CONTEST HOGWARTS E DINTORNI – SESTA
CLASSIFICATA
Autore: Mizar19
Titolo: Phyllis
Genere: Sentimentale, Triste
Avvertimenti: shoujo-ai, OC, Missing moments
Rating: giallo
Note: Tutti i personaggi qua citati appartengono a J.K. Rowling, tranne Jacinth McKinnon che appartiene a me.
***
PHYLLIS
Era
finita.
Nella
Sala Grande, schiamazzi e cori festosi si sovrapponevano creando
cacofonici
rimbombi grazie all’alta e ampia volta gotica. Ragazzi,
insegnanti, genitori,
fantasmi: seduti alla rinfusa, mescolati, incuranti delle diverse Case
di
appartenenza. Per troppo erano stati divisi, accecati dalle differenze
e dai
pregiudizi.
Il
Male era stato sconfitto definitivamente. Nessuno, in quel momento,
osava
credere il contrario: persino il sole pareva più luminoso,
donando ai presenti il
calore dei suoi raggi attraverso le grandi finestre.
Minerva
McGranitt stava in piedi, un po’ in disparte, lo sguardo
vigile che si spostava
rapido in quel connubio di gioia e risate. Osservò gli
studenti della sua Casa
fiera, orgogliosa, proprio come una madre. Un bonario sorriso deformò i suoi
lineamenti solitamente austeri
quando i suoi occhi si posarono sul giovane Neville. Era cresciuto, era
cambiato. Aveva finalmente dimostrato a sua nonna, la severa signora
Augusta
Paciock, che ora sedeva accanto a lui, di essere degno dei suoi
genitori.
Già,
Alice e Frank.
Molly
aveva messo fine alla vita di quella cagna.
Strinse le labbra.
Bellatrix
Lestrange.
Non poteva essere davvero morta: la
sua ombra l’aveva perseguitata per tutta la vita, uccidendo
le persone a lei
care, amici e compagni. Era un sollievo talmente grande da apparire
inverosimile. Facendo scivolare lo sguardo sulle lisce pareti di
pietra, alzò
gli occhi verso il soffitto della Sala Grande, dove in quel momento
splendeva
il sole.
Le
sfuggì un singhiozzo.
Stupida,
Minerva! Dovresti essere
felice, Riddle è stato sconfitto una volta per tutte!
Si
ricompose rapidamente, aggiustandosi il mantello verde smeraldo, per
poi
ritrovarsi a pensare al vecchio Ordine della Fenice.
Ad
Edgard Bones, zio di Susan, ucciso poco prima che, quella fatidica
notte di
Halloween, Voldemort perdesse i suoi poteri. A Dearborn Caradoc,
scomparso
molto tempo prima, senz’altro morto. Ai fratelli Prewett, gli
zii di Ronald e
Ginevra, uccisi da quel mostro di Dolohov, che ora, grazie al professor
Vitious, era in mano alla giustizia. A Benji Fenwick, mutilato, fatto a
pezzi
senza alcuna pietà dai Mangiamorte. A Jacinth McKinnon.
Sussultò
e un nuovo bruciore le scottò le palpebre. Erano passati
trent’anni, forse di
più.
-
Professoressa, si sente bene? –
Era
la calda voce di Neville, avvicinatolesi senza che nemmeno se
n’accorgesse.
-
Assolutamente. Sono solo un po’ scossa... – si
ricompose rapidamente, assumendo
il suo solito piglio severo, nonostante non potesse negare il malessere.
-
E’ comprensibile. Come mai non viene a sedersi con noi?
–
-
Sei molto gentile, Neville, ma devo... devo fare una cosa –
Senza
ulteriori spiegazioni, uscì dalla Sala Grande.
Rapida,
salì le scale fino al terzo piano. Avrebbe potuto percorrere
quella strada ad
occhi chiusi: viveva in quel castello da troppo tempo.
Spalancò
il pesante portone appoggiando sul legno antico i palmi aperti,
lasciando che
la sua pelle venisse accarezzata dalle venature del legno.
Le
teche di cristallo scintillavano, traboccanti di trofei, prova
tangibile e
incorruttibile delle gesta dei loro vincitori. Minerva rimase immobile
sulla
soglia, esitando. Sapeva che, se fosse entrata, i ricordi
l’avrebbero travolta
come le onde di un mare in tempesta, impregnandole l’animo di
dolore. Ma doveva farlo. Minerva
McGranitt non era
una donna debole, non lo era mai stata: aveva dimostrato più
volte forza e
determinazione, combinate ad un’eccellente
proprietà della magia. Ciò l’aveva
resa una delle streghe più potenti
dell’età moderna. Non avrebbe ceduto in quella sala, non di fronte al successo
altrui.
Rinchiuse
silenziosamente la porta alle sue spalle.
Nemmeno
la Sala dei Trofei era stata risparmiata dalla furia distruttrice dei
Mangiamorte: intere teche erano riverse sul pavimento di pietra,
schegge di
vetro sparse ovunque. Le coppe, le medaglie per terra, confuse ai
frammenti
legno e alle targhe commemorative. La luce rimbalzava sulle loro
superfici
metalliche, creando un affascinante gioco di scintillii. Alcuni piatti
e scudi
si era staccati dalle pareti ed ora giacevano ammaccati in quel
disordine.
Osò
muovere un passo avanti, prestando attenzione a dove poggiava i piedi.
Conosceva
alla perfezione ogni pietra di quel luogo, ogni crepa, ogni iscrizione.
Aveva
trascorso con Jacinth più tempo in quella stanza di quanto
desiderasse
ammettere.
Non
era mai stata troppo interessata ad apparire una studentessa modello,
nonostante fosse fra le streghe migliori della scuola, piuttosto,
preferiva
reagire secondo i propri principi, assecondando i suoi ideali, in cui
credeva
ciecamente. Jacinth possedeva una forza d’animo fuori dal
comune.
La
professoressa McGranitt s’inciampò in una coppa
dorata. Si aggrappò ad
un’armatura per evitare di franare al suolo fra vetri
taglienti e metallo
appuntito. Il cuore le batteva forte per lo spavento, non osava mollare
la
presa sul braccio di metallo che le si era improvvisamente offerto.
Rimase
immobile per alcuni eterni istanti, poi decise che non valeva la pena
affaticarsi le braccia per uno stupido cedimento, fosse esso fisico o
spirituale. Si sollevò con un certo sforzo, sistemandosi
alcune ciocche che erano
sfuggite già in precedenza dalla severa crocchia.
Abbassò
gli occhi verso quel marasma di metallo e vetro. Ciò che
attirò senza indugi la
sua attenzione fu una targhetta all’apparenza insignificante:
era un
riconoscimento per il primo classificato al torneo di scacchi
scolastico del
1929, in questo caso la prima classificata, tale Edelfa Marshall. Ma
dietro
quell’anonima incisione si celavano ricordi al contempo
piacevoli ed amari,
marchiati a fuoco nel freddo metallo.
-
Andiamo, Minerva! Un po’ di olio
di gomito! – esclamò Jacinth dandole una spinta
leggera sulla spalla, come
unico fine quello di divertire l’amica imbronciata. Invece
quella finì gambe
all’aria.
Essere
accucciate per terra non
aiutava l’equilibrio.
-
Quanto sei goffa! Lasciami stare!
– borbottò seccata Minerva, rassettandosi la veste.
-
Sei sempre così seriosa, Minerva.
Lasciati andare – mormorò la piccola ragazza
avvicinandosi con una strana luce
negli occhi, una luce che lasciava Minerva senza fiato e con le gambe
tremanti.
-
È colpa tua se sto nettando le
coppe altrui, ricordalo –
-
In realtà ti sei offerta
spontaneamente di accompagnarmi in questa punizione – la
rimbeccò Jacinth.
Nella sua voce non c’era traccia di amarezza o rancore,
né di rabbia, solamente
la giocosità che la rendeva così affabile e
attraente.
-
Solo perché sei mia amica –
sbuffò Minerva, riponendo per un attimo lo straccio umido.
Non era permesso
usare la magia durante le punizioni.
-
Ehi, Minerva, guarda qua! Edelfa
Marshall! Sarà parente di August Marshall? –
domandò improvvisamente Jacinth,
afferrando una polverosa targa di piccole dimensioni.
-
Perché dovrei avere la risposta?
–
-
Tu hai sempre la risposta –
-
Jacinth... -, Minerva osservò la
minuta ragazzina avvicinarsi a lei lentamente.
-
Minerva, sei l’unica persona che
si ostina a chiamarmi così – la
rimproverò bonariamente. Minerva deglutì,
nervosa.
Ultimamente
trovava piuttosto strani
diversi comportamenti della sua amica, ad iniziare dal modo sensuale in
cui le
sorrideva.
-
Hai ragione, Phyllis, ma per me
tu sarai sempre la piccola Jacinth –
-
Sai che lo detesto... –
finalmente Jacinth fu così vicina da afferrarle le mani,
intrecciando le sue dita
con quelle dell’amica.
Minerva
scrutò attentamente i suoi
grandi e tondi occhi azzurri, intensi come il cielo terso
d’estate e dolci come
una cucchiaiata di miele. Era esile, di bassa statura, per questo
Minerva la
sovrastava di almeno venti centimetri e Jacinth era costretta a
sollevare il
capo.
-
Non sono un esempio di brillante
condotta, ma penso di essere una persona leale, pronta a battersi per i
suoi
principi. Resterai al mio fianco anche se mi metterò nei
pasticci, vero? –
Lo
sguardo di Jaicnth era così
carico di speranza e aspettativa che il gelido cuore di Minerva si
sciolse per
un istante.
-
Certo, Phyllis. Sei la mia
migliore amica... –
Non
era incline alle manifestazioni
d’affetto, né alle smancerie. Preferiva approcci
seri e distaccati,
professionali e asettici. Non si lasciava andare a slanci passionali,
ogni
passo era impregnato di razionalità. Questa volta,
però, si abbandonò a quel
piacere irrazionale e confuso che le causava la vicinanza umana. Erano
gli anni
della Grande guerra babbana: ancora non era iniziata, ma la si poteva
fiutare
nell’aria. Anni nei quali ai ragazzi si impartiva
un’educazione severa e la
disciplina si inculcava piuttosto rigidamente.
La
professoressa McGranitt non potè evitare di sorridere
tristemente rievocando
quel grande sorriso sbilenco che caratterizzava il pallido viso della
piccola
Jacinth, sempre rivolto verso l’alto, curioso, insaziabile.
Proseguendo
oltre con lo sguardo fu come accelerare i ricordi nella sua mente: i
modi
sempre accorti e talvolta ambigui di Jacinth nei suoi confronti, alcuni
scatti
d’immotivata ira e quell’ardore che si alimentava
ogni volta che Minerva la
appoggiava in qualsiasi genere di iniziativa. Era arrivata a
comprendere ogni
cosa all’inizio del sesto anno.
Non
aveva mai compreso l’origine di quel soprannome, fatto sta
che era notte e lei
si era svegliata dopo un sogno tremendo, piangendo. Jacinth non
c’era.
La
professoressa McGranitt scavalcò uno scudo bronzeo,
ammaccatosi nella caduta.
Riluceva di danzanti riflessi ramati, proprio come i suoi capelli quel
giorno.
Ricordava
perfettamente l’ansia che aveva percepito attraverso quel
letto vuoto. Si era
alzata di scatto, indossando solo la lunga e candida veste da notte. Le
era
venuta voglia di un bagno caldo: l’avrebbe
senz’altro tranquillizzata.
Sapeva
che era severamente proibito camminare per i corridoi durante la notte:
se
l’avessero scoperta avrebbe passato guai seri. Quella notte,
però, Minerva si era
sentita intoccabile, pronta a sfidare chiunque le si fosse parato
davanti. O
qualunque cosa.
La
professoressa McGranitt non riuscì a non sorridere
rievocando momenti della sua
carriera da insegnante che avevano comportato punizioni nei confronti
di alunni
indisciplinati, sorpresi al di fuori dei loro letti nel cuore della
notte.
Lei,
ormai molti anni addietro, aveva sfidato quella stessa
autorità per il
desiderio irresistibile di un bagno caldo. Avrebbe infranto due regole
in un
colpo solo: voleva, infatti, accedere al meraviglioso bagno dei
prefetti,
ricoperto di mosaici, profumato, sempre colmo di fluttuante vapore
acque.
Conosceva la parola d’ordine, lei era una studentessa
modello: senz’altro
sarebbe diventata prefetto l’anno successivo. Guidata da quei
pensieri aveva
attraversato corridoi neri, fino al portone del bagno dei prefetti.
Aveva
sussurrato la parola d’ordine e il legno si era aperto per
lei, senza uno
scricchiolio. Fu allora che lo udì distintamente: qualcuno
aveva pronunciato
con tono piuttosto enfatico Phyllis.
Si
era richiusa la porta alle spalle senza far rumore, per poi avvicinarsi
alla
sorgente della voce.
Aveva
intravisto la scena attraverso una cortina di vapore acqueo: due corpi
avvinghiati, sudati, che lottavano su quel pavimento mosaicato, vicini
al bordo
di una delle vasche.
Non
aveva osato pronunciar parola o produrre rumore alcuno,
tant’è che nessuna
delle due si accorse di lei.
-
Phyllis... sì! – ansimava la ragazza distesa
supina sulle tessere cerulee, la
schiena che si inarcava sinuosamente, mentre le punte dei capelli
ramati di
Jacinth le sfioravano il seno. Minerva la riconobbe grazie ai
lunghissimi
capelli neri: era Abigail Stanford, prefetto dei Corvonero.
Non
osava guardare il corpo di Jacinth, né udire i suoi
sussurri. Ciò che stavano
facendo era proibito, inammissibile!
Minerva
era rimasta a lungo a rimuginare su quella nuova visione, la pelle che
le si
imperlava di argentee goccioline a causa del calore.
Ad
un certo punto, al culmine del rapporto, Jacinth si era accorta della
sua
presenza. Era scattata in piedi e si era messa a cercare furiosamente
la sua
divisa, scaraventata da qualche parte. L’altra si era profusa
in scuse e
l’aveva scongiurata di non fare la spia, altrimenti sarebbero
finite in guai
seri. Minerva aveva acconsentito stancamente: il suo corpo e la sua
mente non reagivano,
inerme di fronte alla realtà che si parava dinnanzi ai suoi
occhi.
Avevano
accompagnato Abigail Stanford fino alla statua di Priscilla Corvonero,
poi si
erano dirette verso il dormitorio dei Grifondoro, in silenzio.
-
Dobbiamo parlare – aveva stabilito repentinamente Jacinth,
immobilizzandosi.
-
Di cosa? –
-
Minerva, riesci ancora a sorprendermi – aveva sussurrato, la
voce aspra e
carica di rimprovero.
-
Andiamo nel dormitorio –
-
No, vieni con me –
Prima
di quella notte le avrebbe preso la mano per condurla, ora si limitava
a
precederla di alcuni passi, voltandosi saltuariamente per controllare
che
Minerva, data la sua camminata silenziosa, continuasse a seguirla. Quel
muto
inseguimento s’interruppe di fronte alla Sala dei Trofei.
Jacinth si era
guardata rapidamente attorno, poi aveva spalancato con fatica il
pesante
portone. Nessun cigolio aveva squarciato il silenzio delle tenebre.
-
Il legno è abbastanza spesso da evitare di essere sentite
– aveva detto,
portandosi verso la parete opposta all’ingresso come
ulteriore precauzione.
-
Io non ho nulla da dirti – aveva mormorato Minerva.
La
professoressa McGranitt raggiunse quella stessa parete, accarezzando
per un
istante il fantasma di quei ricordi giovanili, facendo scivolare le
dita
anziane sulla ruvida pietra. I suoi occhi fissarono il punto esatto dal
quale
Jacinth l’aveva guardata con così tanta rabbia.
-
Perché sei venuta?! – aveva domandato con un
ringhio.
-
Non è stata un’azione premeditata –
-
Con tutto il castello sei finita per
sbaglio nel bagno dei prefetti? -, Jacinth non demordeva, gli
occhi cerulei
ridotti a fessure.
-
Un incubo... tu non c’eri... avevo voglia di un bagno
caldo... – sussurrò
Minerva, improvvisamente imbarazzata per quei bisogni così
terribilmente
irrazionali: avrebbe potuto tranquillamente attendere il giorno
seguente,
avrebbe potuto non domandarsi dove fosse finita l’amica.
-
È la tua scusa migliore?! – aveva esclamato,
gesticolando furiosamente.
-
Non... non è una scusa, Jacinth -, dopo un profondo respiro,
Minerva aveva
ritrovato la sua solita compostezza e razionalità.
-
Cosa pensi di me, ora?! Non riflettere, rispondimi istintivamente: cosa
pensi
di me? – domandò Jacinth, la voce che tremava.
-
Ami Abigail Stanford? – aveva domandato Minerva pacatamente.
-
No – aveva ringhiato l’altra in tutta risposta.
-
Io non penso che tu sia una persona peggiore. Tu sarai sempre mia
amica, la mia
più cara amica... Phyllis –
Dopo
tanto tempo, l’aveva finalmente chiamata come lei desiderava.
Nessuno a scuola
la chiamava Jacinth: per gli insegnanti era la signorina McKinnon, per
gli
studenti semplicemente Phyllis. Minerva era l’unica a
perseverare nella sua
testardaggine.
-
Minerva... – aveva mormorato, andandole incontro lentamente.
-
Perché facevi quelle cose con Abigail Stanford se non la
ami? – le aveva
domandato impulsivamente, spinta dal suo stomaco.
Le bastarono pochi secondi per pentirsene.
-
Perché la persona che amo è troppo stupida per
accorgersene – aveva mormorato
con tono amaro.
-
Posso sapere chi è? – aveva osato domandare,
interrogandosi se non stesse
esagerando con la curiosità: era sbagliato intromettersi
così nella vita
privata degli altri.
-
Minerva, siamo nella Sala dei Trofei: non ti dirò mai il
nome del mio più
grande fallimento sentimentale mentre siamo attorniate dalle vittorie
altrui.
Sarebbe umiliante –
-
Come preferisci, Phyllis, ora però torniamo a dormire
–
La
professoressa McGranitt seguì con lo sguardo le due ombre
allontanarsi, mano
nella mano, indifferenti al vetro rotto e tagliente, al metallo
incrinato e
alla fine della guerra che, nella Sala Grande, si stava ancora
festeggiando.
Strinse
i denti, appoggiandosi alla parete. Avrebbe dovuto darle una
possibilità,
avrebbe dovuto...
Si
lasciò scivolare lentamente al suolo, la schiena che
strofinava vigorosamente
contro il muro. Seduta sulla fredda pietra, i suoi occhi raggiunsero la
teca
dei trofei di Quidditch. Là, proprio là davanti,
avrebbe dovuto concederle
quell’occasione.
Un
singhiozzo la fece sussultare, mentre il rimorso la corrodeva ancora
dall’interno.
Si augurava solamente che Phyllis, ovunque si trovasse, fosse felice.
-
Perché non riesci mai a
contenerti, Jacinth? – ringhiò seccata Minerva,
sbattendo lo straccio bagnato
contro il vetro della teca. Dietro ad esso le attendevano coppe
impolverate e
opache da ripulire. Sarebbero state impegnate in
quell’ingrato lavoro per
almeno due ore.
-
Non posso scendere a compromessi
se si tratta dei miei ideali – sentenziò la
piccola rossa, strizzando nel
secchio il suo straccio. I suoi occhi cerulei fiammeggiavano,
conferendo un
ossimorico fascino al suo sguardo.
-
Perché ci casco tutte le
volte?Non riesco a farmene una ragione... – sbuffò
Minerva, parlando con se
stessa, ma Jacinth s’intromise in quel monologo ad alta voce.
-
Perché sei mia amica –
Minerva
arrossì. Non avevano più
parlato dell’incidente di due mesi prima nel bagno dei
prefetti. Non avevano
nemmeno discusso della vita privata di Jacinth, che si chiudeva a
riccio ogni
volta che l’amica toccava l’argomento.
-
Jacinth... –
Minerva
sospirò, lasciando cadere
lo strofinaccio bagnato, che produsse un umido suono atterrando sulla
pietra
del pavimento. L’altra ragazza le si avvicinò,
muovendosi a gattoni,
sinuosamente. Sentì le caviglie tremarle, nonostante fosse
inginocchiata.
-
Jacinth... cosa... –
Phyllis
allungò una mano e le
sciolse la crocchia severa con cui usava raccogliere i lunghi capelli
corvini
fin da giovane. Minerva rimase immobile, mentre l’amica le
passava lentamente
le dita fra i capelli, scombinandoglieli lentamente. La ragazza chiuse
gli
occhi, il volto circondato dalle lunghe ciocche scure.
-
Perché non li lasci sciolti? –
mormorò Jacinth, posandole una mano sulla guancia.
-
Non si può, bisogna legarli –
rispose seria Minerva.
-
Sono solo restrizioni stupide, io
li tengo sciolti... –
-
E ti cacci sempre nei guai – la rimbeccò
senza muoversi, lasciando che Jacinth continuasse a scompigliarle i
capelli, la
mano sinistra sempre appoggiata con delicatezza alla sua gota arrossata.
-
Può darsi che ci sia un nesso...
– sussurrò Jacinth, restringendo drasticamente lo
spazio che separava le punte
dei loro nasi.
-
Fra capelli sciolti e azioni
sconsiderate? – domandò Minerva, sogghignando.
Aveva
perso il controllo,
completamente: non si era mai sentita così. Quel malizioso
gioco di sguardi la
tormentava tanto piacevolmente che desiderava dolorosamente quel bacio
che
ancora aleggiava nell’aria circostante, vicino
però al concretizzarsi.
Il
suo sorriso fu catturato dalle
labbra rosee di Jacinth. Minerva trasalì, gemendo.
Muovendosi
con esasperante
pacatezza, le labbra dell’amica sfioravano le sue, in una
danza sensuale,
mentre un piccolo fuoco si accendeva dentro di lei.
-
Minerva... – sussurrò Jacinth,
chiudendo gli occhi e separando per una frazione di secondo le loro
labbra.
Il
cuore di Minerva rombava con
forza, assordandola, pulsando il sangue con vigore. Le guance le si
arrossarono
e un calore sconosciuto le attraversò il basso ventre,
lasciandola frastornata.
Non si era mai sentita così, specialmente perché
non aveva mai avuto nessuno
con cui sperimentare quel genere di cose.
Jacinth
si spinse contro Minerva,
una mano sempre fra i capelli, l’altra sulla sua schiena,
seduta sul suo
bacino. Minerva le cinse i fianchi in un tenero abbraccio e le loro
morbide
curve si scontrarono piacevolmente. Attorno a loro, la Sala dei Trofei
sbiadì
lentamente.
-
Phyllis! – ansimò Minerva, quando
l’amica (amica? Poteva davvero continuare a definirla
così ingenuamente?)
rinvigorì il bacio, penetrando la sua bocca con passione.
Si
vergognò immediatamente per quel
suono, emesso senza che lei avesse potuto impedirlo. Era stato
così spontaneo
che ne era terrorizzata.
Fino
a che punto si sarebbe spinta?
Ma, soprattutto, fino a che punto voleva spingersi?
La
lingua di Jacinth si muoveva
sinuosamente, calda, piacevole fra le sue labbra. Minerva chiuse
nuovamente gli
occhi, abbandonandosi all’altra ragazza, anche se non
totalmente. Una parte del
suo cervello rimaneva vigile, pronta ad intervenire.
La
gonna della divisa di Phyllis si
sollevò del tutto a causa dei movimenti ritmici che
coinvolgevano le due,
assorte da quella danza sensuale, e Minerva percepì il
calore che emanava.
-
Era da tanto che ti desideravo –
le confidò Jacinth, spostando le sue attenzioni sul collo
dell’altra, che reagì
rovesciando il capo all’indietro.
-
Ero... ero io la persona...
stupida... che non se ne era resa... conto –
boccheggiò Minerva, tremante,
mentre i polpastrelli di Jacinth le sfioravano il piccolo seno sodo,
trovando
facilmente il piccolo rigonfiamento in corrispondenza dei capezzoli.
Jacinth
annuì, la bocca ancora
premuta contro la pelle del suo collo, dove aveva affondato i denti.
Subito
dopo fece una cosa che spiazzò Minerva, spingendola a
ritrarsi: le mormorò
quelle due gravose parole che esprimo il sentimento più
impegnativo di tutti,
le mormorò a fior di pelle ti amo.
-
Mi... Minerva, mi dispiace –
mormorò Phyllis, agitata per la repentina reazione
dell’altra, tutt’altro che
quella sperata.
-
Jacinth... –
In
quel momento tutto ritornò a
fuoco: era stato stupido da parte sua cedere in quel modo ad un istinto
irrazionale, per di più fare certe cose con la sua migliore amica! Quando Jacinth
l’aveva sfiorata così intimamente, confidandole
quel sentimento e aprendosi a
lei,rendendosi dunque vulnerabile!, non aveva potuto far altro che
prendere
atto della realtà delle cose: lei non era innamorata di
Jacinth, nonostante
l’amica risvegliasse istinti che erano rimasti a lungo
assopiti in lei. Come
poteva ferire in quel modo la sua unica amica, ricambiando il suo vero
amore
con qualcosa di inferiore e indegno?
-
Avrei dovuto immaginarlo che
sarebbe finita così, Minerva –
constatò, rassettandosi la gonna e i capelli,
voltando il viso.
-
No, ascoltami: io non ti amo come
tu ami me, però ti voglio bene, molto... Non voglio
prenderti in giro... –
-
Però ti piaccio, non puoi
negarlo! –
-
Sì, mi piaci – dovette ammettere
Minerva, scostandosi i lunghi capelli dagli occhi.
-
E allora perché non posso provare
ad essere la tua compagna? Perché mi respingi? –
sussurrò ferita, le lacrime
agli occhi.
-
Perché è meglio così. Io non
sono... io... vorrei un uomo al mio fianco –
pronunciò a bassa voce quelle
parole, che parvero false persino a se stessa. Lei desiderava Phyllis,
ma non
era sicura che il suo sentimento fosse all’altezza. Anzi,
senz’altro non lo
era.
-
Ti prego, Minerva, dammi una
possibilità! Posso... posso essere il tuo uomo –
le afferrò con impeto una
mano, baciandola ancora. Per alcuni secondo Minerva rimase inerte,
incapace di
reagire, poi la scansò gentilmente.
-
No, Phyllis, è meglio così –
La
rossa non rispose: iniziò a pettinarsi
i capelli con le dita, percorrendo faticosamente le ciocche ramate, le
falangi
tremanti.
-
Phyllis... – Minerva tentò di
abbracciarla, ma la ragazza la respinse. Minerva notò che i
suoi bellissimi
occhi cerulei erano umidi e gonfi di lacrime.
-
Ti prego, Phyllis! – Minerva
allungò una mano verso l’amica, che la
osservò timorosa, cauta.
-
Resterai mia amica? – domandò un
attimo prima di afferrarle la mano. Minerva annuì con forza,
attirandola a sé e
stringendola dolcemente. Chiuse gli occhi, inebriandosi del suo profumo.
Non
era forte tanto quanto Jacinth,
lei non sarebbe mai potuta venire allo scoperto con una simile storia,
ecco
perché soffocava i suoi sentimenti. Le sarebbe rimasta
accanto come amica per
il resto dell’anno e per quello successivo. Jacinth non
frequentò nessuna e
nemmeno Minerva si concesse ad altri. Erano bastevoli l’una
all’altra,
nonostante la loro amicizia fosse sempre così ambigua,
costantemente appesa ad
un filo teso su un abisso. Non era solamente amicizia, non era una
relazione.
Jacinth
MicKinnon, detta Phyllis, sorella di Marlene McKinnon, la cui famiglia
era una
delle più illustri e potenti del mondo magico, era morta
circa trent’anni dopo,
massacrata assieme a tutta la sua famiglia, ancora innamorata di
Minerva (e lei
di Jacinth).