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Autore: SybilleS    23/11/2005    5 recensioni
Questa storia è stata scritta da Silvia & Silvia. E' una storia tra Colin Farrell e Jared Leto,un pò piu complessa di quelle che si vedono in giro,chiamatela una sorta di esperimento in profondità
Malgrado sia tutto inventato questa fic è nata in riferimento ad alcune interviste rilasciate da Jared Leto
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Tieni ti ho preso un regalo”

Jared lanciò a Colin una scatolina di cartone che attraversò pericolosamente tutta la cucina rischiando di andare a sfracellarsi contro la caffettiera in ebollizione se non fosse stato per la prontezza di Colin di afferrarla al volo.

Colin si appoggiò al banco in marmo bianco della moderna cucina. Il rosso lucido e abbagliante delle ante stava a testimoniare che non veniva usata così spesso.

Per quanto una persona possa invidiare le case esposte su AD, così belle ma così poco vive, si sa che al momento di comprare la scelta non cadrà mai su una cucina rossa laccata, bellissima da vedere, impossibile da pulire.

Ma non lo facevano certo loro.

Anche per questo, quando Colin si guardava intorno, non poteva fare a meno di riconoscere l’estraneità di quella casa. Bellissima ma fredda come una fotografia patinata. E anche per Jared, che pure l’aveva scelta, non era così diverso

Jared si sedette al tavolo e addentò un muffin buttandoci dietro un sorso di succo di arancia mentre osservava Colin scartare con attenzione il pacchetto

.

Il suo volto si aprì in un sorriso inconsapevole nell’ammirazione della bellezza del compagno. Gli occhi percorsero il torso nudo, scesero all’addome piatto e accarezzarono le gambe avvolte in una tuta larga, nera, il cui elastico molle faceva adagiare i bordi troppo in basso per nascondere che chi la indossava non aveva altro sotto

.

Colin rise dolcemente “Che scemo che sei”. Fra le mani si rigirava una orribile palla di vetro con dentro l’immagine in miniatura di un casinò. Una base di resina rosa portava inciso “Las Vegas” in oro. Colin la girò e tante minuscole palline di plastica simularono una impossibile nevicata. “Solo in America si può pensare di fare la miniatura in palla di vetro di Las Vegas sotto la neve” disse continuando a girare e rigirare la palla.

“Vedrò di procurarti quella con dentro un trifoglio la prossima volta” gli disse Jared sorridendo.

“Non la troverai mai”

“Perché? Se ho trovato la neve a Las Vegas posso pure trovare un trifoglio con scritto Irlanda ti pare?”

Colin scosse la testa sorridendo fingendosi sorpreso “Non crederai davvero che qui sappiate che il trifoglio è il simbolo dell’Irlanda?”

Jared rise appoggiandosi alla spalliera della sedia. Una delle cose che adorava in Colin era la sua totale avversione verso il popolo americano e le sue abitudini, usi e cultura. Rimaneva ancorato alle sue origini, alla sua terra, alla sua “vecchia Europa” in un modo che Jared ammirava. Aveva sempre invidiato la leggerezza con cui la parola ‘casa’ sfuggiva dalla bocca di Colin, come se non gli importasse senza neanche realizzare, perché in fondo casa era qualcosa in più di un sequela di mobili che ti eri scelto da solo. Casa per Colin era quella ridicola bandiera irlandese che occupava un’anta del suo armadio ed il modo annoiato in cui girava i canali della televisione brontolando se “questo è il meglio che il tuo paese ha da offrire in fatto di Tv” Casa era il modo in cui guardava l’orologio chiedendosi “che ore saranno là” e sapendo esattamente cosa sua madre stava facendo e poi le ridicole battute su un mondo diviso in irlandesi e non irlandesi. Colin era figlio della terra d’Irlanda, dove le collere e i temporali ti sorprendevano violenti, ma brevi,era figlio della sua famiglia e dei ricordi conservati lungo gli anni,era figlio dei luoghi dove si era posato il suo sguardo da ragazzo, e poi da adulto e aveva riconosciuto gli angoli familiari. A Dublino gli aveva indicato con tranquillità il pub dove lui e Eamon si erano ubriacati per la prima volta, e il campo di calcio dove aveva fatto un goal di quelli che ‘ tutti se ne ricordano ancora” Jared non aveva posti verso cui voltarsi a guardare. Era tutto una confusione di volti e colori,in cui solo il volto di suo fratello Shannon era rimasto qualcosa di chiaro,di distinguibile e familiare. Ma c’era stato un momento in cui neanche quello era più bastato. I cibi avevano sempre un sapore diverso e le stagioni scivolavano troppo in fretta, era sempre il ragazzo che veniva da qualche altra parte, l’essere da un altro pianeta, il ragazzino da marte. Nulla faceva parte di lui, erano pezzi diversi messi insieme, sradicati da tutto e aveva scoperto col tempo che cresciuto senza radici, non ne aveva neanche da far crescere

“Che ne faccio di questa?” chiese Colin avvicinandosi al tavolo e poggiando l’orribile oggetto direttamente nel piatto di Jared

“L’aggiungi alla tua collezione di palle di neve!”

“Mai avuta”

“Cominci adesso!”

Colin sorrise avvicinandosi al compagno che dischiuse le ginocchia e lo cinse inalando il profumo della sua pelle. Appoggiò la guancia all’addome di Colin e chiuse gli occhi sereno.

“Sei bellissimo” sussurrò appena.

Era la cosa che Jared gli disse la prima notte che fecero l’amore, in Marocco, due anni prima quando l’intensità di ciò che era appena avvenuto li aveva travolti entrambi. Persi in un sentimento spiazzante e pericoloso che non avevano previsto e neppure voluto. E ancora oggi, dopo due anni e tante notti, Colin provò la stessa emozione di allora a quelle parole. Lentamente prese il volto di Jared fra le mani e si chinò per raggiungere la sua bocca che si aprì in un sorriso prima di essere unita a quella del compagno.

Si baciarono con dolcezza, come due innamorati su una panchina, senza lottare per il dominio e concedendo spazio uno alla lingua dell’altro.

Senza interrompere il contatto Colin si alzò delicatamente e Jared lo seguì, sporse un braccio cieco dietro di sè per spostare le stoviglie dal tavolo e si sedette mentre Jared con sempre più vigore assaggiava ogni centimetro della sua bocca.

Lentamente la voglia crebbe nei loro cervelli e fra le loro gambe.

L’abbraccio si fece più violento, urgente, mentre le bocche ora succhiavano le rispettive labbra fino a far male.

Dalla finestra aperta entrò un’improvvisa ondata di aria fredda che colpì Colin nella schiena nel momento in cui Jared scese a mordergli un capezzolo. Sentì la pelle elettrizzarsi stimolata su due fronti e in un singulto soffocato chiuse gli occhi e reclinò la testa.

Il suo addome istintivamente si irrigidiva ogni volta che la lingua umida di Jared leccava piccoli lembi di pelle nel percorso che ben conosceva.

Di colpo Jared si ritrasse. A Colin ci volle più di un momento per riprendersi dall’improvviso abbandono. Lo guardò interrogativo.

“Spogliati” ordinò Jared e Colin non seppe se il suo sguardo era di passione o di semplice dominio. Obbedì senza parlare lasciando scivolare la tuta lungo le gambe snelle e abbronzate.

“Masturbati per me!” ansimò Jared, una scintilla quasi folle nei suoi occhi

Colin non si mosse.

“Fammi vedere come vieni mentre pensi a me, fammi vedere quello che fai quando sei solo e mi pensi”

Colin si sentì preda senza via di scampo della folle lussuria di Jared.

Ma fu un attimo.

Immediatamente si rimpossessò di sé stesso e del suo essere altrettanto virile, altrettanto maschio e tenendo gli occhi fissi in quelli del compagno si sputò volgarmente in una mano e senza esitazione scese a stringersi l’uccello.

Il gesto, così osceno nella sua tipica mascolinità, fece spalancare la bocca a Jared nel desiderio. Ora era lui la preda. La lussuria offerta era stata presa e poi usata contro di lui.

Quando Colin, che non aveva distolto lo sguardo un solo attimo, continuando a masturbarsi si sedette sul tavolo e divaricò le gambe come una troia Jared sentì le ginocchia cedere.

Si ritrovò inginocchiato di fronte all’uccello del compagno con la bocca spalancata, implorante. Colin lo afferrò con forza da dietro la nuca e lo trasse a sé impalandogli la gola.

Jared succhiava, leccava, mordeva mugolando e passando le mani sulle cosce di Colin che guidava la sua testa in un via vai infinito.

Alzò lo sguardo e sorrise soddisfatto quando vide la bocca del compagno dischiusa nella frenetica ricerca di aria e si mise a pompare più forte malgrado le mascelle gli dolessero.

Ma non si sarebbe fermato per niente al mondo . Avrebbe tenuto intrappolato Colin nel delirio dei sensi che lui e solo lui gli aveva cucito intorno fino a che non sarebbe esploso invocando il suo nome come una preghiera.

E così avvenne.

Lo sperma gli inondò la gola e i gemiti gutturali di Colin gli cullarono le orecchie.

Si alzò e incontrò la bocca famelica del compagno che sentì un succo denso e salato passare dalla lingua di Jared alla sua.

Colin tremò nell’eccitazione di bere il suo stesso sperma.

“Voltati” ordinò Jared che ora era di nuovo il padrone.

Colin ubbidì.

Senza tanti complimenti Jared gli piantò un avambraccio nella schiena e lo fece piegare sul tavolo. Porse una mano sulla bocca del compagno che succhiò le dita.

Quando Jared ritrasse la mano Colin appoggiò la fronte sulle braccia incrociate e divaricò le gambe. Improvvisamente tranquillo, pronto.

Jared lo penetrò con il medio subito seguito dall’indice e dall’anulare. Un cuneo che forzava i muscoli pronti ma non ancora rilassati. Colin si morse un lembo di pelle e inspirò forte con il naso.

La voglia di Jared era ormai troppo esplosiva per perdere ancora tempo a preparare il compagno. Come suo solito non si preoccupò di interrompere l’atto per cercare qualcosa con cui lubrificarsi. La saliva sarebbe stata sufficiente.

I loro rapporti erano sempre così.

Violenti e urgenti come se non avessero tutto il giorno o tutta la notte a disposizione.

Facevano l’amore come fossero stati colti dalla passione in un ascensore e avrebbero dovuto consumare l’atto prima di arrivare al ventesimo piano.

L’ondata violenta dell’improvvisa penetrazione fece alzare la testa a Colin di scatto, la bocca spalancata in un urlo muto. Jared ne approfittò per afferrargli i capelli in una morsa di ferro costringendolo a sollevare anche il busto e appoggiarsi sugli avambracci.

Colin strinse gli occhi perso nel dolore che ormai era un tutt’uno dalla testa al culo.

Rimase appoggiato su un solo braccio mentre con l’altro cercò freneticamente il bordo del tavolo a cui aggrapparsi.

Le spinte si fecero sempre più forti e profonde.

Jared sentiva i muscoli della schiena urlare nello sforzo ma il lamento a denti stretti di Colin era un segnale ben noto. Doveva andare avanti così, fino alla fine, sempre di più.

Il tavolo si spostava ad ogni spinta e le tazze sui piattini tintinnavano come ci fosse il terremoto.

Jared ansimando si leccò il sudore sopra il labbro e chiuse gli occhi lasciando la presa nei capelli di Colin che, subito, si addrizzò appoggiando i palmi delle mani al tavolo e lasciando la testa penzolare fra le braccia distese mentre la mano di Jared scese a stringergli l’uccello.

Al cazzo di Colin non ci volle molto per ritrovare il turgore dell’eccitazione.

Colin aprì per un attimo gli occhi e un’immagine sfuocata della cucina gli si presentò davanti per un istante prima di essere di nuovo inghiottita dal piacere violento e doloroso delle ultime spinte di Jared.

Quando Jared percepì dalla tensione del compagno che era di nuovo sul punto di esplodere, sferrò tre spinte secche, forti, profonde che quasi sollevarono Colin da terra, accompagnandole con uguali spinte nel suo uccello che esplose inondando la mano di Jared, il tavolo, la palla di neve di Las Vegas.

Colin ormai sfinito reclinò la testa per appoggiarla sulla spalla di Jared che mordendogli il lobo dell’orecchio venne con una violenza tale da spingere il corpo del compagno nuovamente contro il tavolo in cerca di un sostegno.

Crollarono uno sull’altro, piegati sul tavolo freddo. Jared teneva gli occhi chiusi mentre ansimando baciava dolcemente il collo sudato di Colin nel torpore tranquillizzante ed effimero di sentirsi finalmente parte di qualcuno.

Troppo spesso il suo corpo sembrava avere troppi spigoli per adattarsi a quello di qualcun altro,e finiva solo per lasciare marchi sulle persone come tatuaggi di dolore, o ridicoli autografi sui piedi nella speranza che qualcosa,qualcuno lo prendesse e lo legasse, lo attirasse a sé in un vortice nero. Era così che si era sentito la prima volta che aveva fatto l’amore con Colin, l’ennesima notte nell’ennesimo paese sconosciuto,era stato attirato da qualcosa di più forte, da cui non era riuscito a liberarsi per quanto tentasse di strappare la corda, sprofondato in un corpo che era altro da sè, come disperatamente aggrappato, le unghie a scavare pelle di Colin, le sue urla non soffocate a chiedere una conferma della sua presenza, e carne che si conficcava nella carne a cercare disperatamente un’ancora, a cercare quella radice che non aveva mai avuto, a cercare un possesso di entrambi i loro corpi che si scioglievano in un solo liquido rosso

Dopo pochi minuti si ritrovarono a ridere come pazzi quando la chaise longue Larus sulla quale avevano ricominciato un più romantico corteggiamento , si era improvvisamente accesa sul programma massaggio intenso facendoli quasi schizzare fuori dalla loro stessa pelle dallo spavento.

Decisero che, una volta tanto, il caro vecchio letto era il luogo più appropriato dove consumare la loro inesauribile passione.

Fu una giornata magica. Di sesso languido, coccole infantili e promesse rinnovate. Soli, nelle quattro mura della loro casa ritrovarono l’atmosfera che ben conoscevano.

Quella delle giornate e delle notti dei magnifici sei mesi che erano stati teatro del loro incontro. Quell’atmosfera che aveva portato con sé promesse di eternità.

Jared si svegliò prima dell’alba disturbato dal rumore graffiante della televisione davanti alla quale si erano addormentati abbracciati e che ora trasmetteva solo un serie infinita di puntini lampeggianti bianchi e grigi.

Un ramo scosso dal vento grattava contro il vetro della finestra ed il suo rumore era come un bussare.

La mano di Colin poggiava sul suo stomaco,le dita un po’ piegate a graffiare leggermente la pelle,a indicare uno strano senso di possesso. Sulle labbra un sorriso tra lo stupido ed il compiaciuto.

Poteva sentire la pelle di Colin contro la sua, e poi qualcos’altro a cui non voleva dare un nome,che scavava più a fondo. Sarebbe stato così facile convincersi che era questo che voleva. La pelle di Colin contro la sua per notti ancora che rotolavano lontano,così lontano che Jared non riusciva neanche a pensarle. Il corpo di Colin addormentato contro il suo ad uccidere i dubbi, a dire che l’amore esiste ancora. Lasciare allora gli anni alla deriva per ancorarsi, ancora, al suo corpo e amarlo una volta per tutte, ad ogni costo. Andare verso un punto calmo dove l’infinito e la pazzia sono cose di ieri.

Colin si voltò e lo coprì con il suo corpo; stranamente c’era una grazia inaspettata nei suoi movimenti che sembrava essere riservata solo a Jared nelle brevi ore del mattino quando il mondo è ancora mezzo addormentato. Non poteva pensare che fosse concesso a qualcun altro quel privilegio. Un senso di possesso, possesso assoluto, lo invase,ancora. Jared lo conosceva bene perché lo mangiava, come il mare fa con la sabbia,delicatamente,inghiottendolo un pezzo per volta

Sarebbe stato per sempre,se solo lo avesse voluto, e i rami che chiamavano fuori sarebbero rimasti soltanto rami.

Sarebbe stato facile crederci ora, lasciandosi il vecchio giorno alle spalle, camminare a sud verso i desideri voltandosi verso tutti i venti,anche quelli che avevano strisciato sotto ogni finestra che aveva incautamente lasciato aperta. Allora avrebbe potuto essere finalmente un essere umano. Non bello,ne di talento,ma solo fragilmente umano, e accettare che di quella fragilità si vedessero le crepe,e i pezzi rimessi insieme con fatica. Sarebbe stato facile credere che il silenzio aveva avuto torto. Sarebbe potuto essere per sempre, come ne sono convinte le ragazzine incoscienti.

Ma mai e sempre erano due parole di cui Jared aveva imparato a non abusare.

Se solo Colin avesse aperto gli occhi adesso,su di lui, se l’avesse baciato attirandolo a sé senza gentilezza,solo con possesso,forse non avrebbe scostato il braccio che ancora cingeva il suo stomaco.

Se avesse aperto gli occhi l’avrebbe obbligato a spostare lo sguardo dalla finestra verso di lui.

Se l’avesse visto avrebbe trattenuto i suoi passi legandolo ancora alla pace delle pieghe scure del suo corpo.

Se solo si fosse svegliato per parlargli di loro, dei sogni folli e passati, di quello che credeva morto nel suo fondo. Se solo si fosse svegliato per parlargli dei progetti che avevano fatto in cui lui aveva creduto davvero Jared sarebbe rimasto.

Ma il petto di Colin continuava ad alzarsi ed abbassarsi ritmicamente nell’oblio momentaneo del sonno. La sua mano stretta solo al lenzuolo.

Jared inspirò profondamente l’aria pungente del momento che precede l’alba.

Prima di conoscere Los Angeles aveva creduto che tutte le città si mettessero in moto lentamente, ma evidentemente non questa.

Non era ancora giorno eppure le macchine che andavano da un punto all’altro di strade troppo grandi, sembravano non essersi mai fermate. Le ore lì non esistevano,erano solo accavallate le une sulle altre e finivano per sparire in giornate sempre uguali. Doveva sembrare un pazzo,o un barbone, o semplicemente l’ennesimo rigurgito di una città impazzita, mentre camminava sul ciglio della strada. Le macchine che tagliavano l’aria vicino a lui facevano gonfiare la sua ridicola maglietta verde mentre i suoi piedi si incolonnavano diligentemente uno dietro l’altro in ricerca di un posto dove andare. In realtà non aveva idea di dove stava andando, ma continuava a camminare guardando dritto avanti.

Esattamente come quando era bambino. Le immagini di un altro tempo gli ritornavano in mente, come un vecchio ritornello di cui conosceva la parole ma che continuava a cantare male.

La madre non gli diceva mai dove stavano andando e lui non lo chiedeva. Si limitava a chiudere le cose nella valigia in una maniera maniacalmente ordinata. Tutto, almeno in quella valigia aveva un suo posto,un suo ordine preciso. Le maglie piegate a formare un quadrato, e qualche scarto di plastica che era apparso brillante ai suoi occhi di bambino nascosto con cura negli angoli, protetto dai troppi urti.

E poi ancora,cammina,vai avanti, non voltarti indietro, perché se la vita non gira nella direzione che vorresti, puoi sempre voltare dall’altra parte, costruirti una nuovo mondo e con lui una nuova identità. Non importa se chi sei diventato non ti piace, il Jared della Louisiana sarà diverso da quello di New York. Lo aveva imparato nel trascinarsi da uno stato all’altro, e poi da un paese all’altro, puoi sempre creare nuove storie per te stesso,bugie ingioiellate e venderle a chi ti sta intorno.

Non era questo il lavoro che aveva scelto? Fingere di essere un altro? Vendere pietre per diamanti?

Aveva camminato cosi tanto che quando si trovò la linea piatta dell’oceano davanti si guardò intorno sgomento. Come diavolo era arrivato fino a li ? Forse anche lui,come Colin, era indubbiamente figlio di sua madre, figlio delle partenze senza direzione, figlio di quel tutto e niente che chiamano America.

Jared chiuse gli occhi e,in un’altra caotica mattina los angelena si sporse verso il mare appoggiato alla balaustra e rimase in ascolto. Le onde, un gabbiano, le macchine. Ma il rumore che cercava era quello di un respiro. Un respiro lento in un corpo che troppo spesso possedeva come fosse la sua radice, la sua ancora al mondo. Un respiro nel sonno,un sussurro attraverso il cuscino di qualcuno addormentato in un letto che fino ad allora non aveva mai considerato suo

Un peso morto cadde su Colin e lui si voltò di soprassalto sentendo l’ormai familiare e puzzolente fiato di Judas sul collo.

“Io te lo ammazzo questo cane,Jared” disse con voce roca mentre cercava di liberarsi da dimostrazioni d’affetto non richieste. Si guardò intorno ma Jared non c’era. Si spinse fuori dal letto con uno scatto, e perlustrò il pavimento alla ricerca di qualcosa da indossare. Senza bussare aprì la porta del bagno comunicante con la camera da letto,ma Jared non era neanche li. Scese le scale verso il piano terra e la cucina

“Hai un minuto di tempo per scollarti dalla playstation Leto se sei lì, ed io farò finta di non averti visto, in caso contrario la farò mangiare al tuo cane”

Ma Jared non era vicino alla playstation che era dove l’avevano lasciata, affianco il cellulare di Jared, spento. E non era in cucina.

“Si può sapere dove cazzo sei?” disse Colin senza che nessuno lo ascoltasse. Era sparito nel nulla,con un numero da prestigiatore degno delle sue stronzate migliori, pensò Colin, Improvvisamente fu colto da un senso di panico. E se fosse successo qualcosa? Per qualche strano motivo il suo pensiero andò a Jimmy. Da quando era nato ormai più di due anni prima, Colin sembrava aver acquistato una percezione alterata della realtà, tutto si legava a lui, e sembrava aver cominciato a immaginare pericoli in posti insospettabili; a volte si chiedeva se essere un padre voleva dire avere anche una bella dose di paranoie; ma se fosse successo qualcosa a Jimmy, Jared l’avrebbe chiamato, non ne aveva dubbi.

Afferrò il cellulare di Jared, lo accese ma non vi trovò nessuna chiamata, nessun messaggio, tutto quel che gli disse era quello che già sapeva, che erano le 8.47, e che,come se fosse la cosa più naturale del mondo,Jared era sparito.

Si guardò intorno con fare spazientito, e adesso? Considerò brevemente l’opzione di chiamare Shannon.

“Ciao, sono Colin, stanotte tuo fratello ha scopato con me e poi è sparito, per caso e lì ?” Mancava solo quello per chiarificare la sua posizione con Shannon. Per qualche strano motivo il feeling tra loro non era mai scattato, e Colin,per una volta si riteneva del tutto innocente. Il fratello maggiore di Jared non aveva fatto altro che guardarlo in cagnesco dal primo momento, come se aspettasse un suo passo falso per poter dire “ecco, te l’avevo detto”

Fuori in giardino la Jeep di Jared con vetri scuri d’ordinanza e un adesivo rosso che diceva Thirty Seconds to Mars era ancora li.

“Va al diavolo,Jared” ringhiò tra i denti,mentre la rabbia montava tra il suo petto e il suo stomaco come la marea

Stava davanti al televisore come rincretinito mentre facce di Jared gli passavano davanti. Magari era uscito per prendere qualcosa per la colazione e adesso stava accasciato su un marciapiede come l’ultimo dei dimenticati,magari era rimasto schiacciato tra le lamiere grigie di due auto e lui avrebbe avuto la notizia dalla televisione come tutti gli altri. Scorse di nuovo la lista alfabetica di nomi sul suo cellulare nella vana attesa di un’idea, di qualcuno da poter chiamare, poi si alzò, riandò verso la finestra, guardando fuori. Nulla. Pensò di andare a prendere Jimmy e passare la mattina con lui, ma la mattina era quasi finita, nell’ eterna attesa di Jared. Una situazione troppo nota nella sua vita ultimamente.

Eppure era come avvinghiato nelle sabbie mobili, e solo vedere Jared che varcava quella porta, e sapere perché mai se n’era andato così, poteva essere la mano che lo tirava fuori da lì.

Come se improvvisamente avesse acquistato il poter di far materializzare i desideri Jared apparve sull’uscio e Colin si sentì come congelato. Sebbene non volesse farlo, l’istinto lo fece scattare in piedi come uno di quei pupazzi a molla che vengono fuori dalle scatole, era sicuro di averne anche l’espressione stupida “Che è successo? Stai bene?” Ma la risposta alla sua domanda era evidente, nulla sembrava diverso in Jared, se non che adesso era completamente vestito.

“Certo che sto bene” rispose Jared con tono noncurante “ Ti ho portato il giornale” Lasciò cadere una copia del Los Angeles Times con altrettanta noncuranza sul tavolino dell’ingresso.

Colin sentì la rabbia come una cosa viva espandersi nel suo corpo, allungarsi come un ombra dentro lui, tappandogli le orecchie

“Non me ne frega un cazzo del giornale!” gli urlò direttamente in faccia “Si può sapere che ti passa per quella testa malata? Credi di poterti alzare e andartene lasciandomi come un qualunque stupido che ti sei scopato sotto il palco di un concerto?”

Jared indietreggiò istintivamente per proteggersi dalla rabbia che sentiva nella voce di Colin, la comprensione che aveva sempre avuto per lui sembrava improvvisamente svanita.

“Non riuscivo a dormire sono solo andato a fare una passeggiata!” rispose in un sussurro

“Una passeggiata? Cazzo Jared alle nove non eri più in casa e adesso è…” si interruppe un attimo per guardare platealmente l’orologio malgrado sapesse esattamente che ore fossero “..sono le 12 e 36! Che cazzo di passeggiata hai fatto? E il telefono? Ti ricordo che lo hanno inventato da un pezzo esattamente come le sveglie!”

Si pentì di averlo detto prima ancora che la frase uscisse completamente dalla sua bocca. Non era giusto rinfacciare a Jared la giornata persa a causa dell’aereo dopo due giorni e dopo essersi mostrato condiscendente nel momento in cui lui si era scusato.

“Che cosa significa questo?” chiese Jared che abbandonò improvvisamente le vesti del bambino pentito

Colin non rispose e si voltò per andarsene. Dove non lo sapeva, ovunque. Ma Jared lo raggiunse e lo afferrò per un braccio obbligandolo a voltarsi.

“Ti ho chiesto cosa significa questo?” gli occhi erano di ghiaccio e la voce una lama sottile come un bisturi. Ma altrettanto tagliente.

Colin rimase zitto per un attimo. Sentì una voce dentro urlargli, implorarlo di tacere una volta tanto. Non era necessario rispondere. Non adesso comunque. Magari più tardi quando la rabbia fosse sbollita.

Ma Colin a volte era come uno squalo. Di quelli da cui Jared era tanto terrorizzato. Gli bastava l’odore del sangue e non era più in grado di fermarsi. Neppure volendolo.

“Vuol dire che per quanto mi riguarda potevi pure rimanere a Las Vegas!”

Il silenzio era così pesante che le parole di Colin sembravano essere state pronunciate dentro ad una grotta invece che in una stanza colma di mobili. Rimbalzavano come un’eco dal divano in pelle bianco e nero al tavolino di vetro, fino alla libreria bianca per poi schiantarsi nelle orecchie e nello stomaco di Jared. Colin abbassò lo sguardo e non vide Jared annuire in silenzio. Lo rialzò solo quando sentì la porta dello studio in cui Jared si rifugiava per comporre sbattere con violenza.

“Sì bravo!” urlò alla porta chiusa “scrivici una canzone. Almeno a qualcosa servo ancora!” e fu lui questa volta a prendere l’uscio di casa e uscire.

Passando di fianco l’auto di Jared guardò l’adesivo attaccato al parabrezza

“Maledetta band di merda” mugugnò fra i denti come se credesse davvero che la causa di tutto fosse solo e soltanto l’impegno musicale di Jared.

Si incamminò lungo il viale alberato trovando rifugio nell’ennesima sigaretta. Ma camminare non era mai stato uno sfogo per lui. Doveva pensare, riflettere e per farlo aveva bisogno di stare fermo perché per troppi anni aveva usato il suo corpo come fonte di distrazione.

Si sedette sul bordo di un’aiuola fiorita, curata, perfetta come solo a Beverly Hills e a Disneyland possono essere.

Che ci faceva lui a Beverly Hills?

Ma, soprattutto, che ci faceva Jared?

Fino a pochi mesi prima Jared abitava in un appartamento che Colin trovava splendido. Piccolo ma pieno di vita e di calore. Non c’era una cosa al suo posto ma nel disordine c’era partecipazione, serenità, accoglienza.

Fino a pochi mesi prima Jared non aveva una guardia del corpo e cucinava da solo.

Che cosa era successo dopo?

Le immagini della discussione appena avvenuta gli scorrevano davanti agli occhi e si soffermò sullo sguardo di Jared quando era stato attaccato al suo rientro.

Non era ferito o impaurito.

Era stupito. Come se davvero non si rendesse conto che lui aveva passato l’intera mattina a preoccuparsi, a sentirsi stupido e inutile.

Ma se era stupito allora non lo aveva fatto apposta. Perché quindi?

“Che cosa c’è Jared?” chiese in un sussurro alla fascetta in argento che portava prudentemente al pollice –il più lontano possibile dall’anulare- e che Jared gli aveva regalato una notte a Melilla.

Sospirando stancamente strinse il pollice ingioiellato dentro l’altra mano e le portò entrambe sullo stomaco piegandosi sopra come per proteggerle con il proprio corpo.

Fissando l’avanzare di un vigile che sicuramente gli avrebbe intimato di alzarsi e smammare perché a Beverly Hills non si può sostare sui marciapiedi, si chiese da cosa o da chi doveva proteggere quell’amore.

****

Jared stava disteso immobile sul divanetto dello studio. Le cuffie lo assordavano ma andava bene così.

Non pensava, non doveva pensare.

Ogni volta che pensava si perdeva nei labirinti della sua mente e ciò che faceva poi era sempre sbagliato. Tutti si arrabbiavano quando lui pensava. Anche da piccolo la madre allungava un braccio indietro mentre guidava verso l’ennesimo luogo sconosciuto e gli mollava uno scappellotto

“A che pensi?” diceva.

Lui istintivamente scuoteva lentamente la testa come a dire “a niente”, come a negare che stesse pensando senza capire però cosa ci fosse di sbagliato nel farlo.

Shannon regolarmente dormiva al suo fianco. Lui non prendeva sberle perché non pensava.

Improvvisamente la musica cessò. Aprì gli occhi istintivamente per controllare cosa fosse successo. Colin era di fronte a lui. In piedi, una mano ancora appoggiata all’interruttore dello stereo.

Jared si tolse le cuffie e si mise a sedere inspirando lentamente dal naso mentre le labbra si stringevano in una morsa carica di tensione.

Colin si sedette lentamente sul tavolino e gli prese una mano che Jared lasciò pesante, fredda.

“Scusa. Non intendevo dirlo” disse Colin incrociando le dita a quelle del compagno che non ricambiò la stretta.

“E’ che…” proseguì tremante. Si passò la lingua sulle labbra e deglutì a fatica “E' che non vedevo l’ora che arrivassero questi quattro giorni per stare insieme. Prima perdi l’aereo poi sparisci per un’intera mattina e quindi….”

Jared non rispose e a Colin venne il dubbio della validità delle sue motivazioni.

Poteva affrontare qualsiasi discussione ma il silenzio lo faceva capitolare. Forse perché il padre non lo aveva mai sgridato, mai una volta in vita sua. Semplicemente smetteva di parlargli, lo ignorava.

E il silenzio era per Colin la più dura delle punizioni. Anche adesso che era adulto, indipendente, ricco e famoso nelle rare volte che vedeva suo padre cercava la sua approvazione. Evitava più possibile i racconti della sua vita per non correre il rischio di incappare nel silenzio di disapprovazione di quell’uomo che aveva cercato di sedurre per tutta la vita e non ci era mai riuscito.

“Scusa” sussurrò piano lasciando la mano di Jared che ricadde pesante sulla sua gamba e si alzò per uscire dallo studio. Addosso la sgradevole sensazione che non avrebbe dovuto essere lui a scusarsi.

“Se ti avessi svegliato saresti venuto con me?”

La domanda di Jared lo fece bloccare sulla porta. Era carica di doppio senso malgrado sembrasse innocente. E lui lo sapeva.

Sospirò e resistette all’istinto di accendersi una sigaretta perché in quella casa non si poteva neppure fumare.

Si voltò. Jared era ancora seduto e lo guardava con espressione quasi di sfida sul volto. Colin gli si avvicinò lentamente e si sedette sul divano recuperato dal vecchio appartamento. Era sfondato e stinto ma Colin lo trovava molto più comodo di quello che faceva gran sfoggio di sé in sala.

E probabilmente la pensava così anche Jared visto che tutte le canzoni nascevano quando si accoccolava su di esso.

Jared non si spostò per fargli posto forse per obbligarlo a sedersi vicino a lui. Il più vicino possibile.

“Amore…”

A Jared sfuggì un sospiro nel sentirsi chiamare amore da Colin. Non succedeva spesso e quando succedeva era generalmente usato in tono ironico. Jared brontolava o faceva richieste assurde a Colin il quale con condiscendenza troncava con un “Sì amore…..” pronunciato e un “basta che stai zitto” sottointeso. A Colin non sfuggì la reazione di Jared che quasi vergognandosi teneva la testa bassa. Dolcemente gli prese il volto fra le mani obbligandolo a guardarlo

“Amore” ripeté per dare la conferma che Jared andava cercando. Quella di essere il suo amore malgrado tutto.

“Vuoi che esca con te? Che mi faccia vedere insieme a te? E’ questo il problema Jared, quello che ti manca? Dimmi che è questo e io farò quello che vuoi. Indosserò il braccialetto della tua band, mi farò tatuare il tuo assurdo simbolo su un braccio, metterò fine alla leggenda metropolitana che ci vede amanti da due anni confermando che è vera. Dimmi solo che è questo che vuoi veramente, dimmi solo che dopo tutto sarà perfetto.”

Jared scosse la testa distogliendo lo sguardo

“Sarebbe la fine della tua carriera”

“Sì lo sarebbe ma sono problemi miei. Tu guardami e dimmi solo che ti basterà.”

Jared abbassò lo sguardo per difendersi questa volta. Come poteva quel giovane, egocentrico, egoista irlandese leggere così bene nella sua anima?

Era improvvisamente diventato il centro delle attenzioni di Colin ma invece di esserne felice si sentiva come una cavia su cui si sta sperimentando un farmaco rivoluzionario.

E poi perché lo faceva? Fino a pochi mesi prima era stato il compagno ideale, presente ma non invadente. Ora si era messo a scoperchiare le tombe. Cosa pensava di trovarci sotto? Non sapeva che sotto le tombe ci sono solo dei morti?

“Non voglio niente del genere” scosse la testa per liberarsi dalla presa di Colin e si alzò.

“Ho sete” disse avviandosi verso la cucina “Vieni?” aggiunse poi lanciando un salvagente al quale Colin avrebbe potuto attaccarsi se lo voleva.

Quando Colin lo raggiunse in cucina Jared dava le spalle alla porta. Stava aprendo due bottigliette di Corona, due fettine di limone erano già pronte in un piattino per essere immerse nella birra.

Colin si avvicinò a lui lentamente e con altrettanta delicatezza si appoggiò al suo corpo cingendogli i fianchi.

“E allora cosa vuoi?” chiese dolcemente inspirando il profumo della sua pelle. La guancia appoggiata alla sua spalla.

Jared lasciò scivolare la mano lungo la piccola bottiglia ghiacciata. L’espediente birra non era servito a distogliere Colin dalla sua assurda crociata.

“Non lo so” la risposta era appena sussurrata ma troppo immediata per far dubitare che fosse vera.

Quel –non lo so- fu come una pietra lanciata in pieno petto. Colin si sentì come quella volta da bambino, quando suo fratello tirando un rigore, gli stampò il pesante pallone di cuoio proprio fra le costole e lo stomaco. Cadendo a terra aveva pensato che non sarebbe mai più riuscito a ricominciare a respirare.

Istintivamente strinse Jared più forte mentre davanti agli occhi chiusi gli passavano immagini di uomini che tenevano la mano di Jared durante interviste, donne che sfoggiavano il suo autografo sui piedi, ragazze sedute al suo fianco durante la pause delle prove.

Sperimentando per la prima volta in vita sua il terrore sordo che si prova quando non si è più sicuri di essere amati si sentì rotolare giù dal piedistallo dorato sul quale era appollaiato da anni, costruito sulla presunzione che nessuno possa disinnamorarsi di Colin Farrell.

Si sentì vulnerabile come un neonato e patetico come la bruttina della scuola innamorata del più bello della classe.

Inspirando appena strusciò la fronte sulla spalla di Jared

“Jared?”

“Dimmi”

“Se sono io il problema dimmelo, voglio dire….siamo adulti, se sei…..stanco….di me”

Si interruppe a metà perché non era sicuro di volere una risposta.

Si era esposto all’abbandono, aveva servito a Jared su un piatto di argento l’opportunità di dirgli che era finita. Ma si conosceva. Avrebbe potuto affrontare un abbandono per quanto doloroso ma una paura latente lo avrebbe fatto impazzire.

Jared si voltò repentinamente fra le sue braccia. L’espressione di totale stupore

“Stanco di te? Colin ma….? Come ti viene in mente?”

Prese ad accarezzargli i lunghi capelli castani ma il gesto era talmente frenetico da non risultare rassicurante.

“Col ti prego. Ho perso l’aereo e sono solo andato a fare una passeggiata. Lo sai come sono fatto. Ogni tanto…” si interruppe sorridendo nervosamente “Ogni tanto mi perdo ma ti assicuro che tutto questo non ha niente a che fare con te!”

Colin interruppe le carezze tremanti prendendo le mani di Jared fra le sue

“Con cosa ha a che fare allora?”

“Sono solo stanco Col. Fisicamente e psicologicamente, questo tour mi sta uccidendo lo sai”

“E allora interrompilo!”

Jared lo guardò come gli avesse detto di aspettare un figlio da lui. Assurdo, neppure concepibile.

Colin conosceva quell’espressione smarrita fin troppo bene

“Jar sei in tour da sei mesi senza sosta. Ogni sera che Dio manda in terra e un posto diverso ogni volta. E’ normale che tu sia stanco. Fermati. Non è necessario proseguire”

“Che vuoi dire?” rispose Jared disorientato

Colin sospirò e prese il volto di Jared fra le mani.

Si stupì nel constatare che era un gesto che faceva sempre anche con James. Quando suo figlio lo guardava con occhi sognanti e Colin si sentiva risucchiare dall’amore più grande che avesse mai provato in vita sua gli prendeva le lisce e morbide guancine fra le mani e gli baciava la punta del naso.

Per Colin quel gesto era più di un abbraccio, più di un bacio. Nel suo linguaggio senza parole significava “Sono qui. Solo per te!”

“Vuol dire” proseguì dolcemente “che hai fatto ciò che volevi. Volevi dimostrare a te stesso e agli altri di saper cantare davvero, che non ti facevano cantare solo perché sei bello o perché ti chiami Jared Leto e lo hai fatto. Hai scritto delle canzoni stupende, hai venduto un mucchio di dischi, hai fatto un tour di mesi. Basta così Jared. Non hai più bisogno di dimostrare niente a nessuno”

Jared ancora una volta si pietrificò fra le sue mani. Colin poteva percepirlo dalla tensione improvvisa delle guance.

“Non posso mollare, non adesso, manca solo un mese”

“Ma non è una gara! Perché la vivi come se lo fosse?”

Jared sentì per un fugace momento l’istinto e la voglia di aprirsi, di spiegargli perché doveva sempre avere conferme e perché poi non gli bastavano mai.

Fargli vedere il loop mentale nel quale si trovava.

Ma era troppo pericoloso. Doveva essere perfetto. Anche agli occhi del suo compagno

“Non è così Col. E’ solo che ho firmato un contratto e non posso mollare altra gente per strada in questo modo. Te l’ho detto, manca solo un mese. Ce la farò. Sono stanco ma ce la faccio, davvero!”

Colin non rispose e Jared lo incalzò “Ho solo bisogno di un po’ di tempo. Solo un altro po’ Colin. Poi sarà finito e io mi riprenderò. Ti prometto che dormirò per una settimana intera e metterò anche su dei chili.”

Colin lo osservava sempre più incredulo. Lo stava pregando come dipendesse da Colin il futuro del suo sogno

“A dicembre andremo in Irlanda dai tuoi” proseguì Jared stringendo forte le mani di Colin “poi in gennaio a New York insieme. Non era questo che dovevamo fare? Tu vuoi ancora farlo vero? Staremo insieme tutto il tempo, vero?”

“Che gli succede?” pensò Colin attonito. Le labbra dischiuse e le ciglia aggrottate nel tentativo di comprendere.

Era lui ad aver chiesto rassicurazioni e Jared, pensando di fornirgliele, non faceva altro che elemosinare freneticamente delle conferme.

Capitolò pur senza comprendere e gli sorrise.

Jared si buttò nel suo abbraccio

“E’ tutto a posto! Vero?” mormorò Jared nel suo collo

“Sì Jared, è tutto a posto!”

Alzò gli occhi sopra la spalla del compagno e attraverso la portafinestra vide Judas e Lucipher che si azzuffavano in giardino. Prima vivevano in un piccolo appartamento, ora avevano un immenso giardino a disposizione ma ogni giorno lottavano per conquistare un piccolo spazio vicino alla siepe.

Forse anche per loro quel luogo era estraneo.

(tbc)

  
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