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Autore: Macchia argentata    15/11/2010    19 recensioni
Fanfiction breve, di soli tre capitoli autoconclusivi, ambientati in diversi spazi temporali all'interno della vita di Oscar e Andrè. Leggibili singolarmente ma legati tra di loro da un unico filo conduttore: cosa spinge Oscar, nel corso degli anni, a cercare conforto sempre nello stesso luogo, la stanza di Andrè?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Luce 3 Tu eri nel centro del mio cuore,
perciò quando il mio cuore vagava
non riuscì mai a trovarti;
ti sei nascosto ai miei amori e speranze
fino all’ultimo, perché fosti sempre in essi.

Tu eri la gioia più profonda
nel gioco della mia giovinezza,
e quando fui troppo occupato dal gioco,
la gioia era passata.

Tu cantavi nelle estasi della mia vita,
e io dimenticai di cantare per te.
(Nazim Hikmet)


Giugno 1789


Le candide tende ondeggiavano leggere, mosse dalla tenue brezza che spirava esiguamente dalla finestra spalancata, mentre il sole del tardo pomeriggio allungava i suoi raggi sulle lucide piastrelle del pavimento, illuminando fiocamente la punta delle mie scarpe. Stesi le gambe e osservai la calda luce ambrata risalire lungo le mie calze, fin sotto il ginocchio; le ritrassi, e l’oscurità della penombra tornò ad avvolgermi completamente. Appoggiai stancamente la testa alla testiera della poltrona su cui ero adagiata, e osservai distrattamente l’alto soffitto a cassettoni della mia stanza.
Fuori dalla finestra, il canto melodioso degli uccelli e il profumo dell’estate sembrava suggerire che nulla era mutato dall’estate precedente, e da quella prima ancora… e che mai lo sarebbe stato. Le stagioni si sarebbero sempre susseguite conservando le medesime caratteristiche, le identiche certezze, quasi a voler indicare un percorso, una sorta di eterna continuità, a cui tutti avrebbero dovuto accostarsi, per non dover andare incontro, anno dopo anno, a dolorosi cambiamenti e strazianti verità.
Mi portai una mano sugli occhi, cercando in quella lieve freschezza un refrigerio per i miei occhi affaticati.
Il caldo era insopportabile.
La febbre non mi dava tregua, ricordandomi, giorno dopo giorno, quanto quel male che avrei potuto arrestare mesi prima, con una cura mirata, stesse lentamente progredendo, corrodendomi senza fretta. Lo sentivo bruciare sulla fronte e sulle gote arrossate; lo percepivo in quel respiro bollente e affaticato, che fuoriusciva doloroso dalla cavità tonante che era ormai divenuta la mia cassa toracica; lo riconoscevo nel sapore del sangue che mi impastava il palato, e che ero costretta a sputare nei candidi fazzoletti che Nanny ogni giorno lavava e piegava per me, osservando quelle macchie scarlatte sbocciare come macabri fiori carichi di veleno, un veleno che impregnava i miei polmoni e consumava ogni giorno di più quel corpo devastato.
Mi sfregai gli occhi ed emisi un sospiro, prima di sollevare il volto e osservare fiaccamente quanto mi circondava. Le tende avevano smesso di frusciare, e la mia stanza era ripiombata in quella apatica ed opprimente immobilità in cui erano vagati i miei pensieri nell’ultima mezz’ora, senza che tuttavia trovassi in me la forza di agire e scuotermi di dosso quel torpore.
Il mio sguardo si posò su un vaso di fiori freschi posati sopra al pianoforte, da cui si era appena staccato un petalo che volteggiando brevemente si era poi adagiato sui tasti, restando il bilico tra un do e un si bemolle. Quel lieve movimento aveva suscitato in me, per un breve istante, il desiderio di sollevarmi da quella poltrona per sedermi allo sgabello del piano e sfogare sui suoi tasti, compagni fedeli di tante notti insonni, parte di quel dolore e quella frustrazione che opprimevano il mio animo. Ma un altro particolare catturò il mio sguardo in quel momento, e mi portai involontariamente una mano al cuore, quasi a voler inconsciamente schiacciare quel male che vi avvertivo .
La mia uniforme, abbandonata a terra, evocò nei miei pensieri i contorni di un volto, un volto tanto familiare che avrei potuto tracciarne il profilo anche ad occhi chiusi. Un volto che in quel momento mi era tanto caro quanto mai nulla lo era stato, e che avrei voluto disperatamente poter scorgere tra le ombre di quella soffocante e immobile stanza, in quell’istante.
Ma sapevo bene che quel desiderio sarebbe stato destinato a rimanere inappagato, perché Andrè non viveva più in quella casa, e cercare la sua presenza in un allegro vociare proveniente dalle scuderie o in un sommesso bussare alla mia porta era divenuto ormai uno scherzo beffardo in cui, me ne rendevo conto, scivolavo inconsapevolmente più spesso di quel che avrei voluto.
L’altra mano, abbandonata sul bracciolo della poltrona, si strinse con forza alla stoffa damascata che lo ricopriva, mentre le mie nocche sbiancavano. Mi portai le dita alle labbra, ticchettando nervosamente il labbro superiore con la punta dell’indice, e richiamando a me il momento del commiato in caserma, quel pomeriggio.
Il sole picchiava come pioggia di fuoco nella piazza d’armi, e avevo dovuto allentare leggermente il colletto dell’uniforme, nel vano tentativo di riuscire a respirare regolarmente. Ma nonostante la vampa estiva, il mio corpo era continuamente scosso da brividi di freddo, e gocce di sudore gelato mi imperlavano le tempie e il collo. Il cavallo aveva percepito il mio disagio, e si muoveva ora nervoso, costringendomi ad un maggior autocontrollo, mentre lo trattenevo per le briglie e scrutavo i soldati in fila davanti a me.
Mi stupivo sempre di quanto il suo volto risultasse totalmente estraneo a quello dei compagni che lo circondavano. I lineamenti eleganti, i folti capelli corvini, gli occhi di smeraldo gli conferivano indubbiamente del fascino, ma non era la sua bellezza ad attirare la mia attenzione, e a spiccare in quella massa di volti rozzi, impazienti e arrossati per il caldo. C’era in lui una sorta di pacatezza, di serena rassegnazione, che gli permettevano di rimanere immobile, sull’attenti, anche in una giornata infernale come quella. Era quella tranquillità, quella calma esteriore, quella silenziosa quiete con cui Andrè affrontava tutti i compiti da me assegnati, che mi affascinava e mi faceva guardare verso di lui sorpresa, quasi rendendomi conto solo in quei momenti, tra tutti quei soldati, quanto lui fosse diverso e…speciale.
Avevo impartito le direttive per il giorno seguente, dopodiché li avevo congedati, lasciandoli liberi di tornare ai propri alloggi.
Mentre le fila si rompevano, e ognuno prendeva la propria direzione, ero rimasta immobile nel mezzo del cortile, stringendo le briglie tanto forte da lasciare impressi i segni del cuoio sui miei guanti sudati. I miei occhi erano rimasti inchiodati alla sua schiena, in quella folla di giubbe identiche, e avevo visto la mano di Alain salire a dargli due pacche sulla spalla, dopo avergli mormorato qualcosa all’orecchio. Andrè aveva riso, lo avevo capito dal leggero sussultare delle sue spalle. Avevo immaginato le sue labbra scoprire i denti perfetti, le sue iridi luccicare divertite, e mi ero sentita esclusa, mentre una lieve fitta di gelosia si insinuava in me: volevo essere io la persona con cui Andrè rideva e scherzava, proprio come era stato un tempo, proprio come era sempre stato…
Invece mi toccava indugiare immobile ed impassibile alle sue spalle. Ero il suo comandante…
E la donna che lo aveva rifiutato. Che tipo di pretese potevo rivendicare su di lui?
Nessuna. Nemmeno quella di chiedergli di tornare a casa con me, quella sera.
Pochi istanti prima di varcare la porta della caserma, Andrè aveva lasciato che Alain lo precedesse, e si era voltato verso di me. I nostri occhi si erano incontrati, sotto a quel sole cocente, e avevo scorto la profondità di quell’abisso, in quell’unica iride color smeraldo, l’abisso oltre il quale ci scrutavamo da mesi ormai, da sponde opposte.
Come avevo potuto lasciare che quella distanza diventasse tale? Come, adesso che ogni suo sguardo significava per me gioia e dolore?
Una colomba era passata in volo sulle nostre teste, ombreggiando per un breve istante il volto di Andrè, ma il suo sguardo era rimasto incatenato al mio. Avrei voluto sapere cosa vedeva in quel momento: un altero comandante in sella al suo destriero, immobile nella vampa estiva, o una donna innamorata a cui mancava il coraggio di spingersi oltre un limite che un tempo aveva giurato non avrebbe mai varcato?
Aspettavamo entrambi un segno, che a quel punto, ero sicura, sarebbe dovuto provenire dalla mia direzione. Ma la paura era sempre stata una cattiva consigliera, e le vecchie abitudini erano più dure a morire di quel che avrei immaginato. Il mio sguardo aveva assunto una sfumatura tetra, e l’incantesimo si era spezzato, ancor prima che qualcuno di noi provasse a fare o dire alcun che.
Mi ero morsa le labbra, e Andrè mi aveva sorriso, un sorriso velato di amarezza, prima di sollevare indice e medio alla fronte, nel saluto militare, e sgusciare nell’ombra offerta dal portone della caserma, lontano dalla mia vista.
Avevo cavalcato lentamente fino a casa, avvertendo sulle spalle tutto il peso e la stanchezza di quella solitudine che mi gravava addosso da mesi ormai; da quando la sua nuova residenza era diventata quella lugubre caserma e le nostre occasioni di parlare si erano ridotte a pochi scambi di battute, fredde e misurate, all’interno del mio ufficio, se andava bene, davanti a tutti gli altri soldati, se andava come sempre.
Ora, abbandonata su quella poltrona, pensavo a lui, ai suoi occhi del colore dei prati, a quelle sue labbra che sembravano dipinte da un pittore rinascimentale, e impazzivo nel ricordo di come si erano posate sulle mie, con forza e disperazione, e di quanto con altrettanta forza e disperazione le avevo allontanate, allora, perché non avevo capito niente. Niente di niente.
Con la poca forza trasmessami dalla rabbia mi levai dalla poltrona. Rimanere in quella stanza a crogiolarmi nella mestizia mi pareva un comportamento assai poco dignitoso, e negli ultimi tempi dovevo ammettere di aver dato sempre più peso a questo lato di me così profondamente malinconico, da non poterne quasi più.
Ero sempre stata una persona d’azione, e sebbene la malattia avesse sottratto molte di quelle forze con cui solitamente mi rialzavo dopo una caduta, e l’assenza di Andrè dalla mia vita ne avesse prosciugate le rimanenti, mi restava ancora il rispetto per me stessa, e non avrei permesso alla mia dignità di compatirsi un secondo di più.
Afferrai da una poltrona una giacca qualsiasi. Una buona cavalcata mi avrebbe rimesso in sesto. Avevo bisogno di sentire l’aria fresca sulle mie gote accaldate, e di allontanarmi da quella casa e dal suo cupo silenzio.
Scesi nel salone, ma decisi di uscire da una delle porte sul retro, per non dovere nessuna spiegazione se casualmente mi fossi imbattuta in qualcuno. Attraversai il lungo corridoio che portava alle cucine e alle stanze della servitù, e senza che me ne rendessi conto, mi ritrovai davanti alla porta della sua stanza.
Le mie gambe si fermarono, e indugiai qualche istante.
Quante volte avevo attraversato quella porta, nel corso della mia vita? E quante volte avevo mentito a me stessa, dicendomi che passavo dal retro per non dare nell’occhio, mentre in realtà si trattava di una scusa per coinvolgere anche Andrè? O semplicemente, di una scusa per rifugiarmi all’interno di quelle quattro pareti in cui potevo lasciare fuori tutto il mondo, meno l’unica persona che non avrei mai voluto che mi lasciasse…
Le dita della mia mano destra si sollevarono in un riflesso involontario, per posarsi sulla lucida e fredda maniglia in ottone.
Era amore. Era sempre stato amore. Come avevo potuto essere tanto cieca?
Abbassai la maniglia e la porta si aprì con un leggero cigolio sulla sua stanza in penombra.
Per un breve istante mi sembrò quasi di scorgere, tra la luce e l’ombra che si mescolavano in un chiarore soffuso di pulviscolo, Andrè, bambino, che giocava con i soldatini seduto su quel liso pavimento, e la mia mente mi riportò a tanti anni prima, ad una vita che aveva il sapore delle fragole mature e il profumo dell’erba tagliata.

Aveva sollevato i suoi grandi occhi verdi su di me, stupito.
“Oscar…Che ci fai qua?” nella manina destra teneva un pezzo di legno grezzo, in cui si percepiva il lieve abbozzo di un volto e di una divisa.
“Cosa fai Andrè?”
“La guerra.”
“Ma hai solo due soldati…”
Andrè aveva osservato imbarazzato i due pezzi di legno in cui aveva provato a intagliare i volti e le uniformi dei soldati della guardia, che avevamo visto in parata qualche settimana prima.
“Beh…”
“Andrè, guarda cosa ti ho portato!” Avevo varcato sulla soglia, su cui ero rimasta ad osservarlo, e mi ero avvicinata a lui, mostrandogli la scatola di latta che conteneva la mia intera collezione di soldatini di piombo. Gli occhi di Andrè avevano brillato nello scorgere quei giocattoli, giocattoli che lui non aveva mai avuto e che nemmeno si era immaginato potessero esistere in quella perfezione.
“Questo è mio padre…” avevo esclamato, estraendo dalla scatola un soldatino con la stessa uniforme che vedevo sempre indosso a mio padre, e la sua stessa parrucca bianca.
Andrè l’aveva preso con mano incerta, osservandolo ammirato.
“Questo è un ufficiale di cavalleria, e questo è un commodoro…E questo, questo sono io!”
Gli avevo porto un soldatino che indossava una fiammante divisa rossa.
Andrè l’aveva fissato dubbioso.
“Tu non hai i capelli bianchi…” Era stato il suo unico commento.
“Li avrò. Un giorno indosserò quella divisa, avrò i capelli bianchi come mio padre e andrò a fare la guerra!” Avevo esclamato, orgogliosa.
Andrè mi aveva sorriso.
“E io posso venire con te?”
“Certo! Sarai il mio braccio destro…Puoi essere questo soldato semplice, se vuoi.” mi ero seduta al suo fianco e avevo ribaltato la scatola di soldatini a terra; gli occhi di Andrè brillavano di gioia.    
“Adesso giochiamo?”


Il ricordo di Andrè evaporò davanti ai miei occhi, confondendosi  con le particelle di pulviscolo atmosferico che danzavano tra i soffusi raggi solari che penetravano dagli scuri accostati, e mi lasciarono vedere quella stanza per ciò che realmente era: vuota.
Varcai la soglia e mossi qualche passo al suo interno. La pesante cassettiera in mogano appoggiata alla parete, il semplice letto accuratamente rifatto, il piccolo armadio in cui Andrè riponeva i suoi pochi abiti, il secretaire su cui erano appoggiati un vecchio pennino, un calamaio e una pila di libri. Tutto era come l’aveva lasciato, e tutto sembrava suggerire che sarebbe potuto rientrare da un momento a quell’altro, se non fosse stato per quel sottile velo di polvere che ricopriva inesorabilmente ogni cosa. Mi accostai al comodino a fianco del letto, e feci scorrere un dito sul dorso del libro che vi giaceva sopra, unico elemento se si escludeva una candela quasi consumata.
“Candido, Voltaire” mormorai, mentre dalle mie dita si alzava un ricciolo di polvere. Sollevai la copertina rigida, e notai una piccola annotazione proprio sopra al frontespizio, scritta con la grafia precisa ed elegante di Andrè:
‘Che cos'è quest'ottimismo?" dice Cacambo. "Ah - risponde Candido - è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male’.
Pensierosa, sedetti sul letto con il libro e ne sfogliai distrattamente le pagine. Inspiegabilmente, quella innocua annotazione aveva risvegliato in me una sorta di morbosa curiosità per tutto ciò che non sapevo di Andrè che, con molta presunzione, avevo sempre ritenuto di conoscere meglio delle mie stesse tasche.
Ma quanti aspetti mi ero persa di lui nel corso degli anni, impegnata com’ero a inseguire la chimera di una perfezione che non avrei mai raggiunto?
Le mie mani si fermarono su una pagina segnata, in cui notai delle sottolineature fatte a matita, e uno strano sentimento di tristezza si impadronì di me, mentre scandivo, nel silenzio di quella stanza, parole in cui si era sicuramente riconosciuto il suo animo, tempo addietro, e in cui in quel momento si riconosceva anche il mio:

‘Ho voluto uccidermi cento volte; ma amavo ancora la vita.

Questa debolezza ridicola è forse, delle nostre inclinazioni la più funesta.
Perché vi è nulla di più ridicolo che di voler portar continuamente un fardello, che si vorrebbe ad ogni momento buttar giù? Di aver in aborrimento la propria esistenza, e di non poter distaccarsene? D'accarezzar finalmente il serpe che ci divora, finché non ci abbia mangiato il cuore?’

“Oh, Andrè…” mormorai, guardando per la prima volta quella stanza con occhi nuovi.
Per anni vi ero entrata trascinandomi dietro rabbia e frustrazione, gioia e dolore, voglia di evasione e bisogno di tenerezza…
Ma non avevo mai guardato realmente ciò che mi circondava.
Lasciai vagare lentamente il mio sguardo: il fioretto che gli avevo regalato quando eravamo bambini appeso ad un chiodo proprio sopra al suo letto; il catino di porcellana sulla mensola vicino alla finestra, affiancato da uno specchio ovale e scrostato, un pennello da barbiere e un consunto rasoio; le sue scarpe ‘buone’, due sole paia, ordinatamente allineate davanti all’armadio; un piccolo quadretto con una vecchia litografia di Arras.
Tutto ciò che gli apparteneva parlava di lui, e anche la mia presenza, in quel momento, spiegava in qualche modo qualcosa: anche io gli appartenevo, ed era perciò giusto che stessi lì.
Quello era il mio posto. Lo era sempre stato.
Appoggiai il libro e mi sollevai dal letto. Sfiorai con le dita la grossa cassettiera in mogano, un vecchio pezzo d’arredamento che se non fosse finito nella stanza di Andrè sarebbe diventato legna da ardere. Aprii il primo cassetto e lasciai scorrere le dita sulle sue camicie, ordinatamente piegate e riposte con cura dalla perseverante Nanny. Il mio sguardo si posò sulle calze e sui foulard, e indugiò su quelli che riconobbi come i suoi unici pantaloni da cerimonia. Velluto verde e broccato, ricordavo ancora le poche volte che glie li avevo visti addosso, ma soprattutto ricordavo le battute che Andrè aveva fatto di sé stesso mentre il sarto gli prendeva le misure e la cara Nanny si umettava gli occhi con il bordo del fazzoletto, commossa.

“Il mio bambino, guardate com’è bello! Sembra un vero gentiluomo!”
Andrè, in piedi su uno sgabello, aveva sbuffato, completamente ricoperto di scampoli di tessuto, le braccia allargate, mentre il sarto gli misurava la circonferenza toracica con un centimetro.
“La metamorfosi sta avvenendo…ecco a voi Andrè Grandier trasformato in uno spocchioso damerino. Che dici, Oscar, dovrei procurarmi anche un parrucchino e un neo finto per essere più credibile mentre, a gambe accavallate, sorseggio tè e discuto di pettegolezzi con le signore di Versailles?”
Sprofondata nella mia poltrona con un calice di vino tra le dita avevo sorriso della sua sfacciataggine.
“Io dico che sei molto elegante…Ma se è il pettegolezzo che cerchi, allora il neo finto è d’obbligo. Mi informerò a palazzo e vedrò se è in mio potere procurartene uno…”
I nostri sguardi si erano incrociati, ed entrambi ci eravamo trattenuti per non scoppiare a ridere davanti al sarto il quale, una decina di spilli tra le labbra, aveva sbuffato spazientito da quei continui scambi di battute.

Chiusi quel primo cassetto, mentre quel ricordo svaniva intorno a me, e aprii il secondo.
Razionalmente, sapevo che la mia poteva essere considerata una e vera propria violazione della privacy. Ma qualcosa era scattato dentro di me, e non riuscivo più ad arrestare quell’improvvisa voglia di immergermi nella sua vita. Volevo che i piccoli pezzi della sua esistenza celati in quella stanza mi parlassero di lui. Volevo che mi appartenessero come erano appartenuti a lui.
Non c’erano vestiti nel secondo cassetto, ma una notevole quantità di oggetti. Mi inginocchiai davanti alla cassettiera e presi tra le mani una grossa scatola quadrata. Quando la sollevai avvertii qualcosa rotolare al suo interno, e ancora prima di aprirla un ricordo si materializzò improvvisamente davanti ai miei occhi.

Mi ero stiracchiata pigramente, sul pavimento della sua stanza, mentre un sorriso furbo si dipingeva sulle mie labbra.
“Scacco matto. Per la terza volta. Rassegnati, Andrè...”
Andrè, seduto a gambe incrociate davanti alla scacchiera, conservava ancora l’espressione pensierosa di qualcuno che stesse provando a cercare un qualsiasi motivo per non dichiarare la sconfitta. Aveva studiato tutti i pezzi, uno per uno, attentamente. Poi la sua espressione si era tramutata in stanca rassegnazione.
“E va bene…Mi dichiaro sconfitto. Sconfitto su tutti i fronti”
A sua volta si era lasciato scivolare sdraiato, mentre la candela al nostro fianco tremolava leggermente e le ombre sul soffitto si dispiegavano su di noi.
Ero rotolata sulla pancia, e l’avevo guardato divertita.
“Ora devi pagare pegno!”
Andrè si era portato una mano agli occhi e aveva sospirato.
“D’accordo…Ma ti prego, Oscar…Non essere perfida.”
Avevo ridacchiato e mi era sollevata sulle ginocchia.
“Non preoccuparti…Si tratta di una prova di coraggio. E tu sei coraggioso, vero Andrè?”
Andrè mi aveva sbirciato con la coda dell’occhio.
“In linea di massima…credo di si. Ma quando hai quello sguardo lo sono molto meno…Di cosa si tratta?”
Con la punta delle dita avevo sfiorato le candide lenzuola del suo letto.
“Mai sentito parlare di fantasmi?”

Con un sorriso aprii la scatola e carezzai con lo sguardo la vecchia scacchiera e i pezzi che ci avevano tenuto compagnia per molte serate, quando eravamo ragazzi, e giocare a scacchi sul pavimento della sua stanza era un modo come un altro per trascorrere le fredde serate invernali.
Sorrisi. Chi perdeva pagava pegno…Ero stata io ad insegnare ad Andrè a giocare, motivo per cui nove volte su dieci riuscivo a batterlo senza fatica, contando sulla sua inesperienza e sulla sua totale mancanza di strategia.
Quella volta lo avevo costretto ad entrare nella camera di Nanny in piena notte, interamente coperto da un lenzuolo, fingendosi un’anima dannata. La sua punizione era durata una settimana, ed era stato costretto a pelare quintali di patate in un angolo della cucina. Ma mai, nemmeno una volta, aveva fatto una parola sul fatto che fossi stata io a costringerlo a quella sceneggiata.
Sfiorai i pezzi, lisci e lucidi, meno uno. Una volta avevamo portato all’aperto la scacchiera, e avevamo perso l’alfiere. Andrè l’aveva ricostruito intagliandolo nel legno e dipingendolo di nero.
Giocava sempre con i neri, lasciando a me i bianchi.
I bianchi muovevano per primi. Avevano un vantaggio.
Mi rigirai tra le dita l’alfiere di Andrè. La base era abbozzata ed irregolare, motivo per cui spesso, nel bel mezzo di qualche partita l’alfiere cadeva, di punto in bianco. Io sorridevo, lo chiamavo ‘il disgraziato’, ma Andrè ogni volta lo raccoglieva e lo rimetteva al suo posto, pazientemente, perché non importava quanto fosse diverso dagli altri pezzi. Semplicemente, quello era il suo posto.
Erano anni che non giocavamo più a scacchi.
Dove eravamo stati per tutto quel tempo?
Adagiai l’alfiere nella sua scatola e ne richiusi il coperchio.
Dal cassetto aperto spuntava una vecchia cartelletta di cuoio marrone macchiata sugli angoli e tenuta chiusa da due nastrini, gonfia di fogli.
Incuriosita la trassi a me, sciogliendo i nastrini. Per un breve istante mi chiesi se non fosse davvero troppo, sbirciare quelle pagine, ma la curiosità ebbe presto il sopravvento.
Sollevata la copertina, sulle mie ginocchia caddero, inaspettatamente, decine di fogli illustrati.
E fu un mondo di volti familiari, intenti ad osservare il mondo da quella dimensione cartacea bagnata di colore, che mi trovai a fronteggiare.
Nanny, la sua cuffietta blu notte, i suoi occhialini di corno, la sua espressione, a metà tra lo spazientito e il divertito, mentre Andrè la fermava per sempre su quel foglio di carta.
Eloise, la cuoca, ritratta mentre spennava una gallina in cortile. Lo sguardo duro, assorto. Il grembiale sporco, i capelli che uscivano disordinati dalla cuffia.
Cesar, il suo muso gentile, il naso che sembrava suggerire morbidezza anche dalla carta sul quale era impresso, lo sguardo intelligente.
Etienne, il grosso soriano grigio che dormiva sul muretto delle scuderie.
Uno scorcio della casa, doveva essere primavera, i colori esplodevano in un miscuglio di verdi e rossi.
Ripensai al pergolato di rose che si arrampicava sui muri delle scuderie, e ricordai una noiosa lezione con il maestro d’arte…

Bagnavo troppo il pennello e il colore sulla carta si spandeva disomogeneo, le mie rose assomigliavano a pomodori.
“Più delicata, madamigella, l’acquarello è una tecnica che ha bisogno di una mano soave come un piuma e lesta come l’acqua di un ruscello!”
Avevo sbuffato, e una nuova macchia dai contorni frastagliati si era espansa sulla carta, mescolandosi con il resto del dipinto. Non capivo perché il mio percorso educativo doveva comprendere qualcosa di tanto insulso come l’acquarello. Non era quella forse un attività prettamente femminile?
Quando il maestro si era allontanato avevo lasciato cadere a terra il foglio e la scatola di acquarelli.
“Non stava venendo poi così male…” Aveva mormorato Andrè, seduto alle mie spalle, mentre puliva le lame delle spade con un panno.
Non capivo perché a lui venisse risparmiato quel supplizio.
“No? Allora prendi!” Arrabbiata, avevo raccolto gli acquarelli da terra e glie li avevo tirati addosso, colpendolo ad una spalla. “Usali tu questi dannati acquarelli, se ti piacciono tanto, io li trovo roba da donnetta. Sono noiosi…e inutili.”
Avevo girato i tacchi e l’avevo lasciato solo. La sera stessa avevo chiesto a mio padre di desistere con l’insegnamento degli acquarelli, richiesta che lui aveva accolto bendisposto, visto che a quanto pareva era esclusivo desiderio di mia madre che mi dedicassi anche ad attività femminili.
Non avevo più pensato a quella scatola di colori.

Guardai quei dipinti, e capii perché ad Andrè fosse risultato tanto semplice appassionarsi a qualcosa che per me era risultato estremamente difficile.
L’acquarello era soprattutto pazienza. I colori spesso andavano dove volevano, indipendentemente dalla volontà dell’artista. Si mescolavano tra di loro, increspavano la carta e spesso bastava una goccia d’acqua a cambiare completamente qualcosa di definito.
Io non avrei mai potuto accettarlo. Le cose, per me, dovevano essere chiare, e soprattutto, dovevano andare come dicevo.
Ma per Andrè era diverso…lui era spontaneo. Poteva accettare di sbagliare.
Era questo che l’arte esigeva. Unico prezzo in cambio dell’eternità.
Osservai quei profili, quelle espressioni rubate alla quotidianità, e capii sin dove sapeva arrivare il suo sguardo. Tracciai con le dita le scie di colore che il pennello aveva lasciato, spostai i fogli in cerca di altri disegni, e mi imbattei in me stessa.
I capelli biondi erano solo un abbozzo di colore lasciato gocciolare. Addosso avevo la camicia che usavo quando non ero in servizio, le mani appoggiate alla balaustra del balcone, guardavo verso destra. Il mio sguardo suggeriva amarezza e una certa malinconia, e mi ritrovai a chiedermi quando fosse stato.
Quando avevo scrutato l’orizzonte talmente presa dai miei pensieri da non accorgermi di Andrè che mi osservava dal cortile?
Spostai il foglio, dietro c’ero sempre io. Questa volta Andrè aveva colto su di me un’espressione serena e spensierata. Girai il dipinto: 1775, Arras.
Presi i fogli tra le dita. I riflessi del mare quasi si confondevano con il blu del cielo. Io, seduta su un tronco ricoperto di salsedine, sulla spiaggia. Io che mi sollevavo i capelli sulla nuca e mi sventolavo con una mano, vestendo una buffa espressione. Io e Cesar, davanti all’infrangersi delle onde. Io, il mio volto appoggiato alla mano destra, mentre un sorriso mi increspava le labbra e i capelli si sollevavano attorno a me mossi dal vento. Io, assorta nella lettura di un libro. Io, davanti ad un pergolato di rose. Io, vari bozzetti dei miei occhi e delle mie mani. Le date si susseguivano, l’ultimo dipinto era datato 1784.
Deglutii. Per quanto tempo lo sguardo di Andrè mi aveva seguito senza che me ne rendessi conto?  
Per quanto avevo vissuto chiusa in me stessa a tal punto?
Strinsi tra le mani un foglio, spiegazzandolo. Sopra di esso, i miei stessi occhi mi guardavano con più sincerità di quella che vi avrei potuto leggere se mi fossi guardata allo specchio in quel momento.
Era la vera me stessa che viveva in quei dipinti. Andrè la conosceva da tempo, l’aveva sempre conosciuta, e l’aveva fermata in quei ritratti, in quegli schizzi, spesso quasi solo un abbozzo, che dicevano di me più di quanto non fossi stata disposta ad ammettere.
“Sai Oscar, si dice che sia possibile conoscere veramente qualcuno solo facendogli un ritratto. Tutto ciò che veramente conta è nel volto, perché è lì che l’anima si concentra.” Mi aveva spiegato una volta. Non so perché riesumassi quel ricordo solo ora, probabilmente ai tempi non gli avevo nemmeno dato peso.
“Se è davvero così, Andrè, constaterai da te quanto io sia nella maniera più assoluta la peggior osservatrice di questo mondo…” Mormorai a me stessa, seduta sul pavimento della sua stanza, tra i suoi dipinti sparsi a terra.
Se mi fossi sforzata di vedere, avrei capito che mi amava? Probabilmente. E non ci sarebbe stato bisogno che me lo vomitasse addosso assieme a tutta la rabbia e la frustrazione accumulate nel corso degli anni.
Mi sfiorai le labbra con le dita e ripensai a quel bacio tanto violento, disperato.
Poi pensai al suo volto tra i soldati della guardia, a come era stato, ritrovarselo davanti dopo quello che era successo.
Ciò che non si comprende non lo si possiede, diceva un filosofo. Ma adesso che conoscevo e accettavo quel sentimento, volevo tutto di lui. E lo volevo con una tale disperazione che ogni singolo sguardo tra di noi mi bruciava l’anima.
Raccolsi i fogli da terra e li riposi ordinatamente nella cartelletta, poi chiusi lentamente il cassetto.
Mi rimaneva un solo posto dove guardare. Se fossi stata lucida, mi sarei vergognata di me stessa. Ma l’assenza di Andrè mi pesava in maniera quasi dolorosa, e riesumare quei ricordi, che sbocciavano come fiori nella mia memoria alla vista degli oggetti che erano parte del suo passato, mi rendeva in qualche modo più vicina a lui, meno sola.
Mi sollevai e mi avvicinai al secretaire. Il calamaio ero quasi vuoto e sulla punta del pennino l’inchiostro si era seccato, formando dei grumi. Scostai la sedia e vi presi posto, immaginando Andrè in quella stessa posizione, molte vite prima, intento a studiare ed esercitarsi con la grammatica. Era talmente piccolo che le gambe non gli toccavano nemmeno terra, e i suoi piedi rimanevano lì a ciondolare, mentre la sua voce sillabava e contava sulla punta delle dita. Era sempre stato un bambino curioso e la voglia di sapere non gli mancava, perciò quando mio padre aveva deciso che il mio tutore sarebbe stato anche il suo, per darci modo di avere la stessa istruzione e poter avere un rapporto ‘paritario’, per quanto le nostre differenti condizioni sociali ce lo permettessero, Andrè ne era stato felice e si era applicato allo studio con la determinazione e la perseveranza che lo avrebbero sempre contraddistinto nella vita. Se aveva un compito da portare a termine Andrè non si tirava mai indietro.
Sfiorai i dorsi dei libri che stavano impilati gli uni sugli altri sul rialzo del secretaire. Molti glie li avevo regalati io: Don Chisciotte della Mancia, Il Cid, l’Antigone di Sofocle, l’opera teatrale di Molière e qualche tragedia Shakespeariana.
Molti li se li era comprato con i propri soldi, quando aveva capito che il teatro lo affascinava in modo particolare e che ciò che si trovava nei libri fosse quanto di più amava tra le cose create dall’uomo.
Spesso eravamo stati assieme a qualche rappresentazione popolare. In genere si trattava di commedie, ed era sempre un piacere leggere il divertimento e la meraviglia negli occhi di Andrè, sebbene uno dei miei più grossi rimpianti fosse quello di non averlo mai potuto portare con me all’Opera, perché immaginavo che l’avrebbe amata…Ma i servitori in genere aspettavano fuori vicino alle carrozze.
Sfilai un libro dalla fila, accarezzandone il dorso. “La vita è sogno, Calderón de la Barca” mormorai. Un lieve rigonfiamento tra le pagine ingiallite mi spinse ad aprire il libro e un fiore secco mi scivolò tra le dita, mentre i miei occhi scorgevano altre leggere sottolineature a matita:

‘Cos’è la vita? Frenesia.
Cos’è la vita? Un’illusione.
Solo un’ombra, una finzione;
e il maggior bene, un bisogno da nulla.
La vita è sogno,
e i sogni, sogni sono.’

Riadagiai il fiore tra quelle pagine, mormorando tra me e me quelle parole cariche di amarezza. Cos’è la vita? Un’illusione. Solo un’ombra, una finzione…
Se davvero Andrè aveva pensato che quelle parole appartenessero in qualche modo alla sua vita, dovevo ammettere che nemmeno io mi sentivo tanto lontana da quella realtà.
Alla mente mi sovvenne una citazione:

‘Io considero il mondo per quello
che e': un palcoscenico nel quale
ognuno deve recitare una parte,
e la mia e' una parte triste.’

Misi da parte Calderón de la Barca, e feci scorrere l’indice sui dorsi dei libri, finché non trovai ciò che cercavo: Shakespeare, Il mercante di Venezia.
I ricordi mi portarono ad un pomeriggio estivo, anni prima, ad un giardino in fiore, alla sensazione dell’erba fresca sui piedi nudi.

Ero sdraiata all’ombra di un albero, le braccia dietro alla testa e un filo d’erba tra le labbra. Da qualche mese ero diventata capitano della guardia reale, ma le difficoltà che avevo dovuto superare per farmi accettare, in quanto donna, erano più grosse di quanto avrei potuto immaginare.
Mio padre non faceva che ripetermi quanto fosse orgoglioso di me, ma lui non sapeva cosa significasse comandare un reggimento senza avere il rispetto dei propri uomini. L’unico che mi dimostrasse un po’ di simpatia era il mio secondo, Girodelle, ed era ironico, perché era intaccando il suo onore che avevo avuto quel posto, battendolo in duello.
All’improvviso, nella quiete del giardino, il filo dei miei malinconici pensieri era stato interrotto dalla voce di Andrè, qualche metro sopra di me.
“Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico nel quale ognuno deve recitare una parte, e la mia è una parte triste…” Aveva esclamato con voce enfatica, dal ramo sul quale era sdraiato.
Sollevando leggermente la testa avevo visto i suoi talloni nudi penzolare, e avevo incrociato il suo sguardo smeraldino. Mi aveva osservato per alcuni secondi, dopodiché mi aveva mostrato la copertina del libro che reggeva tra le mani: “Shakespeare, Il mercante di Venezia.” Aveva specificato.
“Buon per lui.” Avevo ribattuto, seccata, tornando a guardare il lento movimento delle nuvole nell’azzurro del cielo.
“Credi che si tratti di questo?” Mi aveva domandato.
Avevo sospirato: “Non afferro il senso delle tue parole Andrè, anzi guarda, non sto nemmeno ascoltando ad onor del vero…”
“Mi riferivo al fatto che la tua fosse una triste parte, su questo palcoscenico…”
Avevo tenuto insistentemente lo sguardo al cielo: “Non direi…No. Io sto benissimo…”
Il tonfo dei piedi di Andrè che atterravano al mio fianco mi fece leggermente trasalire, ma cercai di non darlo a vedere.
Si era appoggiato con una spalla al tronco dell’albero. Aveva i capelli scarmigliati e la camicia aperta sul petto liscio mentre i pantaloni arrotolati fino al ginocchio lasciavano intravedere i muscoli affusolati e scolpiti dei polpacci abbronzati.
“Sai cosa mi piace, di Shakespeare?” mi aveva chiesto, mentre sfogliava qualche pagina.
“Il fatto che ti dia la possibilità di importunare la gente sfruttando le sue citazioni?” avevo suggerito, con una certa acidità.
“Il fatto che fosse assolutamente privo di pregiudizi.” Andrè aveva sfogliato ancora qualche pagina, dopodiché aveva battuto l’indice su un punto ben preciso “Sapevi come si risolve il finale de ‘Il mercante di Venezia’?”
In realtà non lo sapevo; avevo avuto cose più importanti a cui pensare in vita mia che interessarmi di versi e commedie.
Andrè non si era lasciato scoraggiare dal mio silenzio:
“E’ una donna che alla fine salva capra e cavoli, per intenderci. E sai come ci riesce? Facendo credere a tutti di essere un uomo…”
Involontariamente, mi ero voltata verso di lui. Andrè mi aveva sorriso, poi aveva iniziato a leggere:

“Nerissa, ho in mente un piano che tu
ancora non conosci: rivedremo i mariti
prima che se l’immaginino!
Ma così abbigliate che ci crederanno
fornite di quello che ci manca.
Scommetto con te qualsiasi cosa
che, vestite tutt’e due da giovanotti,
io sarò il più bello dei due, e porterò
il pugnale con più eleganza, e parlerò
con la voce fessa del ragazzo che si fa uomo;
muterò i passettini in andatura virile;
ciancerò di risse come un giovane spaccone;
racconterò elaborate bugie su come
dame rispettabili implorarono il mio amore,
e al mio diniego, s’ammalarono e morirono:
io che potevo farci…poi mi pentirò,
desiderando, dopotutto, di non averle uccise;
e ne dirò tante, di queste piccole bugie,
che la gente giurerà che ho finito la scuola
da un bel pezzo; ho in mente di attuare
mille trucchetti di questi fanfaroni.

Quando aveva finito di leggere, aveva chiuso la copertina del libro, e mi aveva osservato con uno sguardo affettuoso:
“Io credo che in fondo tu e Porzia non siate poi molto differenti: entrambe belle, entrambe nobili, dotate di grande fascino ed intelligenza. Ma se potete ottenere rispetto dagli altri solo fingendovi qualcosa che non siete…allora tanto vale prenderla con lo spirito giusto, non ti pare?”
Avevo osservato Andrè per qualche secondo, poi le mie labbra si erano increspate in un sorriso:
“Mi stai suggerendo che dovrei ‘andare in giro a cianciare di risse come un giovane spaccone e raccontare elaborate bugie di come dame rispettabili implorarono il mio amore?!’”
Andrè mi aveva sorriso e mi aveva passato il libro:
“In fondo sei una rubacuori. E in quanto ad avere un atteggiamento da spaccone…Non credo tu debba faticare più di tanto!”
Gli avevo tirato una gomitata negli stinchi, ma entrambi stavamo ridendo.

Sbattei le palpebre e mi ritrovai seduta al secretaire di Andrè.
Quel tempo era finito. Era buffo pensare che fossero trascorsi non più di una quindicina d’anni, quando a me sembrava di aver attraversato innumerevoli vite da quegli attimi di spensieratezza.
Un brusco accesso di tosse mi costrinse ad abbassare il libro e a piegarmi su me stessa, scossa dai singulti. Quando mi calmai, stesi le braccia su quel secretaire e vi sprofondai dentro il viso. Avvertivo nelle narici il pungente odore del legno, e tra le labbra il sapore del sangue. Non saprei dire quanto tempo rimasi in quella posizione, ma quando mi sollevai, un filo di saliva insanguinata mi colò giù dalle labbra. Mi pulii con il dorso della mano. Non volevo morire.
Non adesso quando, dopo tanti giri di vite, ero giunta a quella giusta. Non adesso che sapevo chi volevo essere e con chi volevo stare.
La sedia scricchiolò contro al pavimento mentre mi rialzavo. La luce aveva quasi abbandonato quella stanza.
Seduti davanti al letto, io e Andrè stavamo giocando con i soldatini. Ai suoi piedi, mettevamo in fila i pezzi sulla scacchiera. Su di esso, leggevamo un libro di favole, illuminati solo dalla tremolante luce delle candele. E poi, ancora, Andrè che asciugava le mie lacrime mentre mi passava un braccio intorno alle spalle, innumerevoli volte. Quante lacrime avevo versato sul risvolto di quella giacca, tra le sue braccia sempre pronte ad accogliermi? Era lui la mia vera casa, l’unico luogo in cui potevo essere me stessa.
E quel sentimento, che mi accompagnava da tutta la vita, era sbocciato come un fiore tra la neve del mio cuore, nel silenzio più assoluto, mettendo radici tanto profonde da non poter essere estirpate ne spezzate, nemmeno da tutto il dolore che ci eravamo inflitti a vicenda.
Andai fino al suo armadio e aprii l’anta. Due gilet e un mantello dondolavano lievemente sulle grucce, affiancati dalla sua giacca buona, e da quella informale che usava da anni, leggermente logora sui gomiti. La prelevai dalla stampella e me la portai al volto, sprofondando nel suo odore.
Per un breve istante, fu come essere tra le sue braccia. Mi rannicchiai sul suo letto, portandomi le ginocchia al petto, e affondando il viso nel morbido velluto marrone della sua giacca provai ad immaginarlo in quel momento. La luna filtrava luminosa dalla finestra, e sperai che quella stessa luna stesse vegliando anche sul suo sonno. Immaginai i suoi morbidi capelli sparsi sul cuscino, le lunghe ciglia scure abbassate sulle palpebre, le labbra leggermente socchiuse…
Lo amavo. Lo amavo al punto che il sentimento che avevo provato per Fersen mi appariva adesso come qualcosa di fragile ed opaco, che si era dissolto in polvere al primo alito di vento.
Quello che provavo per Andrè sapevo che non sarebbe mai scomparso, perché era la linfa che alimentava la mia stessa vita.
Strinsi la giacca a me, e il suo odore mi invase l’anima. Ricordai come mi aveva baciata,  e con quanta disperazione mi aveva guardata dopo avermi strappato i vestiti di dosso. A distanza di mesi, quello che nei primi tempi era stato un pensiero doloroso da affrontare, si era trasformato in un pensiero sempre più ricorrente, al quale mi abbandonavo con desiderio. Volevo sentire ancora il suo respiro affannoso sul mio volto, e il caldo fuoco delle sue labbra sulle mie. Volevo nuovamente scorgere, in quell’iride color smeraldo, quell’espressione di passione e indicibile desiderio che gli aveva attraversato lo sguardo quando i suoi occhi si erano posati sul mio corpo nudo.
Se era a quello che il destino aveva per lungo tempo tentato di condurci, finalmente potevo dire di essere pronta.
Non volevo morire. Non prima di avergli rivelato quante notti avevo sognato il suo respiro sul mio volto e mi ero svegliata credendolo al mio fianco.
Una lacrima scese sulla mia guancia, sparendo nel velluto della sua giacca.  
Probabilmente, sarebbe successo anche quella notte. Ma il giorno dopo, forse, sarei riuscita a trovare una scusa per farlo tornare a casa.
Mi strinsi la giacca addosso, e mentre il lieve torpore del sonno si impadroniva di me, gettai un ultimo sguardo alla luna, fuori dalla finestra.
Si, il giorno dopo avrei dovuto trovare del tempo da passare con lui. Non volevo più aspettare.
Sorrisi lievemente, la guancia sprofondata nella sua morbida giacca.
“Si… ‘Che il tuo strale, fortuna, mi renda il più felice o disgraziato mortale’
(1) …”


 

(1) - Shakespeare, Il mercante di Venezia


Nota dell’autore
E con questo si conclude il terzo capitolo di questa piccola trilogia^^ Devo ringraziare davvero di cuore tutte le persone che hanno seguito, recensito e aggiunto alle loro preferite questa storia, grazie! Non mi aspettavo assolutamente di ricevere tanti splendidi commenti e suggerimenti, sono commossa^^
Per quanto riguarda il precedente capitolo, un ringraziamento speciale va a: Frakkis, Leia345, Ninfea Blu, HopelessGirl, Baby80, Tetide, Morgana85, CosmopolitanGirl, Garakame, Franny97, Pry, Arte, Crissi, LinaInverse, Kira91.
(X Ninfea Blu: credo che tu abbia ragione, la data non è esatta…Avevo letto in una biografia che quello era l’anno in cui Fersen tornava dall’America, ma a ben guardare il caso della collana si colloca intorno al 1785, e la scena del ballo avviene dopo, perciò potrebbe essere benissimo 87/88, grazie per l’appunto!)
(X Baby80: la tua recensione l’ho letta e riletta più volte, e vedevo talmente bene la scena che hai descritto che non ho potuto fare a meno di inserirla in questo capitolo, grazie per l’idea, spero che non ti dispiaccia se me ne sono 'appropriata' ^^)
A tutte le altre, non so come ringraziarvi (sono ripetitiva, lo soXD) per tutte le bellissime parole che avete speso per me…Spero che questo capitolo finale non abbia deluso le vostre aspettative; è vero, Andrè non compare quasi per nulla, se escludiamo i ripetuti flash-back, quello che volevo era che ciò che gli apparteneva parlasse per lui ricordando ad Oscar quanto lui le sia stato vicino lungo tutta la vita; piccoli attimi per ricostruire una storia d’amore che dura da tutta una vita, ecco. E vi ringrazio (ancoraXD) in anticipo se vorrete lasciarmi altri pareri positivi/negativi, critiche e suggerimento sono sempre ben accetti! Baci^^
  
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