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Autore: Maybe Charlie Knows    25/11/2010    6 recensioni
"Perché no? In fondo, è pur sempre qualcosa che ti riguarda… - non sapeva bene come etichettare ciò che aveva scoperto leggendo un giornale che gli altri avevano ignorato. Era qualcosa che aveva preso forma nella sua mente nel momento meno appropriato per le scoperte, e su cui poi aveva rimuginato per ventiquattro ore prima di trovarsi Adrien davanti. Quelle parole sbiadite sulla carta stracciata avevano dato un senso talmente grande da lasciarlo di stucco, incapace di decidere cosa fare. Aveva la possibilità di prenderla alla sprovvista e vincerla, per una volta, eppure… - Appunto. E’, come dici tu, un mio segreto. Qualcosa che mi riguarda. Il che vuol dire che lo so già, e che quindi non ho bisogno che sia tu a farmelo sapere. – sul volto pallido coperto di minuscole efelidi si aprì uno di quei sorrisi che Duff aveva temuto.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axl Rose, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Naive

 

 

 

 

 

Naive

 

Capitolo 2 – Just an illusion

 

 

 

 

 

 

 

 

I saw your picture hangin’ on the back of my door,

   won’t give you my heart:

   no one lives there anymore.  

 

                                                                                                                                                                                                                                                                   (Crystal Castles – Not in love)

 

 

 

 

- Allora, è tutto apposto, tesoro? – aveva appena parcheggiato la moto nell’ampio giardino della villa, quando un’alta figura longilinea le si avvicinò: non ci volle molto per individuare la solita nota di fastidio che la donna cercava di nascondere dietro un sorriso tirato. Ormai sapeva alla perfezione la tecnica con la quale Lisette cercava di sembrare per lo meno interessata alla parte della sua vita che non rappresentava uno scoop per i tabloid. – Tutto apposto – Adrien le rivolse un sorriso ancora più finto, limitandosi ad un’occhiata fugace prima di tornare a sistemare l’adorata moto. Le parole che aveva scambiato con sua madre dal ritorno dall’Inghilterra potevano essere contate sulle punte delle dite, e la ragazza non credeva di ricordare più di due telefonate ricevute durante il soggiorno al collegio. Si volse di nuovo verso la donna che ancora la fissava come alla ricerca di qualche malattia, assumendo un atteggiamento rassicurante non troppo convincente, apposta per lasciare che Lisette si torturasse da sola sui dilemmi della figlia. Era indubbio che le due s’assomigliassero notevolmente, nei tratti aristocratici, nelle forme armoniose e nell’eleganza: la differenza sostanziale era che Adrien possedeva quel fascino trasudante di sicurezza che Lisette aveva perso negli anni, rimanendo soltanto una bellezza priva di qualsiasi sostanza. Forse proprio a causa della figlia. – Non capisco ancora perché tu abbia dovuto tingere i tuoi bellissimi capelli in un rosso così… dozzinale – la ragazza alzò gli occhi al cielo terso, scostandoli dalla chioma color del grano della donna, quella che una volta aveva posseduto anche lei.

 

- E, cara, non capisco nemmeno questa scelta… quella scuola… - il bicchiere di vino bianco che Lisette reggeva in mano traballava visibilmente mentre quella si lanciava in una nuova serie di rimproveri, parlando con Adrien come se fosse stata un’amica da salotto invece che una figlia adorata. Era il tono con il quale più o meno sua madre si rivolgeva a tutti, dando per scontato la propria superiorità. – Mamma. Te l’ho già detto. Nonostante sia una scuola pubblica, ha totalizzato una delle più alte medie nazionali del paese. – col cazzo: la Renton High School vantava il più alto numero di studenti incapaci di superare gli esami finali di tutta la California, Robin s’era curato bene di sottolinearlo amareggiata durante una delle sue tante telefonate alla ragazza. Non per dissuaderla dall’iscriversi allo stesso istituto dove lei insegnava, solo per lamentarsi di come una del suo calibro fosse stata costretta a lavorare in una topaia. – Ma sì, lo so… Me l’hai detto, lo so – evidentemente Lisette era troppo interessata alla cura di sé stessa e de suoi quasi cinquant’anni per indagare a fondo: meglio credere sulla parola a quella strana figlia, sarebbe stati solo tempo risparmiato da dedicare ad altro. La donna ingurgito un lungo sorso del vino bianco migliore sul mercato, guardando ancora una volta con Adrien prima incamminarsi verso le vetrate lustre del retro della villa: aveva cercato di produrre lo stesso effetto profondo che quegli occhi delle nevi esercitavano su di lei, su tutti. Aveva cercato d’inchiodarla al pavimento, di far sentire sua figlia piccola in confronti a lei e al suo potere di madre: tutto ciò che aveva ottenuto era una poco fedele imitazione di quella ragazza, di quel suo sguardo grigio.

 

Il punto era che Lisette Schneider, con i suoi capelli biondi che necessitavano ormai di un aiuto del parrucchiere per mantenere lo splendore, con gli anni che si stavano portando via la sua leggendaria bellezza svedese, non era cattiva. Era semplicemente convinta di aver ragione, di non sbagliare: non avrebbe saputo dove andare se si fosse scostata dal sentiero che s’era prefissata da quando Reese era scomparso. – Alan è in casa? – rabbrividì, dopo essere entrata dalla fastosa porta a vetri nel salone sul retro della casa: aveva in qualche modo sperato che Adrien si fosse ritirata nella dependance, dove aveva sistemato le sue cose dal ritorno dal collegio inglese, ignorando ostinata i passi che l’avevano seguita lungo il vialetto. Non s’affrettò a risponderle, dirigendosi verso il mobiletto di palissandro intarsiato che conteneva ogni qualità di vino importato possibile, leggendo con attenzione le etichette più per avere una scusa per non essere trafitta di nuovo dagli occhi di James su un viso d’angelo che per puro gusto. – No, tesoro. È a lavoro, come sempre – dopo aver versato una dose generosa di Pinot nel bicchiere, riuscì a pescare l’ennesimo sorriso troppo lezioso da regalare ad Adrien, che sembrava però non ascoltarla: la ragazza sembrava impegnata a setacciare la stanza alla ricerca di qualcosa alla donna ignoto.

 

La ragazza non avrebbe mai dato a vedere a Lisette il proprio sollievo nel sentire la conferma dell’assenza del suo secondo patrigno. Il leggero ghigno enigmatico rimaneva stampato sul suo volto come sempre, mentre un peso fluttuava fuori dal suo corpo: non poteva proprio tollerarlo. Non sopportava né la presenza stessa di quell’uomo corpulento e sempre allegro in una stanza, né vedere sua madre abbandonata fra le braccia di quell’uomo rispettabile ma banale. Ma la cosa che più odiava era che Alan cercava anche disperatamente di essere qualcosa di simile ad un padre per Adrien, cosa che forse aveva potuto funzionare con una bambina smidollata come Annalou ma che infastidiva soltanto la ragazza. – Bene. – mormorò, lasciando intuire di proposito la propria soddisfazione alla madre, ignorando bellamente il suo muto rimprovero. Quando suo padre era morto e Lisette s’era ritrovata per le mani tutti quei soldi, era troppo piccola per poter comprendere l’enormità di un secondo matrimonio: la stampa era stata un’avida carogna sulla morte di James Miller, uno degli magnati del petrolio statunitense, e il fatto che sua moglie fosse intenzionata a risposarsi solo un anno dopo il tragico avvenimento aveva tracciato segni indelebili su Adrien e Reese. La ragazza avrebbe compreso soltanto in seguito il significato di quelle parole stampate sulla carta a caratteri cubitali. Poi era arrivato in casa loro quel Donnie McDowell, quel banchiere, e questo aveva comportato la nascita di Annalou ed un carico troppo pesante di misteri per dei bambini. Allora ancora stavano a New York, ancora Lisette non era stata in grado di disfarsi di un ricordo scandaloso nonostante le domande insistenti dei bambini su “il luogo speciale dove era andato papà”. Era milionaria, i ricchi spesso danno per scontato di avere ogni soluzione ai problemi della vita.

 

E poi c’era stato il caso Reese, anni ed anni dopo: Adrien ricordava quei giorni ancora vividi con asprezza, la scomparsa di ogni sua speranza di cancellare il tracciato di sangue che aveva seguito lei e la sua famiglia negli anni della sua infanzia. Non appena era stato chiaro a tutti che le indagini della polizia come le pratiche di divorzio da McDowell sarebbero state lente, avevano fatto i bagagli e comprato un’enorme villa a Los Angeles, scappando dalla East Coast senza trovare la minima tranquillità. I fantasmi del passato aleggiavano ancora fra le tre donne, spaventando Annalou, deprimendo Lisette e instaurandosi nel cuore di una tredicenne che aveva ereditato tutto il carisma del padre e che aveva continuato a crescere nel veleno. Quando era arrivato Alan Niven nel cuore a pezzi della povera donna, l’atmosfera lugubre di una casa da sogno s’era trasformata in una finzione rose e fiori che Adrien odiava. – Adrien, tesoro… Ti prego, cerca di essere un po’ più gentile nei confronti di Alan. So che ce l’hai ancora con lui per la storia del collegio, ma l’ha fatto solo per il tuo bene… non hai idea come siamo stati in ansia quando abbiamo saputo… - Lisette dovette interrompersi nell’incrociare il gelo nello sguardo della figlia per non rischiare di soffocare sotto quel peso. Era solo un altro dei suoi tentativi di aprirsi un varco nella barriera di Adrien, un’ennesima giustificazione a tutti i doni e regali vuoti di cui aveva sempre circondato la ragazza da Reese, da James, da sempre: nulla riusciva a fermare il tremolio delle sue mani nell’attendere la sentenza di sua figlia.

 

- Sai, mamma, ti trovo ingrassata – passò qualche secondo prima che il sorriso sul volto di Adrien si allargasse in una forma crudele di falsa compassione. – Non l’ho certo notato subito, ma aguzzando la vista potrei persino dire che i tuoi fianchi sono un tantino più rotondi… Dovresti stare più attenta, o quel meraviglioso Yves Saint Laurent rosso non ti entrerà più… sarebbe un peccato, non credi? – c’era una nota spaventosamente sadica nella voce della ragazza che solo con una certa dose di attenzione qualcuno avrebbe potuto cogliere. Lisette era troppo impegnata a costringersi a non scoppiare in lacrime amare davanti alla malvagità di sua figlia, alla cruda realtà: quel poco di dignità che le rimaneva mentre Adrien la umiliava, la teneva stretta a sé per la prossima volta che avrebbe cercato di capire cosa c’era che non andava. – Sì… sì, hai ragione... dovremmo comprare dei libri per la scuola… - tutto ciò che si sentiva in grado di fare era annuire come sempre, lasciare che anche quella sconfitta scorresse via insieme alle altre. La ragazza la fissò per un momento con la stessa crudeltà con la quale l’aveva umiliata un attimo prima, per poi tornare a cercare qualcosa che solo lei conosceva. – Certo. Oggi ho incontrato una delle professoresse, mamma: vedrai, lo so che l’idea di una scuola pubblica è rivoltante, ma piacerà anche a te. – il suo tono velato non ammetteva repliche, in quel gioco di ruoli improvvisamente scambiati. Era sempre stato così: Lisette non aveva potere, Adrien succhiava la sua energia vitale, il rispetto che aveva sempre bramato dalla gente.

 

- Sei tornata! – c’era qualcosa che non andava: Adrien aveva progettato di non sentire quella voce acuta e incredibilmente fastidiosa fino almeno fino alla fine dell’estate. Ed invece le bastò voltarsi per trovarsi davanti agli occhi una piccoletta dai capelli biondi con ancora qualche strana divisa scolastica addosso, che la fissava colma di gioia saltellando sul posto. – Annalou, che bello. Non dovresti essere a Stoccolma? – nonostante da sempre la ragazza fosse una brava attrice, non riuscì a sopprimere una nota d’ironia nell’accogliere la sorellastra, che le corse incontro abbracciandola senza ovviamente essere ricambiata. Annalou era sempre stata troppo ingenua per accorgersi di quei dettagli. – Sono tornata qualche giorno fa, ma mi sono fermata a Santa Monica per conoscere i genitori di Brad. Ti ho parlato di Brad? Gioca a squash! I suoi sono adorabili, possiedono alcuni campi da tennis proprio dove una volta… -. Annalou adorava Adrien: era il suo modello, il suo idolo, ciò da cui prendeva ispirazione nel tentare di imitare quegli atteggiamenti che avrebbero accresciuto la sua età agli occhi degli altri. Nella sua mente, la figura della sorellastra era proiettata enorme e brillante, al centro di un sacco di attenzioni da persone popolari, ragazzi: il suo modo di camminare, di scuotere i capelli e di parlare attirava sempre gli sguardi di tutti. Non c’era persona che non fosse assolutamente concentrato su di lei e sulle sue qualità quando Adrien. Per questo, fin da quando entrambe erano piccolissime, ne aveva fatto una sorta di migliore amica della quale raccontava agli altri, inventandosi talmente tanti particolari di quella relazione immaginaria da finire per crederci lei stessa.

 

Era una Lisette in miniatura, senza una minima traccia del banchiere di cui non aveva molti ricordi felici o di qualsiasi altro genere: mentre la quindicenne continuava a blaterare del suo soggiorno nella terra natale della madre, Adrien gettava l’occhio di tanto in tanto sulla figura di Annalou e su quella di Lisette, che continuava a tenere lo sguardo incollato su di lei. Probabilmente s’aspettava una frecciatina stavolta diretta alla sorellina, qualcosa che minasse soltanto a demoralizzarla completamente: nell’espressione contratta del viso della donna c’era l’aspettativa carica di tensione, che invano ella cercava di attutire con lunghe sorsate di vino. -… e ogni giorno andavo in un piccolo bar dietro il college, una cosa deliziosa! Nonna ha detto di andarla a trovare, dice che non ti vede da troppo tempo! Ah, sono così felice che sia tornata anche tu! – in barba alla silenziosa sfida di sua madre, Adrien non disse proprio nulla, per niente intenzionata a spezzare l’atmosfera di ansia di cui Annalou sembrava non essersi accorta. La maggior accennò un annuire svogliato ai racconti della sorellina, come se le avesse appena raccontato qualcosa d’incredibilmente irritante. – Prendo in prestito la stilografica di Alan – le liquidò mostrando loro l’oggetto della sua ricerca, senza essere contrastata da Lisette nonostante quella fosse una delle penne più costose della collezione del marito.

 

- Cara, Higgins dovrebbe averti lasciato il pranzo in frigorifero, l’ho congedato mezz’ora fa… - la ragazza era sul punto di varcare la vetrata per tornare nella tranquillità della dependance sul retro, quando sua madre la richiamò bruscamente. Se quello era un tentativo di trattenerla ancora un po’, di cercare di provare ancora il proprio bisogno della figlia, Lisette seppe mascherarlo al meglio dopo le umiliazioni precedenti. – Ci farebbe tanto piacere che ti unissi a noi per cena, visto che è da quasi un anno che non ci ritroviamo tutti assieme… che ne dici? – dopo l’iniziale freddezza però sul volto della donna sembrò comparire un tratto di dolcezza, mentre la voce s’ammorbidì appena. Adrien la guardò intensamente, ignorando bellamente le esortazioni della sorella minore che per lei era totalmente irrilevante: pareva che sua madre stesse cercando davvero di farle capire quanto teneva alla sua presenza a tavola. Forse aveva persino sentito la mancanza della sua presenza ingombrante, di quel suo modo di metterla in soggezione. – Ho da fare. – poche parole bastarono a rimarcare quanto la buona volontà di Lisette non fosse sufficiente. Da quando era tornata non aveva visto una sola traccia delle fotografie con le quali aveva adornato lei stessa il salotto, tutte improvvisamente scomparse: si concesse un ennesimo sorriso malvagio, lasciando che Lisette intuisse da sola il perché di quel rifiuto. Poi, girando sui tacchi, tornò alla dependance.

 

Passando oltre la grande piscina e i vialetti curati dall’aspetto mediterraneo, si poteva avere la piena visione del suo piccolo paradiso privato: un edificio composto da mura bianche circondate da fiori di cui si occupavano i giardinieri, dalle vetrate ampie dalle quali si scorgevano gli interni. Un’ennesima piscina, meno vistosa di quella che separava la dependance dal resto della villa, era nascosta dietro l’unico pian terreno della costruzione che aveva deciso di adottare come casa. Adrien lasciò le alte scarpe sulla soglia della porta a vetri, prima di entrare nell’ambiente fresco dell’aria del condizionatore e guardarsi attorno, finalmente nella sua isoletta scollegata dal resto del mondo. Era tornata in America soltanto qualche giorno prima e non aveva ancora avuto tempo di respirare l’aria della sola parte di quel terreno che considerava casa. Ogni cosa nell’arredamento moderno era al suo posto, perfettamente spolverata e lucidata dai domestici: la ragazza passò delicatamente le dita sul dipinto in stile pop art che era il suo preferito, sorridendo. Si sentiva quasi in vena di spendere chissà quanti dollari per una telefonata oltre oceano: la voce di Meredith sarebbe stato un toccasana per la noia che minacciava di appesantirle la giornata. Poi si sentì attratta da un particolare dell’ampia saletta che fungeva da cucina, qualcosa che era incredibilmente fuori posto. Sopra il piano di cottura immacolato e da lei mai toccato, mancava una cornice bianca e piuttosto appariscente che negli anni aveva sistemato lei stessa un anno prima, dopo essersi trasferita lontano dal cuore della villa. Allo stesso modo erano scomparse altre fotografie che s’era tanto divertita a disperdere nella cucina e nel salotto. Le prove della sua silenziosa sofferenza, i tentativi di dare raccapriccio a Lisette erano spariti dai muri bianchi, ridipinti prima del suo ritorno, ma non Adrien non tardo a ritrovarli.

 

In una stanzetta adibita a magazzino per gli articoli della casa dei domestici, la ragazza trovò uno scatolone piuttosto comune, sigillato pesantemente con molti strati di scoch. Adrien vi si precipitò come un leone affamato, strappandolo e lacerandoli finchè quello non volle aprirsi. La prima cosa che vide del suo interno fu l’immagine di un’allegra famigliola elegante, vestita di tutto punto come per una serata di gala. Una Lisette molto più giovane sorrideva gioviale all’obbiettivo, sfoderando un fisico che avrebbe fatto invidia a molte fasciato dalla seta rossa di un abito da cocktail natalizio. Al suo fianco, un uomo distinto in un completo nero gessato cingeva con un braccio le spalle della donna, sul viso l’espressione che tante volte Adrien aveva potuto ammirare allo specchio: gli occhi grigio-azzurri erano terribilmente familiari. La bambina in piedi davanti all’uomo era incredibilmente bionda, coperta di graziose lentiggini e semplicemente orgogliosa dell’abito d’organza dorato che la faceva assomigliare ad una fatina. Sorrideva, elegante dei suoi tre anni. La pugnalata allo stomaco era però il bambino più alto della graziosa bimba, uguale al padre nel suo completo da uomo d’affari nonostante non dimostrasse di più di sette anni: il suo corpo era leggermente inclinato verso la sorella, quasi volesse proteggerla da ogni male. Ci volle solo una manciata di secondi prima che Adrien sorridesse soddisfatta in quella foto di famiglia scattata molto tempo prima, ebbra di un’altra vittoria conquistata. Qualche minuto dopo, con una sigaretta accesa fra le labbra solo per diffondere l’alquanto sgradito odore di fumo per la casa, già stava risistemando la prima cornice al suo posto con chiodi e martello. Nonostante non fosse minimamente capace di lavori domestici decenti, il sorriso vuoto del ragazzo nella fotografia era meglio di qualunque balsamo. Era la sua vendetta.

 

- E così l’addetto alla sicurezza ci ha sbattuti tutti fuori, senza sapere che tanto saremmo rientrati per le scale di sicurezza… certo, sul tetto abbiamo trovato la porta d’emergenza chiusa e per entrare abbiamo distrutto il sistema di areazione, ma la faccia del buttafuori quando la mattina ci ha visti uscire insieme agli altri è stata impagabile – era chiaro che il collegio inglese non era servito a calmare la voglia di distruzione di Adrien, nonostante i buoni propositi del signor Niven. Robin, alzando il bicchiere stracolmo di gin tonico, si abbandonò in una fragorosa risata prima di inghiottire un lungo sorso di alcol: Adrien rise con lei, prima di imitarla con il whiskey che aveva ordinato. Era da un anno che non metteva piede nell’angusto, buio pub sul una strada laterale poco distante dalla Kennedy High School, dal lato opposto della città rispetto alla Renton. – Oh, ce l’hanno fatta pagare con poco, alla fine è bastata una telefonata del padre di Met e siamo usciti tutti, schedati ma fuori. È stata una cosa esilarante! – mentre la ragazza si reggeva a malapena dalle risate nel ricordo delle sue rocambolesche avventure nel cuore di Londra, Robin la fissava ammaliata e, in qualche modo, dolce. Aveva sentito una profonda nostalgia per quegli incontri clandestini fuori dalle mura scolastiche dopo che Adrien era stata buttata fuori dalla scuola privata per spaccio di droga. Le mura lustre della Kennedy erano diventate subito, vuote, sbiadite.

 

- Immagino! Mi dispiace solo per Alan… tutti i soldi spesi per la tua istruzione, buttati per l’anima del cazzo… - non c’era alcuna nota di rimprovero nella sua voce, solo una sottile ironia che destò un’ilarità ancora più forte in Adrien. Non c’era cosa più pericolosa, ambigua e sinistra di una relazione fra studente ed insegnante per gli occhi della gente: ogni moralismo sul rispetto reciproco andava distrutto quando entravano in scena i pettegolezzi, e questo entrambe l’avevano sempre saputo. “Io posso aiutarti” era iniziato tutto come una sorta di rivincita per una delle tante umiliazioni che la signorina Miller infliggeva ai professori della Kennedy: Robin, che già allora s’era addolcita per l’amante che aveva trovato nel vicepreside, s’era avvicinata a lei come il buon samaritano al vagabondo. “In me puoi vedere un’amica” era stata per una scommessa con sé stessa che Adrien aveva accettato di vedere la sua professoressa di lettere fuori dalla scuola. Non certo per quella menzogna che era il destino nel quale credeva Robin, convinzione alimentata dal suo licenziamento dopo la partenza di Adrien, sempre a causa della dolce relazione con il vicepreside. S’era ritrovata in quel buco della Renton nonostante le sue lauree, e per di più senza la sua fidata compagna alla quale scaricare tutte le sue afflizioni. – Beh, per lo meno non ho perso l’anno… i soldi fanno sempre molti miracoli – affermò la ragazza, spostando subito l’argomento dal suo patrigno. – Ma tu che hai fatto? Al telefono non mi hai mai detto nulla di sostanziale… come sta Josh? -.

 

- Josh sta bene – la donna tagliò corto sul proprio marito, svuotando in un colpo il bicchiere per poi accantonarlo insieme agli altri che lo avevano preceduto sul tavolino. – Beh, forse è stato un anno un po’ noioso… - non era assolutamente vero, ma era proprio questa la cosa che aveva in comune con Adrien: erano entrambe convinte di essere troppo per gli altri, e perciò tendevano ed esibire la propria sicurezza. La loro similitudine risultava agli occhi di Robin un colpo di fortuna, un modo per rispecchiarsi in qualcuno che suscitava in lei così tanti ricordi. – Però… c’è un ragazzo a scuola, un po’ ottuso forse, ma davvero… beh, sì, l’hai visto anche tu… - aggiunse poi, ammiccando verso la ragazza reprimendo la vena di sospetto che balenava nei suoi pensieri da quella mattina: Michael era uno degli allievi più lenti e cocciuti che avesse mai avuto, ma insieme ai suoi amici formava un bel gruppo di carne fresca che lei non aveva mancato di notare. E ancora prima che la loro amicizia sbocciasse dal nulla, alla scuola privata Adrien era nota non solo per il suo cognome, i suoi soldi e l’atteggiamento spregiudicato: il suo fascino, la sua arma segreta, era nota a molti esemplari della popolazione maschile. – Ah, l’ossigenato… Non mi dirai che hai deciso di ricominciare? – il tono neutrale di Adrien ebbe un effetto terapeutico sui nervi della donna: nonostante la ragazza non avesse detto nulla, era assolutamente convinta che non avrebbe alzato un dito su Michael. L’avrebbe espresso subito altrimenti, avrebbe fatto sicuramente così. Doveva essere così.

 

- Ma dai, è un ragazzino, un faccino carino non mi fa crollare! – entrambe iniziarono di nuovo a ridere della situazione assurda, così pittoresca da sembrare parte integrante di un film. Erano le sette di sera, dalla porta principale s’intravvedeva uno dei famosi tramonti di Los Angeles ed erano entrambe mezze ubriache in quel bar di caproni. Parlavano della cotta di Robin per uno studente come qualcosa di normale, dimentiche del povero Josh che tanto aveva sopportato e della famiglia Niven che attendeva invano il ritorno della figlia maggiore per cena. E Robin era troppo su di giri, con la testa talmente piena di fantasticherie per notare il cipiglio interessato che Adrien aveva assunto nel guardarla: di lì a poche ore lo stesso ragazzo di cui stavano discutendo avrebbe capito d’essere stato ingannato come tutti gli altri. La tentazione di rivelare alla compagna d’aver sconfitto anche lei, di come l’oggetto del suo desiderio e di quelle frasi sciocche l’avesse invitata ad una festa con un chiaro secondo fine. Ma sarebbe stato divertente? Il ritorno a scuola si avvicinava, e Robin era una persona troppo matura per rimanere succube di un bamboccio per molto tempo: che senso aveva rivelarle che il loro sodalizio, basato sulla superiorità di entrambe sugli altri, fosse semplicemente costruito sull’adulazione dell’una verso l’altro? Anche quella era una competizione. Sorridendo di come Robin fosse visibilmente brilla, la ragazza si assicurò che fosse quantomeno sana per guidare fino a casa, ridendo con lei. Era quanto di più simile ad un’amica avesse mai trovato.

 

- Rossa, ti fai un giro con noi? – ma il fatto che la donna avesse dei doveri coniugali non implicava la fine della serata per Adrien. La moto non era parcheggiata lontano, ma la ragazza non aveva alcun desiderio di tornare alla villa e sorbirsi un’allegra riunione di famiglia. Quattro ragazzi erano appoggiati al muro dello sporco pub, e ammiccavano al suo indirizzo in una maniera che lasciava ben poco spazio all’immaginazione: Adrien sorrise loro maliziosa, lasciando che si crogiolassero ancora un po’ nel dubbio di poter godere della sua compagnia. Era bastato un solo sguardo per capire quanto essi la desiderassero, nessuno escluso: anche loro avrebbero fatto parte della ragnatela di persone che attorno a lei tesseva. Dando loro la schiena, Adrien frugò impaziente nella borsa nera, prima di spostare gli occhi di ghiaccio sul punto in cui la macchina di Robin era scomparsa nel traffico. Era stato facile trasportare oltre oceano le pillole bianche che spuntarono da una delle tasche interne, a bordo di un jet privato che recava le iniziali dei Miller su un lato: un paio di quelle, e il mondo svaniva, lasciando che a brillare fossero solo lei e le stelle. Un paio di quelle, e sarebbe stata sempre Adrien, ma in una maniera più amplia, più leggera: il vantaggio dell’LSD era la percezione del mondo distorta, l’esperienza sempre nuova che procurava. Era pronta per dare inizio alla serata.

 

- Michelle! Sei uno schianto, cazzo! – era noto a tutti come Slash fosse un ruffiano, da sveglio: alle sue spalle, un buio magazzino incastrato fra altri palazzi simili a quelli già era gremito di gente. Qualcuno stava suonando la batteria con furia, accompagnato da alcuni accordi di chitarra appena abbozzati, e tutti sapevano bene chi fossero i misteriosi musicisti. Michelle si avvicinò ai tre ragazzi fermi sul ciglio della strada, sorridendo sorniona al complimento dell’amico, nient’altro che u metodo per ottenere una scopata gratuita. – Sì, parla, parla… - gli rispose infatti gettandogli amichevolmente le braccia al collo, per poi scoccare un’occhiata alle due ragazze che la seguivano. – Tesoro, sei un incanto… - era più o meno il teatrino che si ripeteva ogni sera: Maxie scoppiò in una risata sguainata davanti ai modi falsamente galanti del ragazzo dai capelli rossi che aveva abbracciato Michelle, attirando lo sguardo assassino di questo. – Ciao, signore, dove sono le tue donne? – Axl era devoto nei confronti del suo battibeccare serale con la biondina, cosa che avveniva puntualmente da quando Michelle li aveva presentati qualche tempo prima. Mentre ognuno di loro s’abbandonava ad un attacco d’ilarità sconvolgente a dispetto di Maxie, la folla di ragazzi di ogni età continuava a fluire verso l’edificio alle loro spalle. La notte stava rapidamente calando e nell’aria si respirava l’odore dell’ennesima festicciola estiva a base di sballo: era ciò che aveva reso famosi quei cinque ragazzini che si spacciavano per rockstar, quasi più della loro musica. – E comunque, Maxie, tu non sai apprezzare le innumerevoli doti di un figo come me… non sai apprezzare le doti di nessuno! – persino la ragazza in questione non seppe trattenere le risate davanti alla dimostrazione del grande ego di Axl Rose. Solo due ragazzi erano rimasti in disparte, entrambi immersi in tormentati pensieri.

 

- Piccola Linda, siamo cresciute durante l’estate! – l’inguaribile rubacuori che era Slash però non poteva certo resistere davanti ad una qualsiasi ragazza dall’aspetto quanto meno “scopabile”, come diceva lui. Non guastava certo il fatto che le gambe della ragazzina che aveva sempre conosciuto come la secchiona della scuola fossero cresciute di trenta centimetri dall’ultima volta che l’aveva vista. – Ciao – Michelle alzò gli occhi al cielo blu scuro davanti alla solita timidezza dell’amica, che nascose il viso dietro i lunghi capelli color cioccolato. – Oh, Linda è troppo imbarazzata per ringraziarti, probabilmente fra due anni ti spedirà una lettera… - il commento della ragazza verso l’amica non era intenzionato a ferirla, ma dopo lo scroscio di risate che seguì quelle parole nulla fu facilitato per la povera Linda. Si limitò a scoccare un’occhiata arrabbiata in direzione di Michelle, che le sorrise amichevolmente non appena s’accorse di quel segno di vita: non le avrebbe mai confessato quanto in realtà le stesse a cuore. – Ciao Duff… - fu però proprio la più timida del gruppo a notare l’alto ragazzo che era rimasto isolato fino a quel momento. Certo, fissava la luce rossastra della sigaretta che teneva in mano al posto della sua faccia in ombra, ma nessuno sembrò notare quel dettaglio: improvvisamente l’unica persona che non pareva aver voglia di unirsi alla conversazione si ritrovò al centro dell’attenzione del gruppetto. – Stai ancora aspettando la tua principessa? – domandò sarcastica Maxie, dopo essersi scollata di dosso un irruente Axl che minacciava di farla cadere a terra sotto la sua spinte moleste.

 

- Ah, ah, ah! Sto morendo dal ridere! – il tono burbero del ragazzo era tutt’altro che conciliante, la quantità di nicotina che sembrava voler aspirare in una volta altamente preoccupante. Scrutava la strada con attenzione senza mai scorgere il bagliore rossastro dei capelli che cercava, senza udire il rombo di una moto familiare: sul suo volto una minacciosa espressione arrabbiata aveva preso posto stabilmente. – Niente da fare, sfigato. Ti ha dato buca questa… Babitte? – esordì Axl beffardo, portando le braccia attorno alle spalle di Michelle e Linda, suscitando in loro sentimenti talmente contrastati da far dubitare della loro salda amicizia. – Babette, stronzo… e che cazzo, non le ho mica dato un orario! Una arriva quando cazzo gli pare! – a dispetto delle sue parole tolleranti, l’impazienza di trovare almeno un segno della presenza della ragazza misteriosa era chiara nei suoi gesti. Non degnò di uno sguardo gli amici ancora intenti a prenderlo in giro in ogni maniera possibile, convinto che prima o poi sarebbe arrivata, convinto d’aver fatto colpo quella mattina. Sul viso di quella ragazza c’era un chiaro cipiglio, un indizio evidente di come avesse recepito il suo messaggio… - Senti, stronzo, ma lo vedi quante fottute persone stanno aspettando che si attacchi qualcosa? Mettitela via, la tizia lì, Babette, non viene dai tipetti tutti ossa e ossigeno in testa come te! Se c’era il sottoscritto… - prese a vantarsi Slash, beccandosi un forte colpo sul capo da Maxie come prova di quanto il suo fantomatico fascino fosse un’invenzione di sua fantasia.

 

- Beh, siete morti tutti? – dietro di loro, una voce strascicata come se fosse appartenuta ad una persona appena sveglia richiamò la loro attenzione: beato di una sigarette che penzolava dalle sue labbra, Izzy Stradlin stava venendo loro incontro con le braccia aperte, l’espressione perfettamente tranquilla. Indossava il più strano assortimento di vestiti mai visti prima e la coppola che gli copriva i capelli corvini non sembrava farlo soffrire per il caldo che nell’aria soffocava tutti. – Allora,sta Babette? Sei tu? Ma non eri rossa? – domandò senza nessun alcun interessa apparente indicando Linda, la quale arrossì vistosamente portando però le mani sui fianchi. – Ma come? Non mi riconosci, drogato? – dalla dimensione delle pupille dell’amico, la ragazza non sembrava aver sbagliato di tanto, sfoggiando finalmente qualcosa che assomigliasse vagamente ad un carattere dopo il primo iniziale imbarazzo. – Gli ha dato buca, Stradlin! Mister Seduttore qui è solo uno sfigatello! – rispose precedendo qualsiasi altra battuta Axl, allungandosi poi per cercare di stringere fra l’indice e il pollice la guancia di Duff, che imprecando si scostò. – Dai, McKagan, sembri una femminuccia permalosa! Andiamo dentro, diamo inizio a questa festa e se questa Babette si presenta va bene, altrimenti chi se ne frega, no? – come al solito, la saggezza schietta di Izzy conciliava le opinioni di tutti senza che si sfociasse in una nuova serie di prese in giro. Il magazzino ormai era pieno di gente che attendevano l’inizio della festa: nessuno avrebbe chiesto di meglio.

 

- Dai, Duff! Stasera posso stare qui solo fino a mezzanotte, poi devo essere al locale per lavorare, quindi muoviti! – e Michelle, la quale fretta era più che motivata, fu accontentata presto: dei capelli rossi che avevano attirato il suo sguardo quella mattina neanche l’ombra, e l’orda di persone semisconosciute che pretendeva dello sballo li reclamava. Lasciando che le dita scorressero sul fidato basso, mentre le prese elettriche dell’angusto angolo in cui stavano suonando quasi esplodevano, Duff liberò anche la tensione che quella vana attesa gli aveva procurato. Era così automatico il processo che permetteva loro di confondere i propri corpi fra la folla, di accettare qualsiasi tipo di canna passasse loro vicino. Bastava non fare altro che non vivere calpestando la terra con la propria voglia di urlare al mondo ogni insulto possibile, in barba ai corsi estivi che li aspettavano la mattina. Non uscì più a controllare il possibile arrivo della sua fantomatica Babette, trasportato in un’orda di sensazione che solo una giusta dose di alcol, musica e droghe di ogni tipo sapevano dare. Erano giovani e fottutamente incoscienti, ed una ragazza di passaggio non riusciva a rovinare la loro giornata. La notte li aveva abbracciati con l’amorevolezza di una madre, malsana nel buio, inghiottendo le loro menti, le loro ansie, l’alba che li attendeva.

 

 

 

Illumina,

 annulla le paure, oh luna,

 nulla è uguale.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                          (Verdena – Luna)

 

 

 

Secondo capitolo! Beh, è incredibile ricominciare da capo, ero abituata a due cifre in ogni capitolo xD beh, dopo questi commentini mediocri e del tutto inutile, vi espongo la novità di questa storia. siccome trovo sempre ispirazione in molte (troppe) canzoni, voglio lasciare degli stralci di queste in ogni chappy, in modo che voi tutti sappiate l’importanza che esse hanno avuto per me. La musica è vita! Non voglio annoiarvi troppo -.- perciò comunico che, nonostante ci sia l’opzione “rispondi” per le recensioni, sono affezionata alle pubblicazioni delle risposte ai vostri commenti e manterrò questa tradizione J

 

AmyHale: io non so come fa a starti simpatica Adrien. Io la odio, anche se alla fine l’ho creata io (alla fine?!). No, non va bene: sto sclerando, e anche tanto… forse perché sono stata due ore attaccata al computer per poter finire in tempo perché QUALCUNO (Ma non faccio nomi u.u) potesse commentare in tempo il capitolo… -.-“ e comunque lo so che è bella la foto di Maxie: l’ho scelta io, per forza è bella!

 

_LittleAxl_: per il nome, mi stai già simpatica ;) mi hai riconosciuto subito per la struttura della pagina? Beh, anche quella è una specie di firma, no? Più che altro, scelgo questi caratteri per comodità: visto che sono molto miope, mi piace che le parole si leggano belle grandi… emh, lo so, sono noiosa… però consolati: se mi avessi beccato in un momento di follia la risposta sarebbe stata illeggibile! Grazie per la recensione ;)

 

aivlis8822: no, guarda, hai scritto due parole ma già da quel “Sei una figa” stavo morendo dal ridere! Io adoro le tue recensioni, anche con poco sono divertenti xD sono contenta che ti piaccia l’inizio, spero continuerai a seguirmi a lungo! Anche se, come ho già detto, questa storia dovrebbe essere molto più corta rispetto alla precedente! Grazie per il commento ;)

 

Sylvie Denbrough: ecco, cara, sono contenta che tu abbia commentato! Nonostante sia soltanto all’inizio, hai già centrato il punto di questa storia: Adrien è stata creata dalla sottoscritta per essere odiata ed insieme amato, proprio perché è una specie di “anti-Naz”. Credo che, come tu abbia potuto notare da questo secondo capitolo, sia tutto il contrario della mia precedente protagonista… anche se forse per certi versi si assomigliano! Comunque grazie per i bei complimenti e per la rece!

 

IoMe: tuke! Anche se a me non interessa il tuo parere (u.u) perché sei una traditrice e ti sei beccata un più facendo la biografia di Avril Lavigne (bleah!)… Recensisci! Sono in ansia, non so come sia venuto questo capitolo e mi fa schifo! Come sempre, del resto -.- lavora, schiava!

 

Bye!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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