Venticinque
Il sonno di Alberto era stato tormentato.
Per tutta la notte si era girato e rigirato nel suo letto, pensando,
ripensando, cercando di capire dove avesse sbagliato. Ed aveva pianto. Lacrime
amare che non sapeva se stava versando più per Filippo o per Nathan. Il mondo
gay era così, per molti di loro… soltanto una botta e via. Ma Filippo era una
persona troppo atipica, molto fuori dallo schema classico del dongiovanni.
Ancora una volta, fra le lacrime, Alberto pensò che non si conosceva mai abbastanza
una persona. Soprattutto se la si conosceva da così poco tempo come l’aveva
conosciuta lui.
“Così imparo a lasciarmi coinvolgere da
tutto e da tutti. Fanculo. Mi sta proprio bene” si asciugò una lacrima che era
andata a finire sul cuscino, già umido. “Se Nathan dovesse tornare, mi farò
perdonare in qualche modo.”
Thomas?
Perché gli era venuto in mente lui? “Oh
cazzo.” Pensò, con la ferma convinzione di stare impazzendo. Se ci fosse stato
un pulsante sulla testiera del letto in grado di porre fine alla sua vita senza
alcun dolore, l’avrebbe premuto immediatamente. Troppa confusione nella sua
testa, nonostante si sforzasse di razionalizzare il tutto. Il rosso sicuramente
era ancora a Torino, ma forse se ne stava per conto suo ad assorbire le stesse
cose che stava assorbendo Alberto in quel momento. Ehi, e se si fossero
incontrati, magari avessero bevuto qualcosa e poi fossero andati al cinema,
come sarebbe stato? “Che stronzata. Soltanto nei film succedono cose così
idilliache…” rispose la sua coscienza, azzittendo qualunque idea di
riconciliazione con Thomas, sebbene forse avrebbe dovuto. Non fosse stato altro
per dovere morale verso una persona che comunque gli aveva dimostrato di
volergli bene.
Essere desiderato comportava spesso molti
problemi. Uno dei tanti era che si facevano piangere molte persone. Eppure
Alberto non era il classico “figo”, non possedeva una bellezza da divo di
Hollywood, non era nemmeno ricco (figuriamoci, lo stipendio pubblico gli
consentiva di avere al massimo quel bilocale che aveva condiviso con Nathan)…
Lui era il classico ragazzo della porta accanto, né più né meno. Strinse i
denti, pensando al da farsi. Intanto, sul comodino, la radiosveglia segnava le
Sette meno un quarto. Era tornato a casa da tre ore ma non era riuscito a
prendere sonno neanche per un minuto. Sospirò, provandosi a chiudere gli occhi
e cercare di spegnere il cervello (anche in quel senso, avrebbe tanto
desiderato un interruttore che glielo spegnesse, almeno il tempo necessario a
dormire).
Non passarono neanche trenta minuti, che
dalle scale sentì un gran rumore di passi frettolosi. Forse più di una persona
stava salendo. Troppo occupato a commiserarsi, evitò di alzarsi ed andare alla
porta. Quando però i passi si fermarono, il suo campanello suonò. “Ma chi…?” al
pensiero che fosse Thomas, inconsciamente si alzò, accorgendosi addirittura di
essersi messo a letto completamente vestito.
Quando aprì la porta, si trovò di fronte
tre carabinieri. Il suo cuore ebbe un tuffo.
-Buongiorno, lei è il Signor Alberto Ferrari?-
domandò uno dei militari. Aveva un accento siciliano, come molti carabinieri.
-Sì, sono io. Cosa…?-
Il carabiniere non gli diede il tempo di
rispondere, per comunicargli la notizia.
*****
Due minuti dopo, Alberto era nella gazzella
dei carabinieri, che aggiungeva pianto al pianto già versato durante la notte.
Continuò a piangere, incurante dei militari che gli stavano intorno, cercando
di rassicurarlo offrendogli fazzoletti di carta e pacche sulla spalla. La
notizia che gli avevano dato era troppo anche per lui, che si era visto
spezzare il cuore due volte in poche ore: Nel cantiere gestito da Fabrizio,
nella buca sottostante il gruppo elettrogeno erano stati rinvenuti i cadaveri
la cui descrizione corrispondeva agli scomparsi Daniele Melandri, di anni
ventiquattro, e Nathan Edward Winterbourne, di anni ventisei. Mentre l’Alfa 156
percorreva le curve che portavano al cantiere, Alberto si sentì male. Si
sentiva lo stomaco sottosopra, la testa gli scoppiava e non ci sarebbe stato
proprio verso di farlo ragionare.
-Perché è così necessario che io venga con
voi?- domandò, con la voce rotta dal pianto.
-Ci dispiace- disse il carabiniere seduto
sul sedile davanti –Ma il suo amico, l’ingegner Foschi ha richiesto la sua
presenza. E poi lei ha denunciato la scomparsa del signor Winterbourne, che ci risulta essere…- si fermò, forse perché
non voleva dire quella parola magica.
-Era il mio compagno.- rispose Alberto,
asciugandosi le lacrime. Si soffiò anche il naso, cercando di controllare un
altro accesso di pianto.
-Si calmi, signor Ferrari. Andrà tutto
bene.- gli disse il carabiniere accanto a lui, ma Alberto scosse la testa. –No…
non andrà tutto bene, d’ora in poi…- e si coprì la faccia con le mani a coppa,
cercando di piangere più sommessamente almeno per non essere seccato più dai
tentativi di tirarlo su dei militari.
*****
Il cantiere era pieno di gazzelle dei
carabinieri e c’erano anche due ambulanze. Tutto intorno era stato predisposto
del nastro per tenere lontane le persone, mentre si stava predisponendo il
sequestro del luogo. Nell’ufficio modulare, Alberto vide Fabrizio che, telefono
alla mano, stava animatamente litigando con qualcuno. Forse un responsabile
della Regione. Dalla finestra non perveniva alcun suono, si sentì soltanto il
forte rumore della cornetta che sbatteva quando Alberto entrò insieme ai
carabinieri. Lì dentro c’era anche Rosanna, che si teneva la testa preoccupata,
piangendo. Come se avesse visto un fantasma, Fabrizio alzò gli occhi verso
Alberto. Il suo sguardo era allo stesso tempo truce e preoccupato.
-…Erano lì da parecchio tempo…- esordì
Fabrizio. Alberto non rispose, continuando a guardarlo. –Io… Io non ho fatto
niente. Lo giuro!- riprese Fabrizio, alzando le mani e camminando intorno alla
scrivania. Ora la sua espressione era cambiata, sembrava più un’espressione di
terrore. –Diglielo anche tu, Alby. Digli che noi due siamo amici, che io non
avrei mai potuto…-
-Sta dicendo la verità.- disse asciutto
Alberto, rivolgendosi ai carabinieri. Questi annuirono, ma sospirarono ampiamente.
-Ci dispiace signor Foschi, ma lei deve
venire in caserma con noi…-
-Perché???- chiese l’ingegnere, spaventato.
Alberto non ricordava di aver mai visto Fabrizio così spaventato. Nemmeno
quand’erano bambini. Dal divano, Rossana si alzò e andò accanto al suo fidanzato,
tenendogli il braccio.
-Normale prassi- rispose un carabiniere,
molto in carne e con la barba color sale e pepe. Sembrava un pirata. –Le faremo
qualche domanda. Se crede, può farsi assistere da un legale. Però non si può
evitare. Siamo obbligati a farlo.-
Deglutendo, sapendo che non poteva farci
nulla, che comunque in qualità di impiegato pubblico era tenuto più di tutti al
rispetto delle leggi, Fabrizio annuì. –Vi prego- attaccò Rosanna –Vorrei venire
con lui.-
Come se non l’avessero nemmeno sentita, i
carabinieri si accostarono accanto a Fabrizio, prendendolo uno per braccio. In
quel momento Alberto non vide più il suo amico trentenne, ma rivide un bambino
spaventato, che era pur sempre il suo amico del cuore… che aveva scoperto i cadaveri
di un amico e del suo amato Nathan. I loro sguardi si incrociarono, e quegli
occhi così carichi di sentimento di Fabrizio sembravano urlare “Aiutami, amico
mio, aiutami.” Gli sembrò anche che stesse per piangere. Detto questo, lo
portarono via, uscendo dall’ufficio modulare. Dalla finestrella Alberto lo vide
che entrava nei sedili posteriori dell’Alfa 156 dove poco prima era stato
portato lui.
-Alberto- chiamò Rosanna. Lei era già in
lacrime, bisognosa di sapere cosa stesse succedendo. La ragazza andò vicino ad
Alberto, cingendogli le spalle e mettendosi a piangere su di lui. Pianse forte,
e mentre piangeva Alberto la stringeva dolcemente e le carezzava la schiena.
Lacrime scesero ancora anche dagli occhi di Alberto, che, adesso lo sapeva, non
avrebbe mai più parlato con il suo amato Nathan.