima di sentire la sua voce chiamarla con sottile ironia, alle sue spalle. Lo sapeva da quando era uscita dall’ascensore traballante su quei tacchi maledetti senza vedere la chioma cespugliosa di Slash, forse anche da prima quando al telefono le avevano comunicato che una persona chiedeva di lei. Il sorriso di Izzy era largo e rilassato mentre la donna si voltava di scattò in sua direzione, quasi colpendo un’impiegata di passaggio che le lanciò un’occhiata di sbieco. Eccolo lì, con i suoi vestiti da rockstar e le mani curiosamente dietro la schiena, che la guardava sfidandola ad andarsene e a lasciarlo lì: l’espressione del suo viso era ebbra di soddisfazione, probabilmente per via della vista della faccia sbalordita di Naz. Lo sapeva che al posto dell’amico c’era lui ad attenderla in quel salone caotico: lo sapeva e, nonostante l’eco nella testa che ripeteva ostinato un “No, no, no!”, addirittura ci sperava.

 

- Cos’è quella faccia? Ti aspettavi forse di vedere Slash? – come se le avesse letto nel pensiero, Izzy si fece largo fra le persone che lo dividevano dalla donna, immobile a pochi passi da lui: l’ombra attorno all’occhio sinistro lasciava ad intendere che fosse reduce da una rissa. – Sai, mi ha picchiato quando ieri notte sono tornato all’albergo e gli ho spiegato cos’era successo. Credo se lo aspettasse, era fermo davanti alla mia camera… - per Naz era inaccettabile notare tutta la tranquillità che trasudava il viso dell’uomo mentre si avvicinava, spiegandole in tono amabile gli ultimi fatti che gli erano accaduti come se nulla di strano fosse successo tra loro. Si sentiva però improvvisamente fuori combattimento, senza nessun motivo spiegabile fin da subito, il dono della parola improvvisamente perso. – Ti ho portato questa. So che non è il massimo dell’originalità, l’ho comprata cinque minuti fa in un negozio poco lontano da qui… per trovare un parcheggio credo di aver provocato un incidente, perciò cerca di godertela. – e con un sorriso sghembo tolse la braccia da dietro la schiena scoprendo un’unica rosa rossa avvolta in carta trasparente, porgendogliela. La donna spostò lo sguardo da Izzy al fiore, allibita: che fine aveva fatto l’uomo che aveva riconosciuto davanti all’asilo di suo figlio, nervoso, pentito, triste? Chi era quell’Izzy che gli sorrideva conscio dell’incapacità di ribattere alle sue frasi divertite che l’aveva colta alla sprovvista? Improvvisamente, ritrovò davanti a lei il ragazzino spigliato e con la vena di mistero che aveva conosciuto circa sei anni prima, quello con cui aveva fatto l’amore sotto un porto abbandonato dove erano stati presi in giro dai loro amici. Era lì, di nuovo a sorriderle come la prima volta. Ed era incredibilmente merito suo, di quel bracciale, che in quel momento tintinnava ancora al suo polso, indossato in modo così naturale che quella notte aveva rievocato Izzy. L’uomo espanse il proprio sorriso in modo radioso, chinandosi verso di lei per sussurrarle – Hai perso la lingua? -.

 

Ed anche Naz sorrise, sorrise in un modo tale da far dolere i muscoli del viso a digiuno della felicità che ora li animava: la sua mano s’innalzò per afferrare il gambo delicato della rosa, stringendola prima di portarla lentamente verso di sé. Izzy le si avvicinò ancora, incurante degli sguardi dei curiosi o delle persone che lavoravano con Naz e che la vedevano con quell’espressione sul viso, quella che concedeva al mondo rare volte. – So che ho sbagliato. Ti prego, credimi quando ti dico che so di essere stato un bastardo a lasciarti da sola… a lasciarvi da soli. E mi dispiace. Sul serio. Ma devi concedermi una seconda possibilità, perché posso essere un buon padre per Danny… e per quanto sia difficile da credere, ho sempre pensato a te. Sempre. Ecco, un prova di tutto questo è il fatto che sono qui a dirti queste cose smielate che sicuramente stanno per farti vomitare. Ti conosco. – nessuno dei due riuscì a reprimere una risatina nervosa alla battutina, forse un po’ fuori luogo ma reale, di Izzy, prima che questo prendesse il viso della donna fra le mani, avvicinandolo al proprio – Ti conosco. Non ti chiedo tutto e subito, perché non riesco nemmeno io ad accettarlo, non ancora. Però, concedi una seconda possibilità… a noi. Vada come vada, almeno ci avremmo provato. – e fu così che Naz cedette, come creta nella mani di un Izzy raggiante quando nell’espressione della donna comparve quell’accenno di arrendevolezza da cui comprese tutto. E, veloce come il vento, posò le proprie labbra sulle sue completamente indifferente alla folla, alle persone che li guardavano fra lo stupore e la commozione, agli amici che non avevano idea di ciò che stava accadendo, al mondo che li fissava indiscreto. Le loro bocche si schiusero in un bacio mozzafiato, senza che nessuno incontrasse resistenza da parte dell’altro: Naz, la rosa stretta in una mano, s’irrigidì soltanto per quei pochi secondi che le ci vollero per capire che forse c’era un modo, una soluzione giusta per tutti, prima di abbandonare le braccia lungo i fianchi. Era impotente davanti alla potenza dei loro sentimenti.

 

- Ci vorrà tempo… - e, rapido com’era cominciato, quel bacio finì mentre le braccia calde ed accoglienti di Izzy la stringeva in un abbraccio che esprimeva loro stessi più di mille parole. Il mormorio confuso della donna, che ancora non si rendeva pienamente conto di ciò che era successo, si perdeva nella forza di quel contatto. – Ci vorrà tempo… - si trovò a ripetere fra sé e sé passando le mani sulla schiena forte dell’uomo, mentre una tessera del puzzle complicato della sua vita che da anni cercava sembra andare al suo posto. – So aspettare… Posso aspettare tutta la vita, se necessario – la rassicurò Izzy allontanandosi di poco da lei per poterla guardare meglio, splendente di quello che, tradotto dal linguaggio segreto della donna che aveva di fronte, equivaleva ad un “sì”: aveva avuto anni per imparare il doppio significato di parole e gesti. E, mentre il mondo continuava a vorticare attorno a loro e le persone continuavano a vivere, sentirono che qualcosa finalmente era cambiato: la strada davanti a loro era tortuosa, ma al termine di quel sentiero c’era Daniel, il loro stupendo bambino, e una vita, se non completamente felice, serena… ci avrebbero provato. E, se anche tutto non fosse andato secondo i loro desideri, almeno avrebbero potuto gridare di aver fatto un tentativo. – Ci vorrà tempo, e io adesso devo scappare a lavoro e… - di sicuro Naz non avrebbe demorso alle prime difficoltà: la forza sul suo viso era pari a quella che concentrava per sfuggire all’imbarazzo di una gioia grande, cristallina. Izzy rise, prima che un’idea balenasse nella sua testa come un fulmine a ciel sereno.

 

- Ti lascerò tutto il tempo per riflettere, tutto quello che ti servirà – fu esclamando quelle parole per sovrastare i rumori della massa di persone che li circondavano ch s’inginocchio, prendendo la mano ad una sbalordita Naz. – Ma tu concedimi una cosa, una sola. L’anello te lo comprerò, vedrai, sarà il più bello che tu abbia mai visto! – le persone attorno a loro osservavano l’uomo improvvisamente serio in volto che fissava con ardore la donna davanti al quale era inginocchiato, che stringeva la rosa rossa come se fosse stato il fiore più prezioso del pianeta. Nessuno seppe dire cosa fosse stata la scarica elettrica che si propagò per la stanza, fino a raggiungere tutto il mondo, dal punto in cui le loro mani era unite. Nulla più importava… Christie, Duff, Slash, Ebony, Justin, Victoria, Steven… forse persino Axl, un fumoso ricordo che forse avrebbe avvelenato ancora i loro animi ma che in quel momento era lontano mille miglia: tutti sorridevano attorno a loro, presenti in qualche modo. – Vuoi sposarmi? – parole magiche che parvero gettare il silenzio attorno a loro, gli occhi incatenati da migliaia di promesse non dette che forse non sarebbero andate mantenute, forse sì. C’erano infinite porte aperte per loro in quel tortuoso cammino: ci sarebbe voluto tempo per percorrerlo fino in fondo, ma entrambi avevano imparato ad aspettare. Naz si perse nella contemplazione del viso che, inutile ormai negarlo, le era mancato, che aveva rimpianto, che aveva odiato, amato e che ora più che mai vedeva nel suo futuro: le parve di udire la risata angelica di suo figlio in lontananza. – Ma fottiti – mormorò ridendo leggera, alla vista del cipiglio scherzoso che Izzy adottò dopo aver perso anche il briciolo di serietà che aveva cercato di mantenere. La fissò allontanarsi, girarsi di tanto in tanto verso di lui con quel sorriso spontaneo in faccio, forse non ancora sicuro, ma speranzoso. La trovò bellissima anche quando per poco non rovinò a terra a causa di quei tacchi che la faceva dannare, pensando che in ascensore li avrebbe tolti e avrebbe riso di lui. Aveva sempre saputo che avrebbe risposto così.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ragazze, la storia è finita! THIS IS THE END! Non ci posso credere, la mia prima storia completa! Spero di non aver fatto un finale troppo puccioso o romantico, dopo vari ripensamenti ho deciso di regalare una specie di lieto fine a Naz e ad Izzy con questo capitolo solo per loro. Forse non succederà nulla di speciale, ma almeno ci proveranno ;) buahaha adesso scoppio a piangere! No, non è vero u.u okay, la storia si conclude qui, però per non uccidervi con questo trauma (-.-) prima di schiacciare il pulsante “Incompleta/Completa”, voglio regalare a tutte voi un piccolo epilogo e i dovuti ringraziamenti! Quindi invito tutti a recensire, sia coloro che lo fanno sempre, sia chi non l’ha mai fatto, per farmi sapere i vostri pareri: vi anticipo un enorme GRAZIE, anche se nell’epilogo lo farò a dovere ;)

 

AmyHale: Tu! Sei una fedifraga! Sappi che da adesso odio tua cugina per averti impedito di leggere l’ultimo capitolo di questa lunghissima storia! Scherzi a parte -.- non ci posso credere! È finita! La mia vita non ha più senso adesso, anche se beh, si devo scrivere dell’altro… non mi fermo qui! E tu lo sai, sai tutto te! ;)

 

Miss_Rose: Grazie ;) è finita, e tu si dall’inizio mi hai supportato e non sai quanto i tuoi commenti mi abbiano fatto piacere man mano che la storia prendeva vita! Direi che “Lemony Snicket” è un paragone perfetto per le vicende della povera Naz, che se potesse prendere vita mi prenderebbe a calci, lo ribadisco, anche se vi lascio con questo finale che presuppone un lieto fine… la fine vera e propria, potete immaginarla voi! Grazie di cuore!

 

Sylvie Denbrough: l’ho già detto, ma lo ripeto J adoro le tue recensioni chilometriche! Grazie anche a te per i complimenti e per il sostegno, farò tutto per bene nel prossimo chappy! E invece, a dispetto delle vostre aspettative, la telefonata a vuoto di qualche capitolo fa è stata l’uscita di scena di Axl, anche se nell’epilogo… beh, non anticipo nulla, nessuno (nemmeno le mie fidate consigliere) sa di cosa tratterà l’ultimo briciolo di questa storia! Godetevelo ;)

 

aivlis8822: è stata dura per Naz, ma si può dire che ce l’ha fatta! Avevo pensato ad un finale triste, poi ad uno del genere “felici e contenti”, poi ho optato per la più realistica via di mezzo e qualcosa per sdrammatizzare tutto! Spero solo di essere riuscita a rendere la mia idea ;) ahah, mettiti in fila, ci sono un bel po’ di persone che vorrebbero adottare Daniel, la sottoscritta compresa xD Grazie anche a te!

 

GioTanner: tranquilla, non muoio per una recensione mancata ;) comunque non devi pensar male della tua scrittura, anche tu sei molto brava a rendere reali i personaggi della tua storia! Accetto comunque i bei complimenti, anche se non credo di meritarli: ci sarà un ringraziamento per tutte nell’epilogo! Intanto grazie delle belle recensioni e del supporto J

 

LovelyLu: Izzy ha fatto la cosa giusta, era ora che dopo quattro anni si assumesse le sue responsabilità!... il bello è che parlo come una lettrice nonostante sia l’autrice della storia, prova della mia pazzia xD comunque ti assicuro che non merito così bei complimenti: devi innalzare il tuo livello di autostima, bella, perché scrivi benissimo! ;) Grazie per avermi sostenuto fin dall’inizio!

 

Al prossimo (ed ultimissimo) capitolo!

Bye!

 

 

 

  
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