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Autore: ClaudiaSwan    25/11/2010    4 recensioni
Anno del signore 1263, Svezia. Il paese gode di una relativa pace sotto la corona di re Erik Knutsson, ma un improvviso e sospetto malore lo conduce al letto di morte in poco meno di tre giorni. Eredi discutibili si fanno avanti, e per l’ennesima volta il regno si trova a dover essere teatro della spietata lotta per il potere che ha visto più volte alternarsi la corona Sverker e la corona Erik su un trono che ancora non rappresenta la Svezia così come la conosciamo noi oggi.
Di tutto questo Robert sarà protagonista. Catapultato dal XXI secolo indietro di più di 700 anni, Robert si ritroverà a dover sopravvivere in un mondo che non ha nulla a che vedere con quello che rappresenta la sua quotidianità di attore. Improvvisandosi cavaliere errante, vincerà in un torneo la mano di fru Catherine, figlia dello jarl del regno e della stirpe Folkung, una delle schiatte più potenti e influenti della Svezia del XIII secolo, trovandosi di colpo nell’occhio del ciclone della lotta alla corona.
Spada alla mano e armatura addosso, un Robert in pieno stile Braveheart!
Una storia ispirata ai romanzi di Jan Guillou che spero possa incuriosirvi e appassionarvi
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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capitolo 1 Benvenuti cari lettori. Vi prego di leggere attentamente questa introduzione prima di avventurarvi nella lettura.
La storia che state per leggere pretende infatti che io citi le fonti a cui mi sono ispirata affinché tutto possa svolgersi nella correttezza e nel rispetto del diritto d’autore altrui.
L’autore a cui faccio riferimento esplicito è Jan Guillou, autore del “romanzo delle crociate”, una quadrilogia che raccoglie “il templare”, “il saladino”, “la badessa” e “l’erede del templare”.
La storia che intendo raccontare si colloca al termine del terzo libro, riprendendo tuttavia alcuni spezzoni e situazioni dell’ultimo libro.
Personaggi come Arn Magnusson, Cecilia Algotsdotter, Bengt Elinsson, Sigurd di Forsvik e alcuni altri che emergeranno nel corso della narrazione come personaggi minori, sono di sua esclusiva proprietà. Tuttavia la maggior parte dei nomi presenti nel racconto appartengono a personaggi storici realmente esistiti, così come i luoghi.
Avviso fin da ora che verranno citati alcuni riferimenti storici reali antecedenti alla mia narrazione, di cui vi verrà data spiegazione al fondo del capitolo e verranno segnalati con un asterisco. Per il resto, ovviamente ho piegato la storia così com’è scritta sui manuali alla mia narrazione, e perciò confido che le eventuali imprecisioni, gli eventuali errori storici, vengano perdonati e letti alla luce di quest’esigenza.
Detto questo, vi lascio alla lettura, sperando che questa storia decisamente anomala in questo fandom si guadagni il vostro apprezzamento capitolo dopo capitolo.

 


 



Capitolo 1



Correva l’anno del Signore 1263, poco prima di Sant’Eskil, quando le notti iniziano a farsi chiare e si avvicina il periodo della semina, quando i prati sconfinati che circondavano la tenuta di Arnas, nel Vastergotland, si riempirono di tende multicolori. Non fosse stato per gli scudi araldici ben piantati nel terreno che svettavano verniciati a fresco, per il gran via vai di piccoli apprendisti maniscalchi che entravano e uscivano dalle piccole fucine di fortuna e per il vociare allegro della folla che arrivava fino alle orecchie dei signori della tenuta, si poteva pensare che la roccaforte costruita più di cinquant’anni prima dal grande Arn Magnusson stesse per essere presa d’assedio.
- tutto questo trambusto per uno stupido torneo- borbottò tra sé e sé la giovane folkung guardando giù dai merli dell’ampio muro di cinta a nord.
Catherine Birgersdotter era stanca di cercare di capire le linee imperscrutabili della politica matrimoniale. Erano pensieri senza capo ma tutti quanti con una coda: un erede, ovviamente maschio, avrebbe salvato molte più vite in caso di guerra che non l’addestramento di uno squadrone intero di cavalleria pesante folkung. Che la sposa non fosse proprio felice della via prescelta dal proprio padre all’ultima assemblea di stirpe, non era di rilevante importanza per nessuno.
Donne.
Un cruccio continuo, dalla nascita fino al matrimonio, ecco cos’erano. Sin dal primo vagito, il loro destino era segnato.
Poche avevano la fortuna che ebbe sua bisnonna, Cecilia Algotsdotter, con suo bisnonno Arn Magnusson: sposarsi per amore.
La loro fu una triste storia, minacciata in più occasioni dagli interessi in gioco per la lotta alla corona degli Erik e Catherine amava sempre farsela raccontare da nonna Ingrid, nelle lunghe sere d’inverno davanti al fuoco.
Nonno Magnus era il primo frutto di quell’amore, un amore ancora acerbo ma già molto forte, tanto da non essere intimidito dall’ammenda che avere un figlio fuori dal matrimonio prevedeva.
Se anche il loro amore, così forte e così temprato dai lunghi anni di penitenza, scampò per un soffio agli intrighi degli uomini, che opinione poteva avere lei, figlia più giovane dello jarl, di un torneo in cui il premio sarebbe stata la sua mano?
Che opinione poteva avere, Catherine, di un padre che, contro ogni aspettativa, sprecava un’importante mezzo di alleanza, quale lei si era rassegnata ormai da lungo tempo ad essere, per affidarlo al caso?
Un folkung non infrange mai un  giuramento.
Mai.
Ne andrebbe dell’onore dell’intera stirpe, e anche in questo il matrimonio dei suoi bisnonni ne era stato prova concreta.
Un vero folkung non si rimangia mai la parola data.
Che ne sarebbe stato di lei se ad uscire vittorioso dal torneo fosse stato il marito sbagliato per il regno?
Che ne sarebbe stato dell’onore di suo padre?
Che ne sarebbe stato dei suoi fratelli se avessero deciso di accettare un più che probabile duello per salvarlo quell’onore?
Per quanto pregasse la Beata Vergine, che sempre si era dimostrata benevola verso la sua famiglia, in cerca di risposte o per lo meno di segni che gliele facessero intuire, Catherine non vedeva saggezza nella scelta del proprio padre, e sebbene fosse questa la scusa ufficiale che si era data, quella ufficiosa era che non aveva smesso di sperare in una vita diversa per sé stessa, possibilmente che non comportasse né il velo di una sposa né quello di una suora.
Ma era una donna.
Una folkung.
Una figlia di Bjalbo.
E ciò bastava a ricordarle che non aveva via di scampo.
 
***
 
La vita di Robert Thomas Pattinson era cambiata al punto che spesso gli sembrava tutto un sogno. Mai avrebbe potuto immaginare gli avvenimenti degli ultimi anni, né momenti più bui né più felici.
Eppure era lì, nella sua tenda, alle porte di una sperduta roccaforte svedese a passare la cote sul filo della sua spada.
Molti furono i pensieri e le paure che lo attanagliarono in quell’ora di preparazione.
Se lo avessero scoperto?
Essere scoperto significava essere messo ai ceppi sulla pubblica piazza e poi ucciso. Almeno, in Danimarca era così.
Il quell’angolo di mondo dimenticato da Dio valeva la stessa regola? O ti uccidevano seduta stante, con un rapido colpo di spada?
Sicuramente no. Morire sulla lama di un’arma così nobile era un privilegio dei soli signori, non di un inutile attore che, chissà come e chissà per quale motivo, era finito dentro al suo libro preferito e per sopravvivere aveva dovuto inventarsi una nuova professione.
Per quanto fosse sempre stato una persona fantasiosa, non aveva saputo pensarsi niente di meno che cavaliere. Ed era un cavaliere che aveva serie difficoltà di sopravvivenza in un mondo in cui per portare una spada bisognava essere in grado di sanguinare blu.
Se tutto fosse andato bene avrebbe potuto morire falciato dalla mezza luna di una scure e non andare incontro alla nera mietitrice con un cappio al collo.
Capitò all’improvviso, una notte di circa quattro anni prima. Un attimo era coricato sul suo letto, tra le sue lenzuola sfatte con una copia de “la Badessa” tra le mani, quello dopo si ritrovò sdraiato con la faccia nella neve e niente altro che una sottile camiciola di lino, un pantalone di morbida pelle e stivali al ginocchio addosso.
A volte si sforzava di ricordare qualche particolare in più del suo arrivo in Svezia, ma, a parte questo piccolo dettaglio del titolo del libro che stava leggendo, non ricordava altro.
Sapeva solo che nonostante il gelo, che aveva rischiato di rendere la sua vita all’alto dei cieli prima del dovuto, non era poi chissà quanto rammaricato della sua sorte.
Nel suo mondo, nel 2011, avrebbero detto che era semplicemente un venticinquenne con la sensibilità di un bambino, che con una spada di cartone foderata di carta stagnola correva per casa a cavallo di una scopa immaginando di essere un cavaliere. Troppo grande per questi giochi, troppo grande per questi sogni ormai del tutto irrealizzabili in quella che era la realtà del suo tempo.
Non erano molto distanti dalla realtà, a ben vedere. Robert era esattamente ancora quel bambino nella sua testa, ma fin troppo cosciente del fatto che per le strade si girasse sulle auto e non a cavallo e che si indossassero completi scuri con cravatta e non cotte di maglia per affrontare i nemici in battaglia. Che diamine! Nemmeno più le spade erano spade! Con un cellulare si risolveva ogni cosa.
Camminando in mezzo alla tempesta di neve, quindi, era quasi contento di ciò che gli era capitato, anche se, non importa quanti anni passavano, continuava a sembrargli tutto assurdo e impossibile. Un sogno, appunto.
Non aveva avuto particolari difficoltà ad adattarsi alla sua nuova vita. Aveva letto quanto bastava di saghe, miti e leggende medioevali per capire come girassero le cose, soprattutto in quell’angolo di mondo decisamente troppo a Nord dell’Europa per essere davvero considerato ancora “mondo”.
Era nella terra dei folkung, dei signori dal mantello azzurro con un leone rampante argenteo sullo scudo e i cavalli arabi bardati di cotte di maglia sotto le gualdrappe con i colori di stirpe.
Aveva letto e riletto mille, milioni di volte delle avventure del leggendario Arn Magnusson di Arnas, il cavaliere templare che, tornato dalla Terrasanta, aveva portato la pace nel suo paese natale devastato da anni di lotte per il potere.
Miracolato e donato all’opera di Dio sulla terra, Arn era cresciuto in monastero, educato all’arte della guerra da tale frate Guilbert e alla filosofia da padre Henri. Rispedito nel mondo secolare, l’ingenuità, sua eredità dell’educazione ricevuta tra i monaci, l’aveva portato a un guaio dietro l’altro ma anche a tante conquiste, fino a che, come ogni uomo, fu vinto dall’amore per una giovane: Cecilia Algotsdotter.
Fu la sorella di lei, per invidia ed egoismo, a condurli alla rovina utilizzando la confessione a una badessa di fazione nemica come arma. Per essersi congiunti carnalmente prima del matrimonio, vennero condannati a vent’anni di penitenza, da scontare rispettivamente in convento e in Terrasanta.
Robert non era quindi poi tanto sprovveduto quando si trovò a vagare in quelle terre devastate dal gelo cercando di inventarsi un modo per sopravvivere. Sapeva chi reggeva il potere, come e perché veniva gestito da chi e quale fosse lo schieramento delle fazioni nemiche.
E proprio perché conosceva così bene la sua nuova realtà avrebbe dovuto essere più accorto e saggio, accontentandosi di diventare un servo, magari a Forsvik, la tenuta dell’ormai defunto herr Arn, dove sapeva che sarebbe stato immediatamente affrancato.
Ma il suo sogno era decisamente diverso. Perché avere un forcone in mano quando poteva avere una spada?
Non fu facile trovare le persone giuste, ma si sa che in ogni contrada che si rispetti c’è sempre il bifolco che, per quanto tema la forca, non può proprio fare a meno di giocarsi l’osso del collo in una mano a tu per tu con la sorte in cui sa già che, presto o tardi, sarà il banco a vincere.
Sigge di Skara apparteneva a quel pugno di indigeni liberi che professavano ancora la religione dei propri padri, troppo scettici nei confronti di quello che loro chiamavano “il Cristo Bianco” e troppo sospettosi di quei vescovi bardati d’oro e preziosi i cui occhi brillavano di fronte a un sacchetto di monete d’argento per potersi convertire alla nuova fede. Era quindi il candidato ideale, secondo Robert, a fargli da spalla: ben addentro alla vita bassa del popolo e sufficientemente incosciente per poter agire in frode a tutte le regole che governavano il paese. E soprattutto era una specie di tuttofare.
Di fronte a un compenso stimato al cinquanta per cento dei futuri guadagni, Sigge accettò immediatamente l’accordo con Robert, prodigandosi anche in fretta per procurarsi l’occorrente: un’armatura, un cavallo, delle armi e un bravo chierico corrotto che falsificasse una patente di nobiltà inventata di sana pianta.
Era davvero una fortuna che quei barbari del nord avessero iniziato a coltivare interesse per i tornei tra cavalieri come in ogni angolo d’Europa, altrimenti Robert non avrebbe saputo proprio che inventarsi per sopravvivere.
Non che ci avesse pensato in realtà così seriamente. Era stata la prima idea che gli era balenata in mente con un’immagine nitida di Heath Ledger che cavalcava, lancia in resta, gridando “William!!!!” prima di disarcionare il suo avversario in una giostra. E da bravo attore, aveva seguito il suo esempio, cercando di entrare in quel personaggio al meglio delle sue capacità per non essere scoperto.
E fino a quel momento non se l’era cavata poi così male. Aveva vinto molti tornei, si era fatto un nome da quelle parti.
Sir Robert Thomas Pattinson da Barnes aveva ormai un suo peso in Danimarca e in Norvegia, dove si era diretto a cercare qualcuno che gli insegnasse l’arte in cui voleva cimentarsi. Certo, non era un nome che suonava bene come Magnus Maneskold, o Ebbe Sunesson … o Bengt Elinsson, molto più adatti, geograficamente parlando ma… aveva il “son” alla fine… sicchè era riconosciuto come figlio di qualcuno almeno. Di uno che si chiamava “Pattin”, nome che veniva accettato senza troppi sorrisi di scherno perché era straniero e nella terra di quel cavaliere tanto forte poteva essere un nome come Eskil, o Birger o Magnus dalle loro parti.
In ogni caso, era di fatto un cavaliere capace che sudava freddo ad ogni iscrizione quando Sigge, suo araldo all’occasione, presentava la pergamena del suo attestato di nobiltà.
Se fosse andato tutto bene, quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe temuto per la sua testa.
In palio non c’erano oggetti d’oro facilmente rivendibili. C’era molto di più.
C’era una folkung.
E non una folkung qualsiasi, ma la nipote di Arn Magnusson in persona.
E c’era una terra in cui vivere: Forsvik.
Sposarla non avrebbe significato soltanto ottenere il legittimo diritto a portare una spada, ma entrare in una delle famiglie più nobili e più rispettate di tutto lo Sveland.
Sposarla avrebbe significato entrare davvero nella storia di cui aveva tanto letto e sognato e in cui aveva tutta l’intenzione di rimanere.
Non poteva perdere.
Non poteva assolutamente perdere.
E fu con questo pensiero che continuò a passare la cote sulla sua spada fino a che fosse in grado di tagliare a metà un capello lasciato cadere sul suo filo.
- Robert! - lo chiamò la voce di Sigge fuori dalla tenda non appena ripose la sua arma nel fodero.
Quando uscì fuori dalla sua tenda verde, Robert venne quasi abbagliato dalla luce del sole che aveva tenuto lontano per troppe ore e per qualche minuto faticò a mettere a fuoco la figura del suo araldo che era controsole. Ma anche con la vista offuscata dalle macchie, la figura di Sigge non era certamente confondibile.
Alto e imponente, aveva la struttura fisica di un uomo che ha lavorato a lungo come servo. Muscoloso e solido, con i capelli rossicci e gli occhi scuri, assemblava in sé tutte le caratteristiche salienti dei tratti svedesi. Nonostante l’aspetto minaccioso, era un uomo buono. Uno di quegli uomini che sono costretti a reinventarsi giorno dopo giorno per la sopravvivenza, ma era anche uno di quegli uomini che non si lamentano della propria misera condizione ma anzi sanno che non si troverebbero a proprio agio in qualsiasi altra vita.
Sigge affermava, senza mentire, che l’ultima cosa che desiderava nella sua vita era un mantello azzurro. La libertà sopra ogni cosa era l’unico mantello che era disposto a portare.
- se sei ancora convinto di quello che stai per fare, il tuo cavallo è pronto- disse Sigge con la sua voce profonda e dura.
- più che convinto, amico mio. Più che convinto- gli rispose Robert seguendolo poco distante dalla tenda dove il suo stallone già bardato lo stava aspettando.
- le lance sono già state consegnate?- gli chiese aggiustandosi meglio la cotta di maglia sui polsi prima di afferrare il guanto ferrato che gli veniva dato.
- si. L’armiere ha fatto un po’ di storie per il compenso. Sentirsi dire che l’avremmo pagato metà subito e metà dopo il torneo non gli ha fatto molto piacere. Credo che se non dovessi vincere, Sir Robert, ci converrebbe darci alla fuga senza nemmeno levare la tenda- scherzò Sigge.
Non era permesso alle persone di rango inferiore di rivolgersi al proprio signore senza anteporre il titolo davanti al nome, ma Robert non era realmente un nobile.
A ben vedere era un furfante anche peggiore di lui, dato che aveva lanciato questa folle idea che però, da tre anni a quella parte, era risultata vincente. Quando Sigge in privato lo chiamava Sir era chiaramente per burlarsi di lui.
- non levare la tenda, Sigge? Sul serio?-
- parola mia, Robert, che Odino scagli su di me la sua mazza se mento. Quell’armiere sarebbe in grado di piazzarsi di fronte al cancello dell’arena pur di non farti andare via senza essere pagato-
- in questo caso, allora, mi conviene vincere-
- non so quanto ti convenga, invece- commentò tutto a un tratto serio l’araldo.
- oh, Sigge andiamo! Non essere sentimentale!- lo canzonò Robert già pensando alla commozione che l’omaccione faceva di tutto per nascondere quando si parlava di quanto la loro vita sarebbe cambiata se avesse preso moglie. Avevano sviluppato negli anni una vera e autentica amicizia, che aveva finito per prescindere dall’accordo di affari che li aveva tenuti legati inizialmente.
Se Robert si fosse sposato sarebbero cambiate molte cose.
- non sono sentimentale, Robert. Penso alle conseguenze!-
- si, al fatto che la nostra testa non rischierà più di rotolare dentro una cesta! È un bel cambiamento in effetti. Merita una riflessione-
- sai cosa intendo. Solo i cavalieri veri giostrano, e solo i veri cavalieri sposano una folkung. Se per qualche bizzarria del destino si venisse a scoprire anche dopo un eventuale matrimonio che non lo sei, ti conviene pregare seriamente di essere entrato nelle grazie dello jarl per non subire la croce di fuoco. Quella di Bjalbo non è una famiglia con cui vale la pena scherzare.-
Già, la croce di fuoco. C’era giusto quel piccolo problema. Trovarsi di fronte al patto che proteggeva la vita e l’onore di tutti i folkung era praticamente come guardare in viso la morte stessa, perché di quello si trattava. Disonora gravemente un folkung o offendilo fisicamente e non arriverai a vedere il terzo tramonto dopo aver commesso la tua colpa.
Meglio dunque essere positivi e pregare la Beata Vergine e San Giorgio di non farlo scoprire. Sarà stato il periodo di pieno ardore cristiano, ma si ritrovò a pregare più del solito e con più convinzione da quando era nelle terre del nord.
- nessuno lo verrà a sapere. Vincerò, mi sposerò, indosserò un mantello azzurro e tu verrai con me. Ho sentito dire che lo jarl ha intenzione di dare in dote niente meno che Forsvik- disse Robert montando a cavallo e cercando di cambiare parzialmente discorso.
- è così, infatti. Molti vogliono quella guarnigione. Sai bene cosa significhi per la loro stirpe-
- certo che lo so. E lì che i folkung sfornano i migliori elementi del loro esercito-
- esattamente. E il fatto che sia stata la fondata da Arn Magnusson in persona non ti fa pensare?-
- a cosa?-
- a quante poche probabilità di vincere avrai, Robert-
Non aveva mai visto Sigge così preoccupato. Seriamente preoccupato. E se uno come Sigge era tanto inquieto voleva dire che forse tutti i torti per impensierirsi non li aveva. Ma non doveva certo preoccuparsi della sua vittoria. Scorrendo mentalmente gli elenchi degli scudi araldici in lizza, non ricordò nessun avversario particolarmente temibile, non più del solito almeno.
Ma c’erano almeno due scudi blu con un leone rampante su tre fiumi d’argento, e questo, in effetti, complicava un po’ le cose.
- e perché mai? Bengt Elinsson è ormai vecchio e non è più in grado di brandire niente di più pesante di un boccale di birra. Sir Sigurd e Sir Oddvar sono più o meno nelle sue stesse condizioni. I cavalieri più forti del regno sono tutti seduti sugli scranni del palco e non su una sella, chi dovrei temere?-
- il figlio di Alde Arnsdotter, Edwar, vorrà mantenere la casa di suo nonno. Dicono che sia molto bravo, senza contare che il suo insegnante è stato suo padre Sigurd in persona, il comandante del primo squadrone di cavalleria leggera. È stato uno dei primi a essere nominato cavaliere da re Erik- ipotizzò Sigge porgendo a Robert le briglie di Chimal, il suo cavallo.
- e con questo?-
- ci saranno i folkung migliori in lizza per la mano di Chaterine Birgersdotter. Lo jarl non darebbe mai Forsvik se non fosse praticamente certo che finisca nelle mani di un altro folkung-
- e allora perché non vietare l’iscrizione al torneo agli stranieri?-
- non pretendo di conoscere i piani di quella vecchia e astuta volpe dello jarl, ma qualcosa bolle in pentola. Mi rifiuto di credere che doni la mano della figlia a un pretendente scelto dal caso e le dia anche quella tenuta come dote-
- i figli maschi di Birger sono tutti accasati o ancora troppo piccoli per entrare persino in apprendistato. Forse ha esaurito già tutti i legami matrimoniali utili alla stabilità della corona- considerò Robert, più per partecipare alle elucubrazioni mentali dell’amico che non per reale interessamento.
- O semplicemente non può far sposare sua figlia con una delle figlie del re. La regina Rikissa ha sfornato un esercito di femmine -
- c’è sempre suo figlio Valdemar -
- Valdemar è solo uno dei suoi tanti bastardi. Ha scelto quello concepito con la dama di corte di più nobili natali e l’ha fatto figlio suo. Uno smacco bello e buono per i danesi. Mi chiedo perché i folkung continuino a sostenere gli Erik se hanno mani in pasta dappertutto. I commerci sono anni ormai che vengono gestiti qui ad Arnas da Sir Torgils e la parte più forte nell’esercito è della stirpe di Bjalbo. La scuola di Forsvik sforna ogni anno ottimi elementi da guerra. Persino la maggior parte degli jarl, per non parlare del maresciallo del re… Avrebbe potuto dare Chaterine in sposa direttamente a uno dei cavalieri che insegnano alla scuola. Sarebbe stato più saggio. O darla al figlio del re… Valdemar, un erik. Può anche essere un bastardo, ma è stato riconosciuto come membro della famiglia reale all’ultima assemblea di stirpe. Se avessero un figlio maschio, erediterebbe la corona e ci sarebbe un folkung sul trono- rifletté Sigge con una mano sotto il mento e l’espressione assorta mentre si dirigevano entrambi verso l’arena.
Pochi minuti ancora e il primo torneo di Arnas avrebbe avuto inizio.
- qualcuno dice che ci abbia provato ma che il re abbia temporeggiato a lungo prima di dire che non era ancora tempo per accasare suo figlio- disse ancora l’araldo, porgendo a Robert lo scudo con il blasone inventato. Un giglio dorato in campo blu.
I gigli dorati in campo blu e i tre leoni coronati in campo rosso erano le insegne di Re Riccardo, ma paragonarsi a un re era decisamente eccessivo. Tuttavia non aveva resistito alla tentazione di portare in giostra i colori della sua terra. Sebbene parlasse correttamente lo svedese e il danese per via della sua permanenza in terra straniera, Robert non aveva mai smesso di essere prima di tutto inglese.
- non gareggiare, Robert. Sento puzza di guai- gli disse ancora Sigge mettendogli una mano sul braccio prima che quello balzasse agilmente sul suo destriero.
- gareggerò, invece. Qualsiasi cosa tu dica, ci tengo più alla mia testa straniera che non alle strategie matrimoniali di un vecchio - gli rispose Robert con un sorriso, prima di infilarsi l’elmo e aggiustarsi lo scudo al braccio.
- spero almeno che sia graziosa- scherzò girando il cavallo per entrare nello stadio.
- è una folkung, è sicuramente più che graziosa!-
- beh… sarò un marito fortunato allora-
- sempre che ne usciate vincente e sulle vostre gambe, Sir!- gli gridò dietro Sigge, osservandolo entrare nello stadio assieme ad un altro cavaliere che partecipava alla gara.
Aveva proprio una bruttissima sensazione.
 
***
 
La notte non portò alcun consiglio alla giovane Catherine, e nemmeno il mattino. Nemmeno il momento in cui la serva Suom le fece calare il pesante velo blu davanti agli occhi, attraverso la cui trama distingueva a malapena i contorni della sua stanza ancora semibuia.
Nemmeno la Vergine Maria aveva risposto alle sue preghiere.
Era forse caduta vittima della superbia pensando che la Madre del Cristo avrebbe dovuto risponderle in qualche modo, facendole capire se aveva deciso di abbandonare al proprio cammino le sorti dei folkung che nell’ultimo secolo le avevano dato di certo molti pensieri?
Si, sicuramente doveva essere così. E immediatamente le si rivolse ancora, ma per chiederle perdono per il suo peccato e dire che qualunque sarebbe stata la Sua volontà, ella vi si sarebbe rimessa.
- Fru Catherine?- la chiamò Suom facendole segno di andare, ricordandole che non poteva più indugiare oltre nell’anticamera del suo destino.
In silenzio, con la morte nel cuore ma con il contegno di una degna signora di Arnas, Catherine raggiunse le scale che l’avrebbero condotta alla sala dei banchetti e poi fuori, dietro le scuderie, dove già da giorni era stato allestito un piccolo stadio per le giostre.
Passo dopo passo, cercò di consolarsi dicendo che non era la prima né l’ultima donna che avrebbe condiviso il talamo con uno sconosciuto di cui sarebbe diventata moglie. Che tutti quanti avrebbero voluto vivere come gli eroi e le eroine delle ballate di cui avevano ascoltato e poi sognato ad occhi aperti le avventure, ma che tutti, prima o poi, avrebbero dovuto rassegnarsi al fatto che la loro vita non avrebbe mai ispirato una canzone, che l’onore della famiglia e della corona erano le cose più importanti per cui vivere e per cui valesse ben la pena sacrificarsi.
- Fru Catherine- si inchinò Sigurd di Forsvik, il comandante del primo squadrone di cavalleria leggera folkung, che aveva avuto l’onore di essere addestrato da Arn Magnusson in persona, un templare della Terrasanta.
Vestito della sua pesante cotta di maglia e con i piedi calzati d’acciaio, Sigurd seguì il passo della sua signora, com’era d’uso. Doveva sempre esserci un seguito per la sposa, anche se in quella particolare occasione ella era a casa sua. Anzi, in quella particolare occasione, era il rappresentante in carica più anziano dei capitani dei vari reggimenti a dover accompagnare la dama sul palco d’onore.
Catherine, solitamente scocciata da tutte queste cerimonie e solennità, soprattutto per il fatto che costui fosse stato il suo insegnante per diversi anni a Forsvik, accolse bene l’uomo e si fece seguire senza proteste. Colta da un’ispirazione improvvisa, indotta per lo più dai passi pesanti del cavaliere alle sue spalle, iniziò a sorridere pensando tra sé e sé che forse non tutto era perduto.
 
***
 
La gente di Arnas non era molto avvezza al trambusto dei tornei, e in genere, dei duelli di qualsiasi tipo. C’era stato qualche torneo degli scapoli, i giochi che si svolgono in onore degli addii al celibato prima dei matrimoni, ma nulla di più. A memoria d’uomo, nessun torneo fu tanto emozionante quanto quello in onore del matrimonio di herr Arn e fru Cecilia. Gli scudi araldici degli Sverker usati come bersagli per la gara di tiro con l’arco erano ancora appesi nella sala dei banchetti, prove tangibili della bravura degli arcieri che vi avevano preso parte. Ogni scudo aveva impiantato al centro un mazzo di frecce lanciate da una distanza di ben cinquanta passi in modo tanto preciso da entrare tutte quante nel cerchio di una corona.
Ma a parte quel giorno di festa, la tenuta non vedeva spesso prove di forza e cavalleria, almeno non quante ne vedevano Nas, o Forsvik, o Ulvasa, o Lena...
Arnas era il centro nevralgico degli affari del regno, ove entravano e uscivano merci di ogni tipo, dove si producevano manufatti che venivano esportati fino in Danimarca e dove erano conservati forzieri talmente carichi che potevano fare quasi concorrenza alla tesoreria della più piccola guarnigione templare in Terrasanta, e considerando la ricchezza sconfinata dell’esercito del Signore, era davvero tutto dire. Arnas era il cervello della potenza secolare, Nas il cuore e Forsvik il pugno di ferro.
Purtroppo anche avere un ruolo così importante, che faceva sentire i suoi abitanti più che orgogliosi, dopo qualche tempo smetteva di essere interessante.
Robert pensò fosse quello che spingesse anche i servi, oltre alla gente libera, a lottare con le unghie e coi denti per guadagnarsi un posto buono per vedere l’arena.
I cavalieri erano già tutti pronti, con i cavalli che grattavano gli zoccoli sullo sterrato, tutti bardati delle gualdrappe coi colori del casato del proprio cavaliere.
C’era uno Sverker, il cui cavallo esibiva il rosso e il nero e lo scudo appeso alla sella mostrava un grifone nero con il becco spalancato. Ma Robert non riusciva a riconoscere l’armatura del cavaliere.
C’erano tre folkung, tutti con il leone rampante sui tre fiumi argentati. Gli sembrò di distinguere Edwar Sigurdsson, come aveva detto Sigge. E quello sul cavallo nero con la criniera argentea doveva essere suo fratello Eskil. Un po’ strano che fossero in gara. Erano cugini di secondo grado con la giovane Catherine, ma probabilmente tentavano di vincere la mano della cugina per qualcun altro.
Ad ogni modo, erano il suo problema più grande assieme ad un altro cavaliere ammantato di azzurro che non riconobbe, perché gli altri contendenti sembravano molto male in arnese. Alcuni di loro avevano addirittura bisogno che li si aiutasse a montare a cavallo per via del peso dell’armatura. A giudicare dai decori dorati e dalle piume dei loro elmi, dovevano essere nobili norvegesi.
- ci sono i figli di Sigurd. Te l’avevo detto- disse Sigge raggiungendo Robert con la lancia che avrebbe dovuto portare per la sfilata sotto il palco dei padroni di casa.
- sono i cugini di Birger jarl… Non riesco a capire perché gareggino- disse Robert afferrandola.
- posso sempre tentare di scoprirlo-
- fallo- ordinò Robert girando il cavallo per iniziare a seguire gli altri cavalieri in giro per lo spiazzo. - Così potrò capire quanto fanno sul serio-
- consideratelo fatto, Sir-
Ben tre cavalieri folkung in gara erano un bel problema, anche se si era aspettato di vederne molti di più.
A ben vedere, si era aspettato anche molti più cavalieri, ma mentre già giravano al passo attorno all’ellisse dell’arena, contò solamente altri tredici pretendenti escluso sé stesso. 
A un occhio esperto agli intrecci disegnati dalla lotta per il potere come quello di Ingrid Ylva, la madre di Birger jarl, che aveva fatto parte del regno delle vedove, quella situazione poteva realmente apparire fosca e presagio di sventura. E per quanto avesse sempre avuto fama di essere una donna saggia, toccata dalla benedizione di poter vedere il futuro, quella volta anche per lei le cortine del tempo restarono sigillate, lasciandola sola, seduta accanto a suo figlio Birger, con il suo brutto presentimento.
Solo Ingrid Ylva poteva realmente accorgersi che in una gara in cui i folkung erano solo tre c’era qualcosa che non quadrava. In realtà anche Sigge se ne accorse, ma la sua condizione di libero faceva sì che non potesse far niente per cambiare il corso delle cose.
Se entrambi lo avessero fatto, con il senno di poi, la storia sarebbe andata diversamente.
Ma la storia non si fa con i se e Robert non era che un cavaliere senza terra e anche senza titolo, più propenso a rallegrarsi della sua fortuna di avere solo tre avversari davvero forti su tredici che potessero ostacolare la sua vittoria. Fosse stato un uomo con più esperienza delle insidie del mondo secolare probabilmente avrebbe seguito il consiglio del suo araldo.
Fece il giro d’onore attorno al campo, sollevò la lancia davanti al palco del signore e sbirciò con la coda dell’occhio la promessa sposa, senza però riuscire realmente a vederla poiché portava un lungo velo che le celava il volto.
Quando si diresse al cancello ad attendere il suo turno di gara, Sigge lo stava già aspettando.
Sollevò svelto la celata dell’elmo e scrutò il suo araldo.
- scoperto qualcosa?-
- si… e non è nulla di buono, come temevo- gli rispose aspro quello, afferrando le redini di Chimal per poi legarle ad una staccionata.
- gareggiano per Forsvik. Faranno molto sul serio- continuò Sigge, controllando un ultima volta gli zoccoli del destriero, più per intrattenersi in un’attività che non per reale bisogno. - A quanto pare, herr Birger ed herr Sigurd hanno avuto qualche incomprensione negli ultimi anni. Vogliono prendersi la guarnigione. Della mano della cugina gli importa poco-
Per un attimo, la mente di Robert fu attraversata da un’idea ben poco onorevole, che anche il solo proporla gli sarebbe costata un duello. Accordarsi con i due cavalieri sulla vittoria per avere in premio la sposa e lasciare loro la tenuta sarebbe stato come sminuire le loro abilità di cavalieri, come ingannarli sulla sua bravura. Offendere il loro onore con una simile offerta non sarebbe stata una mossa saggia.
- com’è stato stabilito l’ordine di gara?- domandò con la gola secca, temendo già per il futuro dei suoi piani.
- sei dannatamente fortunato, Robert. L’estrazione degli scudi li ha messi praticamente l’uno contro l’altro già al secondo turno. E il terzo folkung è nella loro stessa sezione. Sei stato talmente fortunato che ti ritroverai solo con uno di loro in finale. Lo sverker dovresti incontrarlo in semifinale e tutti gli altri… non possono nemmeno dirsi cavalieri-
- visto, Sigge? La Beata Vergine e San Giorgio sono dalla mia parte!-
- io parlerei più di fortuna sfacciata che non di intercessioni. Credo che le tue vergini e i tuoi santi abbiano di meglio da fare, ovunque essi siano, che non proteggere un mascalzone come te- scherzò quello aspettando che Robert smontasse.
- si chiama fede, Sigge. Solo fede-
 
Le giostre sono un gioco di abilità cavalleresca molto più pericoloso di quanto a primo acchito si possa immaginare. Quelli che paiono solo uomini a cavallo con in braccio una stecca, in realtà sono delle pericolose macchine da sfondamento. Solo il peso di una cotta di maglia era di circa dieci chili, senza contare le armature complete che alcuni signori avevano iniziato a portare che arrivavano a pesare anche più del doppio. Il fatto che un cavaliere ci si muovesse agevolmente al suo interno era già indice di una grande forza fisica, anche senza tener presente il gravame di una lancia misura standard.
Un colpo inferto da un braccio poderoso come quello che sembravano presentare i cavalieri ammantati d’azzurro avrebbe provocato seri dolori anche all’avversario protetto dalla migliore armatura del mondo.
La grazia con cui eseguivano i movimenti, la facilità con cui governavano il proprio cavallo e l’ardimento che mostravano di fronte ad ogni avversario, fecero si che Robert, per la prima volta, temesse seriamente per la propria vita.
Era magnifico vedere con i suoi occhi la maestria di questi indomiti cavalieri di cui aveva letto a lungo, ed al contempo era spaventoso pensare di dover competere contro una simile bravura.
Come aveva previsto Sigge, arrivò all’ultimo turno di gara senza nemmeno stancarsi. I suoi avversari erano stati prede molto facili, impacciati nelle loro armature eleganti ma troppo pesanti e scomode da portare.
Non ebbe nemmeno il dubbio di potercela fare, vincendo tutte le volte con due soli assalti ognuno da tre punti e senza incassare nemmeno mezzo colpo.
Ma contro il folkung che sarebbe arrivato in finale non avrebbe avuto nemmeno una possibilità di vittoria. Il suo ego si sgonfiò come un palloncino bucato nel momento esatto in cui vide Edwar Sigurdsson abbassare la celata dell’elmo e prepararsi all’attacco di fronte al cavaliere di Bjalbo cui non sapeva dare un nome. L’araldo di Biger jarl lo chiamò Sir Magnus da Visby, ma nessuno sapeva chi fosse.
Fu una lotta alla pari, fatta di colpi che continuavano a scivolare sugli scudi in cui nessuno finiva sbalzato di sella, ma alla terza ed ultima tenzone, lo sconosciuto folkung si coprì di vergogna infrangendo una delle regole fondamentali dei guerrieri di Forsvik, dove sicuramente era stato addestrato. Non poté nascondere di aver mirato al volto e di essere arrivato ad un pollice dal centrarlo. Così ci si comportava in guerra, non in un torneo. Un colpo del genere poteva essere mortale anche con una lancia spuntata. Lì Robert iniziò seriamente a rimpiangere di non aver seguito il consiglio di Sigge.
Era stato oltremodo presuntuoso da parte sua anche solo accarezzare il sogno di poter vincere contro simili leggende viventi, consapevolezza che venne ad essere ancora più grande nel momento in cui anche il secondo Sigurdsson venne brutalmente cacciato fuori dai giochi con un colpo che non solo l’aveva sbalzato, ma era anche riuscito a fargli rotolare via l’elmo.
- per le balle di Odino!- fu l’unico commento di Sigge.
- non avrei saputo dirlo meglio - confermò Robert con la gola del tutto arida.
- ritirati, Robert. Sei ancora in tempo. Dimmi di sì e io vado subito a mettere il lenzuolo bianco sul tuo scudo araldico -
- non posso ritirarmi ora -
- ma hai visto cos’è capace di fare quel demone con il mantello blu! Ti farai ammazzare! La promessa di una sposa vale tanto quanto la tua testa?-
- la promessa di non dovermi più preoccupare della mia testa, non la sposa-
- non ti facevo così stupido, Robert. Non so se ti rendi conto del fatto che rischi di non avere nemmeno più una testa di cui preoccuparti!-
Sigge aveva indubbiamente ragione. Sotto tutti i punti di vista aveva ragione. Sotto tutti i punti tranne uno.
Robert si attardò a guardare da lontano il suo avversario, e mentre lo osservava smontare da cavallo, si accorse di un tremore più che appena accennato delle sue gambe. Registrò il modo in cui il folkung si aggrappò alla sella e si portò una mano al petto, aprendo e stringendo il pugno più e più volte.
- è stanco, Sigge. Si regge a mala pena in piedi, mentre io sono più che riposato - asserì recuperando i suoi guanti ferrati. - Respira male, e il colpo che gli ha sferrato Eskil Sigurdsson al secondo assalto l’ha debilitato parecchio -
- non vincerai comunque. Quello è un folkung!-
- ma nemmeno morirò. Sarà anche un folkung… ma è stanco-
- tu sei tutto suonato. Guardalo bene! È un reietto! Porta lo scudo sverniciato da addestramento, non ha un araldo e nemmeno uno scudiero. Nessuno sa chi sia e nessuno l’ha visto in volto. Sir Magnus da Visby è vapore per questa gente! Quello gareggia per Forsvik.! Salirà in groppa anche sputando sangue e combatterà contro Tor in persona pur di mettere piede come padrone in quella guarnigione!-
- senti Sigge, ma da che parte stai?-
- purtroppo solo da quella di un idiota!- sbottò l’araldo prima di slegare le redini di Chimal e passarle a Robert in un gesto di stizza.
Questo, senza dire più nemmeno una parola, balzò in sella e calzò le staffe. Sistemò gli schinieri e tese silenziosamente una mano per afferrare la lancia.
Il dubbio della debolezza sopraggiunta dell’avversario era un beneficio su cui bisognava giocare, senza contare che se si fosse ritirato Robert avrebbe perso la faccia con sé stesso.
Tante, troppe volte aveva condannato senza pietà il comportamento dei cavalieri pavidi nelle sue letture. Tante, troppe volte si era detto che lui non sarebbe mai stato quel genere di uomo.
I rumori gli arrivavano più chiari e più forti alle orecchie, amplificati dall’eco del suo elmo ormai completamente abbassato.
Il nitrito del cavallo, il suo sbuffo… il grattare degli zoccoli sulla terra battuta… la voce di qualcuno che li annunciava. L’ombra di un fazzoletto bianco che toccava terra… e poi partì.
La lizza che divideva i due campi degli avversari scorreva come una striscia indistinta agli occhi di entrambi i contendenti che già sollevavano la lancia e attendevano di sferrare il colpo.
Robert resse il primo assalto, sebbene il colpo che lo aveva toccato al petto gli avesse tolto il fiato.
La seconda volta fu sbalzato di sella come un guanto, centrato da un colpo sferrato con il piatto della lancia in maniera tanto imprevedibile che parte del successo del colpo fu proprio la sorpresa.
Non si fece troppo male e rimontò immediatamente in groppa a Chimal.
A quel punto ormai tutti gli altri cavalieri si erano uniti agli spettatori. Gli occhi di tutti erano dunque fissi su loro due e nessuno ignorava chi avrebbe vinto, sebbene tutti pregassero che Sir Robert Pattinson da Barnes non si facesse troppo male. Era già stato un eroe a restare in sella al primo assalto contro il folkung, meritava di uscire dalla lizza sulle sue gambe.
Ma la stanchezza di Sir Magnus era diventata evidente anche a chi non l’avesse notata in precedenza. Per poco non aveva fatto cadere a terra la terza ed ultima lancia prima di sistemarsela sotto il braccio e per un istante il suo stesso equilibrio sullo stallone nero che cavalcava vacillò.
All’ultimo assalto fecero entrambi centro e fu solo una questione di fortuna che fece restare in sella il folkung e sbalzare a terra Robert, e questa volta il suo volo sembrò più pericoloso perché atterrò sulla schiena.
Sigge corse subito al suo fianco, alzandogli delicatamente la testa e sfilandogli l’elmo, borbottando qualche parola che suonava come - razza di idiota incosciente!-
- è sempre bello vederti, Sigge- scherzò Robert con un sorriso e il fiato corto mentre cercava di rialzarsi.
- certo che è bello vedermi, stupido caprone bardato da cavaliere! Se mi vedi vuol dire che sei vivo anche se non ho idea del perché tu lo sia!- ribattè burbero l’araldo aiutando l’altro a sollevarsi da terra.
- dalle mie parti si direbbe che ho “culo”-
Sigge non fece in tempo a chiedere cosa Robert volesse dire perché lo squillo di tromba dell’araldo di Birger Magnusson, dall’alto del palchetto, lo interruppe chiamando il vincitore davanti alla pedana del signore.
Lo jarl non era esattamente un uomo possente, ma aveva qualcosa nel contegno, nella postura, che lo facevano apparire alquanto imponente. I suoi abiti di foggia straniera erano tinti dei colori della stirpe ed il camicione ricamato sulla cotta di maglia era l’unico vezzo che si era concesso. Il blu era straordinariamente profondo e il leone rampante dei folkung sembrava muoversi e quasi ruggire ad ogni suo minimo movimento.
Rigido e impostato si avvicinò alla ringhiera di legno del suo palco, tendendo una mano indietro alla figlia che lo stava seguendo.
Ancora piegato sulle ginocchia, con il respiro grosso e affaticato, Robert guardò la speranza del suo futuro passare nelle mani di un altro.
- cavaliere! Vincitore! Oggi hai dimostrato il tuo valore- tuonò la voce profonda dello jarl, accompagnando sua figlia accanto a lui. - Come cavaliere di Forsvik e compagno folkung ti dico che sei stato scorretto con i tuoi compagni e che non meriteresti il premio…-
Un brusio di assenso si levò alle spalle dello jarl, da uomini e donne che avevano colto i colpi bassi sferrati da Sir Magnus contro Sir Edwar e contro Sir Eskil pur di aggiudicarsi la vittoria.
Anche la testa ancora fulva dello jarl annuiva con cipiglio serioso, ma presto alzò una mano e il silenzio tornò sul palco dei signori.
- … Ma è anche vero che se un simile comportamento è concesso in guerra e non nei giochi, in questo caso non è la semplice corona d’oro di vincitore di un torneo di scapoli ad essere in palio, bensì la mia amatissima figlia con una dote degna di una regina-
La tensione che vibrava tutt’attorno allo stadio era palpabile. Ogni silenzio dello jarl corrispondeva ad una lunga ed estenuante agonia per gli spettatori. Chi si chiedeva se Birger Magnusson si sarebbe rimangiato la parola, visto il grado di folkung minore del vincitore; chi  se gli avrebbe passato per valida la vittoria; chi ancora se non ci sarebbe stato un duello in cui l’offesa all’onore dei due fratelli poteva essere riparato. Nessuno prendeva in considerazione Robert.
Lui invece era lì, chino sulle ginocchia flesse, a chiedersi se c’era anche solo una minima possibilità che la scorrettezza del suo avversario venisse pagata dando la vittoria al secondo classificato, o se lo jarl avesse intenzione di dare sua figlia a uno dei fratelli per riparare l’offesa subita in un torneo svoltosi tra le mura della sua casa.
Osservò a lungo la figura di Birger Magnusson fissare quella scura del cavaliere inginocchiato sotto il suo palco, le mani guantate di ferro aggrappate all’elsa della lunga spada.
Solo quest’ultimo sembrava tranquillo, come se fosse totalmente estraneo al mondo al di fuori della sua armatura. Nonostante la stretta celata dell’elmo del cavaliere, Robert riusciva a vedere i suoi occhi chiusi e apparentemente rilassati, come se non potesse avere nulla da temere. Come se già sapesse come sarebbero andate le cose di lì a poco e dovesse prestare la propria attenzione a qualche riflessione personale più importante.
- la tua vittoria, dunque, Sir Magnus, non è disonorevole. Non sei venuto fin qui dalla lontana Visby per tirare qualche colpo in un torneo senza scopo. Sei venuto per una moglie e per una terra, e sapere che sei disposto a lottare per esse mi da speranza di non dovermi mai pentire di questo torneo. Ora alzati, cavaliere, e liberati dell’elmo, cosicché io possa guardare in faccia il figlio che accolgo nella mia casa -
Il fatto che tutti, nonostante le parole dello jarl, pensassero che la vittoria fosse stata ugualmente disonorevole non disturbò il silenzio carico d’aspettativa che si diffuse sul pubblico.
Con calma, il cavaliere si alzò e con altrettanta calma rinfoderò la sua spada al fianco prima di muovere qualche passo tutt’altro che stentato in direzione del palco d’onore.
Quando finalmente sollevò una mano e l’avvicinò all’elmo, tutti quanti trattennero rumorosamente il fiato, rendendo il silenzio ancora più teso.
E la tensione fu condannata a durare ancora per molto tempo, perché quello che uscì da sotto l’elmo del cavaliere fu una folta e lunga chioma rossa.
- salute, padre - disse Sir Magnus da Visby. Niente di meno che Catherine Birgersdotter.






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Chiarimento storico: per capire bene la storia, occorre che siate a conoscenza degli schieramenti.
Casato folkung  (albero genealogico)
Casato erik (famiglia reale)  (albero genealogico)
Casato sverker (ex famiglia reale che tenta di riconquistare il trono. Esso era andato perduto e riconquistato in più occasioni. Tutto iniziò con l’assassinio di Erik il Santo, padre di Knut Eriksson a sua volta padre di Erik Knutsson che è il re in carica nella mia ff. Ucciso Erik il Santo, la corona passò a uno sverker che venne a sua volta ucciso da Knut Eriksson. Alla sua morte, una questione di strategia politica fece tornare la corona in casa Sverker con la promessa che sarebbe stata poi restituita a Erik Knutsson, legittimo erede del precedente monarca. Il tradimento da parte della promessa dello Sverker si concluse con l’ennesima lotta che vide quest’ultimo alleato ai danesi tornare in patria a riprendersi la corona che Erik Knutsson si era posato in capo senza legittimazione della Chiesa. La battaglia di Gestilren confermò re Erik Knutsson, non ponendo però del tutto fine alla guerra per la corona tra le due fazioni, poiché gli Sverker mantengono un erede al trono. In tutto ciò i folkung sono sempre alleati degli erik e acerrimi nemici degli sverker, sebbene per mantenere la pace essi non esitino a concludere matrimoni tra i loro figli e quelli della fazione nemica)
 
Birger Magnusson jarl. Di sua figlia Catherine non vi è traccia biografica tranne che nell’elenco dei suoi figli.
Erik Kuntsson. La storia reale lo vede morto nel 1216, ma la mia lo prevede ancora vivo e vegeto, prendendomi la prima libertà necessaria allo svolgimento della ff. Conosco la storia reale riportata nell’ultimo romanzo di Guillou, ma riproporla a voi tale e quale ingarbugliava troppo le fila del racconto.
 
Mi rendo conto che tutto ciò è un po’ insolito e complesso per una ff nel fandom attori, ma spero che con le dovute guide ai riferimenti storici possiate orientarvi senza difficoltà.
 
Per quanto riguarda le risposte alle recensioni, utilizzo la nuova applicazione messa a disposizione del sito. A proposito degli aggiornamenti... i tempi saranno lunghi dovuti allo studio, alla lunghezza dei capitoli e all'aggiornamento di altre storie.
   
 
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