Naive
Capitolo 2 – Just an
illusion
“ I saw your picture hangin’ on the back of my
door,
won’t
give you my heart:
no one
lives there anymore. ”
(Crystal Castles –
Not in love)
-
Allora, è tutto apposto, tesoro? – aveva appena parcheggiato la moto nell’ampio
giardino della villa, quando un’alta figura longilinea le si avvicinò: non ci
volle molto per individuare la solita nota di fastidio che la donna cercava di
nascondere dietro un sorriso tirato. Ormai sapeva alla perfezione la tecnica
con la quale Lisette cercava di sembrare per lo meno interessata alla parte
della sua vita che non rappresentava uno scoop per i
tabloid. – Tutto apposto – Adrien le rivolse un sorriso ancora più finto,
limitandosi ad un’occhiata fugace prima di tornare a sistemare l’adorata moto.
Le parole che aveva scambiato con sua madre dal ritorno dall’Inghilterra
potevano essere contate sulle punte delle dite, e la ragazza non credeva di
ricordare più di due telefonate ricevute durante il soggiorno al collegio. Si
volse di nuovo verso la donna che ancora la fissava come alla ricerca di
qualche malattia, assumendo un atteggiamento rassicurante non troppo
convincente, apposta per lasciare che Lisette si torturasse da sola sui dilemmi
della figlia. Era indubbio che le due s’assomigliassero notevolmente, nei
tratti aristocratici, nelle forme armoniose e nell’eleganza: la differenza
sostanziale era che Adrien possedeva quel fascino trasudante di sicurezza che
Lisette aveva perso negli anni, rimanendo soltanto una bellezza priva di
qualsiasi sostanza. Forse proprio a causa della figlia. – Non capisco ancora
perché tu abbia dovuto tingere i tuoi bellissimi capelli in un rosso così…
dozzinale – la ragazza alzò gli occhi al cielo terso, scostandoli dalla chioma
color del grano della donna, quella che una volta aveva posseduto anche lei.
-
E, cara, non capisco nemmeno questa scelta… quella scuola… - il bicchiere di
vino bianco che Lisette reggeva in mano traballava visibilmente mentre quella
si lanciava in una nuova serie di rimproveri, parlando con Adrien come se fosse
stata un’amica da salotto invece che una figlia adorata. Era il tono con il
quale più o meno sua madre si rivolgeva a tutti, dando per scontato la propria
superiorità. – Mamma. Te l’ho già detto. Nonostante sia una scuola pubblica, ha
totalizzato una delle più alte medie nazionali del paese. – col cazzo: la
Renton High School vantava il più alto numero di studenti incapaci di superare
gli esami finali di tutta la California, Robin s’era curato bene di sottolinearlo
amareggiata durante una delle sue tante telefonate alla ragazza. Non per
dissuaderla dall’iscriversi allo stesso istituto dove lei insegnava, solo per
lamentarsi di come una del suo calibro fosse stata costretta a lavorare in una
topaia. – Ma sì, lo so… Me l’hai detto, lo so – evidentemente Lisette era
troppo interessata alla cura di sé stessa e de suoi quasi cinquant’anni per
indagare a fondo: meglio credere sulla parola a quella strana figlia, sarebbe
stati solo tempo risparmiato da dedicare ad altro. La donna ingurgito un lungo
sorso del vino bianco migliore sul mercato, guardando ancora una volta con
Adrien prima incamminarsi verso le vetrate lustre del retro della villa: aveva
cercato di produrre lo stesso effetto profondo che quegli occhi delle nevi
esercitavano su di lei, su tutti. Aveva cercato d’inchiodarla al pavimento, di
far sentire sua figlia piccola in confronti a lei e al suo potere di madre:
tutto ciò che aveva ottenuto era una poco fedele imitazione di quella ragazza,
di quel suo sguardo grigio.
Il
punto era che Lisette Schneider, con i suoi capelli biondi che necessitavano
ormai di un aiuto del parrucchiere per mantenere lo splendore, con gli anni che
si stavano portando via la sua leggendaria bellezza svedese, non era cattiva.
Era semplicemente convinta di aver ragione, di non sbagliare: non avrebbe
saputo dove andare se si fosse scostata dal sentiero che s’era prefissata da
quando Reese era scomparso. – Alan è in casa? – rabbrividì, dopo essere entrata
dalla fastosa porta a vetri nel salone sul retro della casa: aveva in qualche
modo sperato che Adrien si fosse ritirata nella dependance, dove aveva
sistemato le sue cose dal ritorno dal collegio inglese, ignorando ostinata i
passi che l’avevano seguita lungo il vialetto. Non s’affrettò a risponderle, dirigendosi
verso il mobiletto di palissandro intarsiato che conteneva ogni qualità di vino
importato possibile, leggendo con attenzione le etichette più per avere una
scusa per non essere trafitta di nuovo dagli occhi di James su un viso d’angelo
che per puro gusto. – No, tesoro. È a lavoro, come sempre – dopo aver versato
una dose generosa di Pinot nel bicchiere, riuscì a pescare l’ennesimo sorriso
troppo lezioso da regalare ad Adrien, che sembrava però non ascoltarla: la
ragazza sembrava impegnata a setacciare la stanza alla ricerca di qualcosa alla donna ignoto.
La
ragazza non avrebbe mai dato a vedere a Lisette il proprio sollievo nel sentire
la conferma dell’assenza del suo secondo patrigno. Il leggero ghigno enigmatico
rimaneva stampato sul suo volto come sempre, mentre un peso fluttuava fuori dal
suo corpo: non poteva proprio tollerarlo. Non sopportava né la presenza stessa
di quell’uomo corpulento e sempre allegro in una stanza, né vedere sua madre
abbandonata fra le braccia di quell’uomo rispettabile ma banale. Ma la cosa che
più odiava era che Alan cercava anche disperatamente di essere qualcosa di
simile ad un padre per Adrien, cosa che forse aveva potuto funzionare con una
bambina smidollata come Annalou ma che infastidiva soltanto la ragazza. – Bene.
– mormorò, lasciando intuire di proposito la propria soddisfazione alla madre,
ignorando bellamente il suo muto rimprovero. Quando suo padre era morto e
Lisette s’era ritrovata per le mani tutti quei soldi, era troppo piccola per poter
comprendere l’enormità di un secondo matrimonio: la stampa era stata un’avida
carogna sulla morte di James Miller, uno degli magnati
del petrolio statunitense, e il fatto che sua moglie fosse intenzionata a
risposarsi solo un anno dopo il tragico avvenimento aveva tracciato segni
indelebili su Adrien e Reese. La ragazza avrebbe compreso soltanto in seguito
il significato di quelle parole stampate sulla carta a caratteri cubitali. Poi
era arrivato in casa loro quel Donnie McDowell, quel banchiere, e questo aveva
comportato la nascita di Annalou ed un carico troppo pesante di misteri per dei
bambini. Allora ancora stavano a New York, ancora
Lisette non era stata in grado di disfarsi di un ricordo scandaloso nonostante
le domande insistenti dei bambini su “il luogo speciale dove era andato papà”.
Era milionaria, i ricchi spesso danno per scontato di avere ogni soluzione ai
problemi della vita.
E
poi c’era stato il caso Reese, anni ed anni dopo: Adrien ricordava quei giorni
ancora vividi con asprezza, la scomparsa di ogni sua speranza di cancellare il
tracciato di sangue che aveva seguito lei e la sua famiglia negli anni della
sua infanzia. Non appena era stato chiaro a tutti che le indagini della polizia
come le pratiche di divorzio da McDowell sarebbero state lente, avevano fatto i
bagagli e comprato un’enorme villa a Los Angeles, scappando dalla
East Coast senza trovare la minima tranquillità. I fantasmi del passato
aleggiavano ancora fra le tre donne, spaventando Annalou, deprimendo Lisette e
instaurandosi nel cuore di una tredicenne che aveva ereditato tutto il carisma
del padre e che aveva continuato a crescere nel veleno. Quando era arrivato
Alan Niven nel cuore a pezzi della povera donna, l’atmosfera lugubre di una
casa da sogno s’era trasformata in una finzione rose e
fiori che Adrien odiava. – Adrien, tesoro… Ti prego,
cerca di essere un po’ più gentile nei confronti di Alan. So che ce l’hai
ancora con lui per la storia del collegio, ma l’ha fatto solo per il tuo bene…
non hai idea come siamo stati in ansia quando abbiamo saputo… - Lisette dovette
interrompersi nell’incrociare il gelo nello sguardo della figlia per non
rischiare di soffocare sotto quel peso. Era solo un altro dei suoi tentativi di
aprirsi un varco nella barriera di Adrien, un’ennesima giustificazione a tutti
i doni e regali vuoti di cui aveva sempre circondato la ragazza da Reese, da
James, da sempre: nulla riusciva a fermare il tremolio delle sue mani
nell’attendere la sentenza di sua figlia.
-
Sai, mamma, ti trovo ingrassata – passò qualche secondo prima che il sorriso
sul volto di Adrien si allargasse in una forma crudele di falsa compassione. –
Non l’ho certo notato subito, ma aguzzando la vista potrei persino dire che i
tuoi fianchi sono un tantino più rotondi… Dovresti
stare più attenta, o quel meraviglioso Yves Saint Laurent rosso non ti entrerà
più… sarebbe un peccato, non credi? – c’era una nota spaventosamente sadica
nella voce della ragazza che solo con una certa dose di attenzione qualcuno
avrebbe potuto cogliere. Lisette era troppo impegnata a costringersi a non
scoppiare in lacrime amare davanti alla malvagità di sua figlia, alla cruda
realtà: quel poco di dignità che le rimaneva mentre Adrien la umiliava, la
teneva stretta a sé per la prossima volta che avrebbe cercato di capire cosa
c’era che non andava. – Sì… sì, hai ragione... dovremmo comprare dei libri per
la scuola… - tutto ciò che si sentiva in grado di fare era annuire come sempre,
lasciare che anche quella sconfitta scorresse via insieme alle altre. La
ragazza la fissò per un momento con la stessa crudeltà con la quale l’aveva
umiliata un attimo prima, per poi tornare a cercare qualcosa che solo lei
conosceva. – Certo. Oggi ho incontrato una delle professoresse, mamma: vedrai,
lo so che l’idea di una scuola pubblica è rivoltante, ma piacerà anche a te. –
il suo tono velato non ammetteva repliche, in quel gioco di ruoli
improvvisamente scambiati. Era sempre stato così: Lisette non aveva potere,
Adrien succhiava la sua energia vitale, il rispetto che aveva sempre bramato dalla
gente.
-
Sei tornata! – c’era qualcosa che non andava: Adrien aveva progettato di non
sentire quella voce acuta e incredibilmente fastidiosa fino
almeno fino alla fine dell’estate. Ed invece le bastò voltarsi per trovarsi
davanti agli occhi una piccoletta dai capelli biondi con ancora qualche strana
divisa scolastica addosso, che la fissava colma di gioia saltellando sul posto.
– Annalou, che bello. Non dovresti essere a Stoccolma? – nonostante da sempre
la ragazza fosse una brava attrice, non riuscì a sopprimere una nota d’ironia
nell’accogliere la sorellastra, che le corse incontro
abbracciandola senza ovviamente essere ricambiata. Annalou era sempre stata
troppo ingenua per accorgersi di quei dettagli. – Sono tornata qualche giorno
fa, ma mi sono fermata a Santa Monica per conoscere i genitori di Brad. Ti ho
parlato di Brad? Gioca a squash! I suoi sono adorabili, possiedono alcuni campi
da tennis proprio dove una volta… -. Annalou adorava Adrien: era il suo
modello, il suo idolo, ciò da cui prendeva ispirazione nel tentare di imitare
quegli atteggiamenti che avrebbero accresciuto la sua età agli occhi degli
altri. Nella sua mente, la figura della sorellastra era proiettata enorme e
brillante, al centro di un sacco di attenzioni da persone popolari, ragazzi: il
suo modo di camminare, di scuotere i capelli e di parlare attirava sempre gli
sguardi di tutti. Non c’era persona che non fosse assolutamente concentrato su
di lei e sulle sue qualità quando Adrien. Per questo, fin da quando entrambe
erano piccolissime, ne aveva fatto una sorta di migliore amica della quale
raccontava agli altri, inventandosi talmente tanti particolari di quella
relazione immaginaria da finire per crederci lei stessa.
Era
una Lisette in miniatura, senza una minima traccia del banchiere di cui non
aveva molti ricordi felici o di qualsiasi altro genere: mentre la quindicenne
continuava a blaterare del suo soggiorno nella terra natale
della madre, Adrien gettava l’occhio di tanto in tanto sulla figura di Annalou
e su quella di Lisette, che continuava a tenere lo sguardo incollato su di lei.
Probabilmente s’aspettava una frecciatina stavolta diretta alla sorellina,
qualcosa che minasse soltanto a demoralizzarla completamente: nell’espressione
contratta del viso della donna c’era l’aspettativa carica di tensione, che
invano ella cercava di attutire con lunghe sorsate di vino. -… e ogni giorno
andavo in un piccolo bar dietro il college, una cosa deliziosa! Nonna ha detto
di andarla a trovare, dice che non ti vede da troppo tempo! Ah, sono così
felice che sia tornata anche tu! – in barba alla silenziosa sfida di sua madre,
Adrien non disse proprio nulla, per niente intenzionata a spezzare l’atmosfera
di ansia di cui Annalou sembrava non essersi accorta. La maggior accennò un
annuire svogliato ai racconti della sorellina, come se le avesse appena
raccontato qualcosa d’incredibilmente irritante. – Prendo in prestito la
stilografica di Alan – le liquidò mostrando loro l’oggetto della sua ricerca,
senza essere contrastata da Lisette nonostante quella fosse una delle penne più
costose della collezione del marito.
-
Cara, Higgins dovrebbe averti lasciato il pranzo in frigorifero, l’ho congedato
mezz’ora fa… - la ragazza era sul punto di varcare la vetrata per tornare nella
tranquillità della dependance sul retro, quando sua madre la richiamò
bruscamente. Se quello era un tentativo di trattenerla ancora un po’, di
cercare di provare ancora il proprio bisogno della figlia, Lisette seppe
mascherarlo al meglio dopo le umiliazioni precedenti. – Ci farebbe tanto
piacere che ti unissi a noi per cena, visto che è da quasi un anno che non ci
ritroviamo tutti assieme… che ne dici? – dopo l’iniziale freddezza però sul
volto della donna sembrò comparire un tratto di dolcezza, mentre la voce
s’ammorbidì appena. Adrien la guardò intensamente, ignorando bellamente le
esortazioni della sorella minore che per lei era totalmente irrilevante: pareva
che sua madre stesse cercando davvero di farle capire quanto teneva alla sua
presenza a tavola. Forse aveva persino sentito la mancanza della sua presenza
ingombrante, di quel suo modo di metterla in soggezione. – Ho da fare. – poche
parole bastarono a rimarcare quanto la buona volontà di Lisette non fosse
sufficiente. Da quando era tornata non aveva visto una sola traccia delle
fotografie con le quali aveva adornato lei stessa il salotto, tutte
improvvisamente scomparse: si concesse un ennesimo sorriso malvagio, lasciando
che Lisette intuisse da sola il perché di quel rifiuto. Poi, girando sui
tacchi, tornò alla dependance.
Passando
oltre la grande piscina e i vialetti curati dall’aspetto mediterraneo, si
poteva avere la piena visione del suo piccolo paradiso privato: un edificio
composto da mura bianche circondate da fiori di cui si occupavano i
giardinieri, dalle vetrate ampie dalle quali si scorgevano gli interni.
Un’ennesima piscina, meno vistosa di quella che separava la dependance dal
resto della villa, era nascosta dietro l’unico pian terreno della costruzione
che aveva deciso di adottare come casa. Adrien lasciò le alte scarpe sulla
soglia della porta a vetri, prima di entrare nell’ambiente fresco dell’aria del
condizionatore e guardarsi attorno, finalmente nella sua isoletta scollegata
dal resto del mondo. Era tornata in America soltanto qualche giorno prima e non
aveva ancora avuto tempo di respirare l’aria della sola parte di quel terreno
che considerava casa. Ogni cosa nell’arredamento moderno era al suo posto,
perfettamente spolverata e lucidata dai domestici: la ragazza passò
delicatamente le dita sul dipinto in stile pop art che era il suo preferito,
sorridendo. Si sentiva quasi in vena di spendere chissà quanti dollari per una
telefonata oltre oceano: la voce di Meredith sarebbe stato un toccasana per la
noia che minacciava di appesantirle la giornata. Poi si sentì attratta da un
particolare dell’ampia saletta che fungeva da cucina, qualcosa che era
incredibilmente fuori posto. Sopra il piano di cottura immacolato e da lei mai
toccato, mancava una cornice bianca e piuttosto appariscente che negli anni
aveva sistemato lei stessa un anno prima, dopo essersi trasferita lontano dal
cuore della villa. Allo stesso modo erano scomparse altre fotografie che s’era
tanto divertita a disperdere nella cucina e nel salotto. Le prove della sua
silenziosa sofferenza, i tentativi di dare raccapriccio a Lisette erano spariti
dai muri bianchi, ridipinti prima del suo ritorno, ma non Adrien non tardo a
ritrovarli.
In
una stanzetta adibita a magazzino per gli articoli della casa dei domestici, la
ragazza trovò uno scatolone piuttosto comune, sigillato pesantemente con molti
strati di scoch. Adrien vi si precipitò come un leone affamato, strappandolo e
lacerandoli finchè quello non volle aprirsi. La prima cosa che vide del suo
interno fu l’immagine di un’allegra famigliola elegante, vestita di tutto punto
come per una serata di gala. Una Lisette molto più giovane sorrideva gioviale
all’obbiettivo, sfoderando un fisico che avrebbe fatto invidia a molte fasciato
dalla seta rossa di un abito da cocktail natalizio. Al suo fianco, un uomo distinto
in un completo nero gessato cingeva con un braccio le spalle della donna, sul
viso l’espressione che tante volte Adrien aveva potuto ammirare allo specchio:
gli occhi grigio-azzurri erano terribilmente familiari. La bambina in piedi
davanti all’uomo era incredibilmente bionda, coperta di graziose lentiggini e
semplicemente orgogliosa dell’abito d’organza dorato che la faceva assomigliare
ad una fatina. Sorrideva, elegante dei suoi tre anni. La pugnalata allo stomaco
era però il bambino più alto della graziosa bimba, uguale al padre nel suo
completo da uomo d’affari nonostante non dimostrasse di più di sette anni: il
suo corpo era leggermente inclinato verso la sorella, quasi volesse proteggerla
da ogni male. Ci volle solo una manciata di secondi prima che Adrien sorridesse
soddisfatta in quella foto di famiglia scattata molto tempo prima, ebbra di
un’altra vittoria conquistata. Qualche minuto dopo, con una sigaretta accesa
fra le labbra solo per diffondere l’alquanto sgradito odore di fumo per la casa,
già stava risistemando la prima cornice al suo posto con chiodi e martello.
Nonostante non fosse minimamente capace di lavori domestici decenti, il sorriso
vuoto del ragazzo nella fotografia era meglio di qualunque balsamo. Era la sua
vendetta.
-
E così l’addetto alla sicurezza ci ha sbattuti tutti fuori, senza sapere che
tanto saremmo rientrati per le scale di sicurezza… certo, sul tetto abbiamo
trovato la porta d’emergenza chiusa e per entrare abbiamo distrutto il sistema
di areazione, ma la faccia del buttafuori quando la mattina ci ha visti uscire
insieme agli altri è stata impagabile – era chiaro che il collegio inglese non
era servito a calmare la voglia di distruzione di Adrien, nonostante i buoni
propositi del signor Niven. Robin, alzando il bicchiere stracolmo di gin
tonico, si abbandonò in una fragorosa risata prima di inghiottire un lungo
sorso di alcol: Adrien rise con lei, prima di imitarla con il whiskey che aveva
ordinato. Era da un anno che non metteva piede nell’angusto, buio pub sul una strada
laterale poco distante dalla Kennedy High School, dal lato opposto della città
rispetto alla Renton. – Oh, ce l’hanno fatta pagare con poco, alla fine è
bastata una telefonata del padre di Met e siamo usciti tutti, schedati ma
fuori. È stata una cosa esilarante! – mentre la ragazza si reggeva a malapena
dalle risate nel ricordo delle sue rocambolesche avventure nel cuore di Londra,
Robin la fissava ammaliata e, in qualche modo, dolce. Aveva sentito una
profonda nostalgia per quegli incontri clandestini fuori dalle mura scolastiche
dopo che Adrien era stata buttata fuori dalla scuola privata per spaccio di
droga. Le mura lustre della Kennedy erano diventate subito, vuote, sbiadite.
-
Immagino! Mi dispiace solo per Alan… tutti i soldi spesi per la tua istruzione,
buttati per l’anima del cazzo… - non c’era alcuna nota di rimprovero nella sua
voce, solo una sottile ironia che destò un’ilarità ancora più forte in Adrien.
Non c’era cosa più pericolosa, ambigua e sinistra di una relazione fra studente
ed insegnante per gli occhi della gente: ogni moralismo sul rispetto reciproco
andava distrutto quando entravano in scena i pettegolezzi, e questo entrambe
l’avevano sempre saputo. “Io posso aiutarti” era iniziato tutto come una sorta
di rivincita per una delle tante umiliazioni che la signorina Miller infliggeva
ai professori della Kennedy: Robin, che già allora s’era addolcita per l’amante
che aveva trovato nel vicepreside, s’era avvicinata a lei come il buon
samaritano al vagabondo. “In me puoi vedere un’amica” era stata per una
scommessa con sé stessa che Adrien aveva accettato di vedere la sua
professoressa di lettere fuori dalla scuola. Non certo per quella menzogna che
era il destino nel quale credeva Robin, convinzione alimentata dal suo
licenziamento dopo la partenza di Adrien, sempre a causa della dolce relazione
con il vicepreside. S’era ritrovata in quel buco della Renton nonostante le sue
lauree, e per di più senza la sua fidata compagna alla quale scaricare tutte le
sue afflizioni. – Beh, per lo meno non ho perso l’anno… i soldi fanno sempre
molti miracoli – affermò la ragazza, spostando subito l’argomento dal suo
patrigno. – Ma tu che hai fatto? Al telefono non mi hai mai detto nulla di
sostanziale… come sta Josh? -.
-
Josh sta bene – la donna tagliò corto sul proprio marito, svuotando in un colpo
il bicchiere per poi accantonarlo insieme agli altri che lo avevano preceduto
sul tavolino. – Beh, forse è stato un anno un po’ noioso… - non era
assolutamente vero, ma era proprio questa la cosa che aveva in comune con
Adrien: erano entrambe convinte di essere troppo per gli altri, e perciò
tendevano ed esibire la propria sicurezza. La loro similitudine risultava agli
occhi di Robin un colpo di fortuna, un modo per rispecchiarsi in qualcuno che
suscitava in lei così tanti ricordi. – Però… c’è un ragazzo a scuola, un po’
ottuso forse, ma davvero… beh, sì, l’hai visto anche tu… - aggiunse poi,
ammiccando verso la ragazza reprimendo la vena di sospetto che balenava nei
suoi pensieri da quella mattina: Michael era uno degli allievi più lenti e
cocciuti che avesse mai avuto, ma insieme ai suoi amici formava un bel gruppo
di carne fresca che lei non aveva mancato di notare. E ancora prima che la loro
amicizia sbocciasse dal nulla, alla scuola privata Adrien era nota non solo per
il suo cognome, i suoi soldi e l’atteggiamento spregiudicato: il suo fascino,
la sua arma segreta, era nota a molti esemplari della popolazione maschile. –
Ah, l’ossigenato… Non mi dirai che hai deciso di ricominciare? – il tono
neutrale di Adrien ebbe un effetto terapeutico sui nervi della donna:
nonostante la ragazza non avesse detto nulla, era assolutamente convinta che non avrebbe alzato un dito su Michael. L’avrebbe espresso
subito altrimenti, avrebbe fatto sicuramente così. Doveva essere così.
-
Ma dai, è un ragazzino, un faccino carino non mi fa crollare! – entrambe
iniziarono di nuovo a ridere della situazione assurda, così pittoresca da
sembrare parte integrante di un film. Erano le sette di sera, dalla porta
principale s’intravvedeva uno dei famosi tramonti di Los Angeles ed erano
entrambe mezze ubriache in quel bar di caproni. Parlavano della cotta di Robin
per uno studente come qualcosa di normale, dimentiche del povero Josh che tanto
aveva sopportato e della famiglia Niven che attendeva invano il ritorno della
figlia maggiore per cena. E Robin era troppo su di giri, con la testa talmente
piena di fantasticherie per notare il cipiglio interessato che Adrien aveva
assunto nel guardarla: di lì a poche ore lo stesso ragazzo di cui stavano
discutendo avrebbe capito d’essere stato ingannato come tutti gli altri. La
tentazione di rivelare alla compagna d’aver sconfitto anche lei, di come
l’oggetto del suo desiderio e di quelle frasi sciocche l’avesse invitata ad una
festa con un chiaro secondo fine. Ma sarebbe stato divertente? Il ritorno a
scuola si avvicinava, e Robin era una persona troppo matura per rimanere
succube di un bamboccio per molto tempo: che senso aveva rivelarle che il loro
sodalizio, basato sulla superiorità di entrambe sugli altri, fosse
semplicemente costruito sull’adulazione dell’una verso l’altro? Anche quella
era una competizione. Sorridendo di come Robin fosse visibilmente brilla, la
ragazza si assicurò che fosse quantomeno sana per guidare fino a casa, ridendo
con lei. Era quanto di più simile ad un’amica avesse mai trovato.
-
Rossa, ti fai un giro con noi? – ma il fatto che la donna avesse dei doveri
coniugali non implicava la fine della serata per Adrien. La moto non era
parcheggiata lontano, ma la ragazza non aveva alcun desiderio di tornare alla
villa e sorbirsi un’allegra riunione di famiglia. Quattro ragazzi erano
appoggiati al muro dello sporco pub, e ammiccavano al suo indirizzo in una
maniera che lasciava ben poco spazio all’immaginazione: Adrien sorrise loro maliziosa,
lasciando che si crogiolassero ancora un po’ nel dubbio di poter godere della
sua compagnia. Era bastato un solo sguardo per capire quanto essi
la desiderassero, nessuno escluso: anche loro avrebbero fatto parte della
ragnatela di persone che attorno a lei tesseva. Dando loro la schiena, Adrien
frugò impaziente nella borsa nera, prima di spostare gli occhi di ghiaccio sul
punto in cui la macchina di Robin era scomparsa nel traffico. Era stato facile
trasportare oltre oceano le pillole bianche che spuntarono da una delle tasche
interne, a bordo di un jet privato che recava le
iniziali dei Miller su un lato: un paio di quelle, e il mondo svaniva,
lasciando che a brillare fossero solo lei e le stelle. Un paio di quelle, e
sarebbe stata sempre Adrien, ma in una maniera più amplia, più leggera: il
vantaggio dell’LSD era la percezione del mondo
distorta, l’esperienza sempre nuova che procurava. Era pronta per dare inizio
alla serata.
-
Michelle! Sei uno schianto, cazzo! – era noto a tutti come Slash fosse un
ruffiano, da sveglio: alle sue spalle, un buio magazzino incastrato fra altri
palazzi simili a quelli già era gremito di gente. Qualcuno stava suonando la
batteria con furia, accompagnato da alcuni accordi di chitarra appena
abbozzati, e tutti sapevano bene chi fossero i misteriosi musicisti. Michelle
si avvicinò ai tre ragazzi fermi sul ciglio della strada, sorridendo sorniona
al complimento dell’amico, nient’altro che u metodo
per ottenere una scopata gratuita. – Sì, parla, parla… - gli rispose infatti gettandogli amichevolmente le braccia al collo, per
poi scoccare un’occhiata alle due ragazze che la seguivano. – Tesoro, sei un
incanto… - era più o meno il teatrino che si ripeteva ogni sera: Maxie scoppiò
in una risata sguainata davanti ai modi falsamente galanti del ragazzo dai
capelli rossi che aveva abbracciato Michelle, attirando lo sguardo assassino di
questo. – Ciao, signore, dove sono le tue donne? – Axl era devoto nei confronti
del suo battibeccare serale con la biondina, cosa che avveniva puntualmente da
quando Michelle li aveva presentati qualche tempo prima. Mentre ognuno di loro
s’abbandonava ad un attacco d’ilarità sconvolgente a dispetto di Maxie, la
folla di ragazzi di ogni età continuava a fluire verso l’edificio alle loro
spalle. La notte stava rapidamente calando e nell’aria si respirava l’odore
dell’ennesima festicciola estiva a base di sballo: era ciò che aveva reso famosi quei cinque ragazzini che si spacciavano per
rockstar, quasi più della loro musica. – E comunque, Maxie, tu non sai
apprezzare le innumerevoli doti di un figo come me… non sai apprezzare le doti
di nessuno! – persino la ragazza in questione non seppe trattenere le risate
davanti alla dimostrazione del grande ego di Axl Rose. Solo due ragazzi erano
rimasti in disparte, entrambi immersi in tormentati pensieri.
-
Piccola Linda, siamo cresciute durante l’estate! – l’inguaribile rubacuori che
era Slash però non poteva certo resistere davanti ad una qualsiasi ragazza
dall’aspetto quanto meno “scopabile”, come diceva lui. Non guastava certo il
fatto che le gambe della ragazzina che aveva sempre conosciuto come la
secchiona della scuola fossero cresciute di trenta centimetri dall’ultima volta
che l’aveva vista. – Ciao – Michelle alzò gli occhi al cielo blu scuro davanti
alla solita timidezza dell’amica, che nascose il viso dietro i lunghi capelli
color cioccolato. – Oh, Linda è troppo imbarazzata per ringraziarti,
probabilmente fra due anni ti spedirà una lettera… - il commento della ragazza
verso l’amica non era intenzionato a ferirla, ma dopo lo scroscio di risate che
seguì quelle parole nulla fu facilitato per la povera Linda. Si limitò a
scoccare un’occhiata arrabbiata in direzione di Michelle, che le sorrise
amichevolmente non appena s’accorse di quel segno di vita: non le avrebbe mai
confessato quanto in realtà le stesse a cuore. – Ciao Duff… - fu però proprio
la più timida del gruppo a notare l’alto ragazzo che era rimasto isolato fino a
quel momento. Certo, fissava la luce rossastra della sigaretta che teneva in
mano al posto della sua faccia in ombra, ma nessuno sembrò notare quel
dettaglio: improvvisamente l’unica persona che non pareva aver voglia di unirsi
alla conversazione si ritrovò al centro dell’attenzione del gruppetto. – Stai
ancora aspettando la tua principessa? – domandò sarcastica Maxie, dopo essersi
scollata di dosso un irruente Axl che minacciava di farla cadere a terra sotto la sua spinte moleste.
-
Ah, ah, ah! Sto morendo dal ridere! – il tono burbero del ragazzo era
tutt’altro che conciliante, la quantità di nicotina che sembrava voler aspirare
in una volta altamente preoccupante. Scrutava la strada con attenzione senza
mai scorgere il bagliore rossastro dei capelli che cercava, senza udire il
rombo di una moto familiare: sul suo volto una minacciosa espressione
arrabbiata aveva preso posto stabilmente. – Niente da fare, sfigato. Ti ha dato
buca questa… Babitte? – esordì Axl beffardo, portando le braccia attorno alle
spalle di Michelle e Linda, suscitando in loro sentimenti talmente contrastati
da far dubitare della loro salda amicizia. – Babette,
stronzo… e che cazzo, non le ho mica dato un orario! Una arriva quando cazzo
gli pare! – a dispetto delle sue parole tolleranti, l’impazienza di trovare
almeno un segno della presenza della ragazza misteriosa era chiara nei suoi
gesti. Non degnò di uno sguardo gli amici ancora intenti a prenderlo in giro in
ogni maniera possibile, convinto che prima o poi sarebbe arrivata, convinto
d’aver fatto colpo quella mattina. Sul viso di quella ragazza c’era un chiaro
cipiglio, un indizio evidente di come avesse recepito il suo messaggio… -
Senti, stronzo, ma lo vedi quante fottute persone stanno aspettando che si
attacchi qualcosa? Mettitela via, la tizia lì,
Babette, non viene dai tipetti tutti ossa e ossigeno in testa come te! Se c’era
il sottoscritto… - prese a vantarsi Slash, beccandosi un forte colpo sul capo
da Maxie come prova di quanto il suo fantomatico fascino fosse un’invenzione di
sua fantasia.
-
Beh, siete morti tutti? – dietro di loro, una voce strascicata come se fosse
appartenuta ad una persona appena sveglia richiamò la loro attenzione: beato di
una sigarette che penzolava dalle sue labbra, Izzy
Stradlin stava venendo loro incontro con le braccia aperte, l’espressione
perfettamente tranquilla. Indossava il più strano assortimento di vestiti mai visti prima e la coppola che gli copriva i capelli corvini
non sembrava farlo soffrire per il caldo che nell’aria soffocava tutti. –
Allora, ‘sta Babette? Sei tu? Ma non eri rossa? –
domandò senza nessun alcun interessa apparente indicando Linda, la quale
arrossì vistosamente portando però le mani sui fianchi. – Ma come? Non mi riconosci, drogato? – dalla dimensione delle pupille
dell’amico, la ragazza non sembrava aver sbagliato di tanto, sfoggiando
finalmente qualcosa che assomigliasse vagamente ad un carattere dopo il primo
iniziale imbarazzo. – Gli ha dato buca, Stradlin! Mister
Seduttore qui è solo uno sfigatello! – rispose precedendo qualsiasi altra
battuta Axl, allungandosi poi per cercare di stringere fra l’indice e il
pollice la guancia di Duff, che imprecando si scostò. – Dai,
McKagan, sembri una femminuccia permalosa! Andiamo dentro, diamo inizio a
questa festa e se questa Babette si presenta va bene, altrimenti chi se ne
frega, no? – come al solito, la saggezza schietta di Izzy conciliava le
opinioni di tutti senza che si sfociasse in una nuova serie di prese in giro.
Il magazzino ormai era pieno di gente che attendevano l’inizio della festa:
nessuno avrebbe chiesto di meglio.
-
Dai, Duff! Stasera posso stare qui solo fino a mezzanotte, poi devo essere al
locale per lavorare, quindi muoviti! – e Michelle, la quale fretta era più che
motivata, fu accontentata presto: dei capelli rossi che avevano attirato il suo
sguardo quella mattina neanche l’ombra, e l’orda di persone semisconosciute che
pretendeva dello sballo li reclamava. Lasciando che le dita scorressero sul
fidato basso, mentre le prese elettriche dell’angusto angolo in cui stavano
suonando quasi esplodevano, Duff liberò anche la tensione che quella vana
attesa gli aveva procurato. Era così automatico il processo che permetteva loro
di confondere i propri corpi fra la folla, di accettare qualsiasi tipo di canna
passasse loro vicino. Bastava non fare altro che non vivere calpestando la
terra con la propria voglia di urlare al mondo ogni insulto possibile, in barba
ai corsi estivi che li aspettavano la mattina. Non uscì più a controllare il
possibile arrivo della sua fantomatica Babette, trasportato in un’orda di
sensazione che solo una giusta dose di alcol, musica e droghe di ogni tipo
sapevano dare. Erano giovani e fottutamente incoscienti, ed una ragazza di
passaggio non riusciva a rovinare la loro giornata. La notte li aveva
abbracciati con l’amorevolezza di una madre, malsana nel buio, inghiottendo le
loro menti, le loro ansie, l’alba che li attendeva.
“Illumina,
annulla le paure, oh
luna,
nulla è uguale.”
(Verdena
– Luna)
Secondo
capitolo! Beh, è incredibile ricominciare da capo, ero abituata a due cifre in
ogni capitolo xD beh, dopo questi commentini mediocri
e del tutto inutile, vi espongo la novità di questa storia. siccome
trovo sempre ispirazione in molte (troppe) canzoni, voglio lasciare degli
stralci di queste in ogni chappy, in modo che voi tutti sappiate l’importanza
che esse hanno avuto per me. La musica è vita! Non voglio annoiarvi troppo -.- perciò comunico che, nonostante ci sia l’opzione
“rispondi” per le recensioni, sono affezionata alle pubblicazioni delle
risposte ai vostri commenti e manterrò questa tradizione J
AmyHale:
io non so come fa a starti simpatica Adrien. Io la odio, anche se alla fine
l’ho creata io (alla fine?!). No, non va bene: sto
sclerando, e anche tanto… forse perché sono stata due ore attaccata al computer
per poter finire in tempo perché QUALCUNO (Ma non faccio nomi u.u) potesse commentare in tempo il capitolo… -.-“ e comunque lo so che è bella la foto di Maxie: l’ho
scelta io, per forza è bella!
_LittleAxl_:
per il nome, mi stai già simpatica ;) mi hai riconosciuto subito per la struttura
della pagina? Beh, anche quella è una specie di firma, no? Più
che altro, scelgo questi caratteri per comodità: visto che sono molto miope, mi
piace che le parole si leggano belle grandi… emh, lo so, sono noiosa… però
consolati: se mi avessi beccato in un momento di follia la risposta sarebbe
stata illeggibile! Grazie per la recensione ;)
aivlis8822: no, guarda, hai scritto due parole ma già
da quel “Sei una figa” stavo morendo dal ridere! Io adoro le tue recensioni,
anche con poco sono divertenti xD sono contenta che
ti piaccia l’inizio, spero continuerai a seguirmi a lungo! Anche se, come ho
già detto, questa storia dovrebbe essere molto più
corta rispetto alla precedente! Grazie per il commento ;)
Sylvie
Denbrough: ecco, cara, sono contenta che tu abbia commentato! Nonostante sia
soltanto all’inizio, hai già centrato il punto di questa storia: Adrien è stata
creata dalla sottoscritta per essere odiata ed insieme amato, proprio perché è
una specie di “anti-Naz”. Credo che, come tu abbia
potuto notare da questo secondo capitolo, sia tutto il contrario della mia
precedente protagonista… anche se forse per certi versi si assomigliano!
Comunque grazie per i bei complimenti e per la rece!
IoMe: tuke! Anche se a me non interessa il
tuo parere (u.u) perché sei una traditrice e ti sei
beccata un più facendo la biografia di Avril Lavigne (bleah!)… Recensisci! Sono
in ansia, non so come sia venuto questo capitolo e mi fa schifo! Come sempre,
del resto -.- lavora, schiava!
Bye!