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Autore: TokyoRose    01/12/2010    1 recensioni
Abigail Lehmann - Bell.
Il nome probabilmente non vi dirà nulla.
Ama il blu,la fotografia e la neve.
Ha un fratello "gemello" dal quale la separano quattro anni,dieci centimetri e troppi chilometri.
Vincendo una borsa di studio per un prestigioso collegio si trasferisce da un'anonima uxurbia canadese a Oxford dove,insieme a compagne di stanza non così perfette come appaiono,comincerà il suo sogno,ma anche il suo incubo.
Spero vi piaccia,è la prima storia che scrivo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come ogni notte mi trovavo distesa sul tetto del mio chalet: quella sera d'agosto,una delle ultime che avrei passato nel luogo che per anni avevo chiamato casa,sembrava perfetta.
Le stelle brillavano di una luce diversa,più vivida,ma anche un po' malinconica. Ma probabilmente era solo la mia immaginazione e il mio entusiasmo a darmi quell'impressione: la mattina dopo sarei partita per Oxford.

Avevo ricevuto la lettera che confermava la vincita della borsa di studio per la Collins,un prestigioso collegio inglese,mesi prima: stavo rientrando da una partita di lacrosse con le mie migliori amiche,Sydney e Megan. Ancora entusiaste per aver vinto la partita contro i RedShots ci eravamo riunite per aprire le lettere che avrebbero segnato il nostro futuro: tutt'e tre avevamo fatto domanda di trasferimento in collegi all'estero e aspettavamo la loro risposta.
Per Megan non era importante vincere la borsa di studio,era figlia unica e proveniva da una famiglia assai benestante,doveva solo passare la selezione per essere ammessa nel collegio danese che aveva scelto.
Sydney voleva scappare il più possibile dalla famiglia che la teneva "prigioniera"in una gabbia d'oro: voleva che le lasciassero compiere i propri errori,perciò si era iscritta a un collegio nell'altro emisfero,Melbourne.
Io invece,proveniente da una famiglia numerosa (ho due sorelle e due fratelli),avevo disperatamente bisogno di una borsa di studio per studiare a Oxford,dove pianificavo di diplomarmi e poi laurearmi in fotografia.

Ci sedemmo sull'enorme letto di Sydney e impilammo per ordine di importanza (avevamo infatti fatto domanda ad altri tre collegi ciascuna,per evitare di rimanere bloccate nella nostra anonima città natale). Prima di cominciare ci versammo tre shot di Blue Curaçao per farci coraggio: "Pronti? Via!" disse Meg con la sua solita voce squillante. Aprimmo le lettere,cominciando dalle riserve.
Avevo vinto due borse di studio (una per la Collins e l'altra per la Wilkinson) e Sydney era stata accettata solo al collegio di Melbourne,eravamo così su di giri da metterci ad urlare come oche e a saltellare per la stanza. Molto maturo per delle sedicenni,vero?
Sydney aveva la sua solita "FacciaDellaVittoria"™: un espressione che trasmetteva sicurezza,soddisfazione e compiacimento.
Se non la conoscessi da quando eravamo in fasce l'avrei probabilmente odiata. Con lei è così: o la odi o la ami.
Quando si tratta di Sydney è sempre così e d'altra parte non aveva torto a darsi un po' di arie: era capo del comitato studentesco,capitano della squadra di lacrosse (l'equivalente del capitano della squadra dei cheerleader nella nostra città)e "reginetta" del ballo della scuola. Il viso da angelo,gli occhi color indaco e la chioma bionda la rendevano uno dei più grandi clichè della universo,si distingueva dalle altre It-Girls solo perchè aveva effettivamente un cervello che non utilizzava per architettare ricatti o macchinazioni,bensì per diventare un avvocato.
Solo Meg aveva l'aria un po' sconsolata: tutto,dalle lintiggini sul viso ai capelli bruno-rossicci,trasmettevano delusione. Le soppracciglia erano aggrottate sui suoi profondissimi occhi verde giada e la bocca,piccola e carnosa,era imbronciata: tutto perchè era stata accettata al collegio di Stoccolma invece che a quello di Copenaghen. Ma non rimase abbattuta per molto: era una persona che prendeva le cose con filosofia.

Ero al settimo cielo per la mia partenza,nonostante qualcosa mi faceva presagire che si trattasse di un addio.
Feci una smorfia pensandoci,odiavo gli addii.

Nonostante la festa fosse in pieno svolgimento e le mie amiche avevano fatto un lavoro eccellente nel realizzarla,non me la sentivo di stare dentro,anche perchè l'unica persona che avrei davvero voluto lì,non c'era.

Sto parlando di Jason,mio fratello maggiore. Nonostante i quattro anni e i dieci centimentri che ci dividevano,ci eravamo sempre considerati come gemelli; in effetti la nostra somiglianza era impressionante: stesso colore dei capelli (una tonalità color cenere,che nei mesi estivi tende al biondo e in quelli invernali al color nocciola),stessi occhi (taglio leggermente a mandorla,colore cangiante tra il verde,il grigio e l'ambrato) e entrambi abbronzati (caratteristica atipica per dei canadesi e che i nostri fratelli non possiedono).
Ma non eravamo quasi identici solo nell'aspetto fisico,anche i nostri caratteri erano molto simili,ci accomunavano il desiderio di vedere il mondo,la lealtà,il senso del dovere e un'indole solare.

Ovviamente lui non poteva lasciare la marina militare per una stupida festa,anche se si trattava di quella della sua "gemella".
Non lo vedevo da ormai tre mesi e anche se sapevo che arruolarsi era l'unico modo in cui avrebbe potuto vedere il mondo e aiutare allo stesso tempo la sua famiglia,odiavo non poterlo più vedere tutti i giorni,correre insieme,prenderci in giro...
Mio padre era orgoglioso della sua partenza e malgrado anch'io cercassi con tutte le mie forze di esserlo,non ci riuscivo.

Sentì un frusciò dietro di me. "Jeremy!" esclamai,colta di sorpresa,rischiando di sbilanciarmi e cadere giù.
Per tutta risposta,il mio fratellino (più piccolo di me di soli due anni)si sedette di fianco a me,senza parlare,cercando di imitare il modo di fare di Jason,che riusciva a leggermi dentro con estrema chiarezza e,malgrado tutto l'impegno che ci mise,fallì miseramente: aveva spezzato le pareti che mi isolavano dal resto del mondo e facendo ripartire il tempo. Lo fissai,in attesa che dicesse qualcosa.
"Ti ho portato una cosa" mi disse porgendomi un pacchetto rettangolare avvolto in della carta velina nera. Aprì il regalo: si trattava di un bellissimo quanderno di pelle nera,fatto a mano e decorato con complessi ghirigori. Stranamente sentì fin da subito che quell'oggetto mi apparteneva,una sensazione che avevo provato solo con la mia vecchia polaroid (l'"aggeggio" col quale avevo passato quasi ogni minuto del mio tempo dall'età di sei anni: alle medie l'avevo malamente dipinto di un azzurro metallizzato e col tempo lo avevo decorato con coloratissimi adesivi dai motivi indiani,non avevo mai sentito la necessità di liberarmene,nemmeno quando al mio quindicesimo compleanno ricevetti una reflex della Canon nuova di zecca).
Non ero mai stata una grande fan della scrittura,ma ho sempre attribuito un grande valore ai ricordi,infatti avevo l'abitudine di segnare i fatti più significativi della mia vita (un numero a dir poco esiguo) su un vecchio quadernetto scolorito,nascosto nel retro della cornice di uno dei mille quadri appesi nella mia stanza.
Ma quel quaderno: era davvero impressionante,esercitava su di me una strana attrazione e mi incitava a fare del mio meglio per imprimere sulla carta i miei pensieri e i miei ricordi.
Abbracciai mio fratello e gli sussurrai un semplice grazie sapendo che,per una volta,avrebbe capito l'implicito significato di quelle parole,ovvero un "MiDispiaceDiEssereStataTroppoDuraConTe,TiVoglioBene&SperoDiRiuscireAFarmiPerdonareUnGiorno".

Dopodichè rientrai in casa e mi riunì ai festeggiamenti: ballando e cantando riuscì a togliermi dalla testa i ricordi che mi avevano tormentata fino a quel momento e a liberare il mio cuore dalla morsa di un presentimento assurdo e decisamente poco gradito e cioè quello che questa sarebbe stata l'ultima volta che avrei visto i miei amici e la mia famiglia.

Il mattino seguente era venuto il tempo di salutare per l'ultima volta la mia famiglia.
Stampandomi un sorriso in faccia,come facevo sempre quand'ero nervosa,
abbracciai mia madre,la cui carnagione pallida risaltava ancora più del solito.Chissà se era merito della luce o dei capelli neri che le incorniciavano il viso.
Poi venne il turno di mio padre,un uomo di mezz'età alto e abbronzato,
della mia unica sorella maggiore Amanda che,per la prima volta da molti mesi,vidi con gli occhi lucidi; di Jeremy e,infine,di Mellie che mi tese la piccola manina e mi diede un piccolo ciondolo a forma di sole. Sorridemmo entrambe e ci salutammo con un abbraccio.
"Ti porterà fortuna" mi disse,fissandomi con i suoi vivaci occhioni di un colore indefinito tra l'ambra e il nocciola.
Ma non era il momento di perdersi in chiacchere così rivolsi un'ultimo sorriso a tutti i presenti ed entrai nella jeep wrangler di Ian,il migliore amico del mio fratello preferito,rimasto nella nostra città a fare da mentore ai ragazzi più piccoli.
Avevo già caricato le valigie,così mi sedetti sul sedile del passeggero. Ian mi rivolse il suo solito sorriso fraterno e mise in moto.

Mi ritrovai sul sedile dietro,insieme alla sorellina di Ian,Bethany,e a suo cugino Tommy. Non riuscivo a sentire niente di quello che la giovane Beaulieu mi stava dicendo,ma potevo intuire che si stava lamentando per la sua pelle candida a confronto con la mia. Stavamo tornando dal mare e Tommy pel di carota non smetteva di tormentare i capelli neri della cugina. Osservavo lo spettacolo divertita,cantando a squarciagola con Ian. Poi notai degli occhi identici ai miei nello specchietto...Jason! Era proprio lì,al posto del conducente.
Stupita sorrisi e mi piegai per abbracciarlo,ma...

"Abby?" la calda voce di Ian mi riportò alla realtà: stavo di nuovo ricordando una delle estati passate con Jason. "Tutto bene?Mi sembri silenziosa oggi." mi chiese,e sapevo che la preoccupazione che sentivo nella sua voce era autentica. "Ma certo!" esclamai col tono più convincente che avessi mai simulato. Per non destargli sospetti,ma anche per farlo stare un po' zitto,l'unico rimedio era tirare fuori una macchina fotografica,così presi la mia vecchissima polaroid e gli scattai una foto: quel semplice gesto servì a rassicurare entrambi.
  
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