17 – Il patto coi lupi
Abbandonammo il
Kentucky e pensammo di spingerci verso l’estremo ovest; attraversammo gli stati
del Missouri, Iowa, South Dakota, passando per il Montana, per raggiungere lo
Stato di Washington, e magari sostare nella penisola di Olympia: sembrava
essere il posto perfetto per viverci. Era una regione degli Stati Uniti piovosa
e molto umida; la zona occidentale era ricoperta di conifere, e vaste aree
erano occupate dalla foresta pluviale temperata, l’ideale per tre vampiri che
non potevano esporsi alla luce del sole.
C’erano diverse cittadine che potevano fare al caso nostro; Seattle, Port Angeles, Tacoma, Bellevue, Lakewood, dovevamo solo decidere dove stabilirci. Avevo sentito parlare di un buon ospedale a Seattle, avrei potuto esercitare lì, senza nessun problema; le mie ottime referenze mi avrebbero aperto tutte le porte come era sempre stato in passato; nonostante apparissi come un dottore troppo giovane per vantare un’ esperienza invidiabile, la mia vasta preparazione, la sicurezza sfacciata che dimostravo di possedere, erano sempre riconosciute e altamente apprezzate, e nessuno si era mai sognato di metterle in discussione.
La mia naturale curiosità per la scienza medica era costantemente sollecitata da nuove scoperte, studi scientifici sempre all’avanguardia, che mi stimolavano a spingere oltre il mio limite. Dietro quell’impulso, di recente avevo approfondito lo studio della psicologia e della psicoanalisi, consultando i testi di Freud. Era stata una conseguenza naturale, avvicinarmi a un’ altra branca della medicina: la psichiatria.
Ero da sempre affascinato da quell’organo incredibile che è il cervello umano, da cui derivava anche il cervello dei vampiri, che per qualche ignota ragione, non conservava integra la memoria umana; fulcro e sede delle emozioni e di tutte le funzioni che governano la vita, ero sedotto dal mistero della mente e dei suoi meccanismi, ma il mio approccio era sempre stato solo teorico; avevo conseguito la specializzazione, ma non avevo ancora avuto occasione di fare pratica sul campo, ma volevo e speravo di ampliare la mia esperienza diretta.
Chissà, magari proprio in quelle nuove regioni.
Ce ne andammo da Ashland, lasciandoci dietro il risentimento e la gelosia di Charles, abbandonando alle nostre spalle quasi tutto; domande irrisolte, misteri, dubbi.
Solo paure indefinibili continuavano a far parte del mio bagaglio, un peso di cui non riuscivo a liberarmi e che ho portato con me per molto tempo. Ancora oggi, sento gravare sulle mie spalle la responsabilità delle mie scelte; ho dovuto imparare a conviverci.
Ho viaggiato a lungo, accompagnato dall’angoscia di fallire, di non essere all’altezza del compito che mi ero assunto, di essere indegno del mio ruolo di guida e mentore; temevo di perdere il controllo della situazione, di sbagliare senza poter rimediare. Se io avessi fatto un passo falso, se non fossi stato fermo nelle mie convinzioni e convincente nel trasmetterle, le conseguenze sarebbero state terribili.
Non sempre ho creduto che saggezza ed esperienza potessero bastare a confutare ogni dilemma, a risolvere problemi nuovi ogni volta. Le mie ansie erano sempre legate alla mia famiglia, a Esme e Edward, e poi agli altri miei figli, alle azioni che li vedevano coinvolti ed esposti.
Come quella lettera inopportuna che Esme aveva scritto al marito, rimasta a testimonianza di un nostro passaggio, una traccia, anche se minima, della nostra presenza nel mondo.
Durante il viaggio
per arrivare nel luogo stabilito, parlai con Esme di quello che aveva voluto
fare. Mi aveva chiesto di fidarmi di lei e io lo avevo fatto, ma il suo gesto
mi aveva reso inquieto, e senza che potessi evitarlo, continuavo a immaginare
le probabili conseguenze; ero sicuro che non fosse stata un’idea saggia.
Pensavo spesso a
quella lettera come ad un azzardo, un frammento pericoloso della nostra vita
nelle mani di un uomo che sembrava troppo determinato a scoprire la verità per
rinunciare. Mi aspettavo che ce lo saremmo trovato di nuovo sulla nostra strada
e manifestai questa mia preoccupazione anche a lei.
“Posso capire il tuo
bisogno di chiudere col passato, Esme, davvero… ma non sono convinto che
quell’uomo non smetterà di cercarti… temo che sentiremo ancora parlare di lui…”
le stavo dicendo mentre viaggiavamo su una strada che si apriva tra vallate di
pascoli erbosi, serpeggiando tra macchie di vegetazione e campi di mais
dell’Illinois; all’orizzonte, il cielo sfumava in striature chiaro scure e la
notte scivolava via, lasciando il posto a una nuova alba che sorgeva.
“Potresti avere
ragione; - rispose pensierosa - Charles tenterà di rintracciarmi, ma non importa…
Non mi interessa quello che farà… Dovevo farlo, Carlisle…”
“Spero tanto che non
si debba rivelare una mossa sconsiderata…” Sospirai senza poter nascondere la
palese apprensione, che mio figlio poteva sentire echeggiare rumorosa anche dai
miei pensieri.
“Sei troppo agitato,
Carlisle… Come credi che potrebbe rintracciarci? Non abbiamo lasciato detto
dove saremmo andati…” obbiettò Edward, convinto.
“Potrebbe fare delle
ricerche, chiedere informazioni; quando ti metti sulle tracce di qualcuno, ci
possono essere mille modi per trovarlo…” ipotizzai, pensando all’ investigatore
privato che Charles Evenson avrebbe potuto pagare per scovarci. Ma forse stavo
diventando paranoico.
“Investigatore
privato?” Una nota ilare oltre che dubbiosa suonò nella voce di mio figlio.
“Non credo che sarà
così facile per lui trovarci; in fondo, sta cercando qualcuno che non esiste
più… e non ho lasciato indizi… solo minacce velate.” Fu il commento
sorprendente, quasi noncurante di Esme.
“Cosa?!!” Quasi
gridai per lo sgomento. La guardai.
“Una minaccia
velata, per scoraggiarlo, o almeno per fargli capire che rischia di immettersi
su una china pericolosa.”
“Non riesco a
credere alle mie orecchie. Che cosa hai scritto in quella lettera? Non avrai…”
“Nulla che possa
ricondurlo a noi…” tagliò corto Esme.
Certe volte, Esme
riusciva davvero a sorprendermi con i suoi comportamenti.
Mi apparivano
azzardati, talvolta eccessivi, ma erano sempre il risultato di motivazioni
profonde, spesso legate alla tutela della sua nuova famiglia. In qualsiasi
frangente, si sentiva spinta a proteggere i suoi cari da interferenze esterne.
Evidentemente, Charles era diventato questo per lei. E non solo.
In verità, l’ex
marito era un canale rimasto aperto col suo passato fatto di tormenti, con cui
lei avrebbe fatto i conti ancora a lungo. Esme, che appariva così forte,
decisa, coraggiosa, un punto di riferimento per Edward, quasi un sostegno,
serena nell’accettazione faticosa della sua nuova esistenza, felice e appagata
dall’amore che ci univa, nascondeva bene quella sua fragilità, quel punto
debole che poteva metterla in crisi, una sofferenza da cui forse, non sarebbe
mai guarita del tutto. Esme portava pesanti cicatrici nascoste sul cuore; la
più vistosa fra tutte, era quel figlio morto, perso per l’eternità, perché
nulla, neppure la morte l’avrebbe più ricongiunta a lui. Di questo, era
consapevole e generava in lei autentico sgomento, per quanto quella distanza
tra madre e figlio fosse incolmabile.
“Mi manca Derek…” mi
confessò smarrita, un giorno. Avevamo raggiunto da poco la nostra nuova casa,
una villetta isolata. Non avevamo ancora preso pieno possesso dell’ambiente;
l’arredamento non era ancora completo, imballaggi e scatoloni erano ancora
sparsi in giro per le stanze quasi vuote, un’ immagine nel suo insieme, che
suggeriva perfettamente l’idea di ciò che eravamo davvero: esseri senza fissa
dimora, erranti per il mondo.
L’avevo sorpresa un
momento, mentre stava sistemando le sue cose in un armadio; tra gli oggetti
personali che aveva portato con sé, c’era un vestitino da neonato. Lo aveva
avvicinato al viso e lo annusava in modo avido, quasi volesse catturare
l’odore, imprigionarlo con l’olfatto.
“Che buon profumo…”
sospirò.
Sembrava persa in un
sogno, lo sguardo fisso davanti a sè, incantata e assente come se la sua mente
fosse lontana chilometri da lì e avesse ripercorso un viaggio a ritroso nel
tempo e nello spazio. Ero davanti a lei e non mi vedeva, mentre i suoi occhi
guardavano oltre il mio corpo come fossi trasparente, e stringeva tra le mani il
piccolo indumento. Era in momenti come quello, che tornava a galla prepotente
la sua umanità. Era la madre che non sarebbe più stata, quella che non avevo
potuto salvare.
L’avevo stretta
contro di me, accarezzandola, lasciando scivolare le mie mani sulla sua schiena
per tentare di darle sollievo.
“Vorrei potertelo
rendere Esme, davvero…” Sospirai con un profondo tono malinconico.
Lei aveva affondato
la guancia contro il mio petto, poi aveva alzato i suoi occhi a incontrare i
miei e aveva parlato in un sussurro che orecchio umano non avrebbe udito.
“Temevo che avrei
dimenticato il suo volto, come qualcosa che va perdendosi nella nebbia più
fitta… invece è l’unica cosa che è rimasta impressa nella mia mente come un
solco profondo… anche il dolore rammento. È qui dentro… - si indicò il petto
con la mano - …non aumenta e non diminuisce. È fermo, inchiodato sul cuore,
imprigionato in un’ anima di cemento… Dimenticherò tutto, Carlisle, ogni
immagine e ricordo della mia vita da umana… ma non questo… mi resterà per
sempre addosso, impastato con la mia stessa carne, lo so…”
Ero certo che fosse
l’assoluta verità; a distanza di tempo, capivo davvero il motivo di quella
reazione rabbiosa che aveva avuto di fronte ai pensieri accusatori del marito.
Non potei non provare
pena per lei e mi rendeva vagamente triste il fatto di non poter alleviare in
alcun modo quella sofferenza. Forse, niente l’avrebbe mai mitigata e a questo,
con tristezza dovevo rassegnarmi. In nessun caso è mai stato facile per me,
accettare la mia impotenza, con Esme questo limite era una dura prova, ancora
più difficile. Per questo, cercavo di compensarla con tutta la dolcezza, con
tutto l’amore che potevo riversare su di lei, magra alternativa a qualcosa che
non avrei mai potuto darle davvero.
Esme era ancora tra le mie braccia; quando parlò di nuovo, rivelò la
sfumatura di un malessere che mi era appartenuto per tanto tempo.
“Mi sento strana,
Carlisle; è come se non appartenessi a questo luogo, a questa nuova casa. Tutto
ha un odore così nuovo…diverso; il legno, i mobili, la carta da parati. Ad
Ashland, ogni cosa era più famigliare…”
“Lo so, Esme…” C’era
rassegnazione nella mia voce, mentre Esme si liberava dal mio abbraccio e si
sedeva sul bordo del letto; tra le mani tratteneva ancora la tutina da neonato.
In un angolo della stanza, c’era una valigia lasciata aperta, da cui uscivano
tra le altre cose, un album di vecchie fotografie, e un paio di guanti che le
avevo regalato quando era ancora umana.
“Mi chiedo se
smetterò mai di sentirmi così…” disse, senza staccare lo sguardo dal piccolo
indumento infantile che tratteneva tra le mani. Non compresi il senso esatto di
quella frase, a cosa si riferisse in realtà. Mi sedetti accanto a lei, un
braccio a cingere le sue spalle.
“Mi dispiace... per
tutto. Tante volte ho avvertito il tuo stesso disagio. Ti capiterà ancora; in
pratica, ogni volta che ricominceremo in un’altra città. Vorrei tanto che ti
sentissi a casa. Io ti amo, Esme, così tanto che non avrei mai creduto
possibile, e vorrei solo poter vivere serenamente la nostra vita, per quanto
assurda. Abbi fiducia. Troveremo un modo, insieme.”
Mi guardò con
dolcezza.
“Carlisle, io ho
fiducia, e mi sentirò a casa ovunque tu sarai, ovunque deciderai di andare… di
questo sono certa… Devo solo abituarmi al cambiamento.”
Era difficoltoso
affondare radici in un terreno nuovo. Lo sapevo bene.
La nostra vita
sarebbe continuata, in qualche modo; con le nostre cicatrici marchiate a fuoco
sulle pareti del cuore, con le mie ansie fatte di aspettative e timori, col disgusto
di Edward per se stesso, conseguenza della sua sete di sangue che restava
insoddisfatta. Per le creature maledette che siamo, la vita è una sola lunga
stagione, un inverno rigido che assidera il cuore, congelato in un istante che
diventa perenne. Non ci sono primavere che sciolgono il gelo, né estati che
esplodono di vita che risorge, anche se posso considerare Esme la mia goccia
d’estate in mezzo all’inverno, e i miei figli sono briciole di primavera
seminate sul ghiaccio.
Era la fine del
1922, quando ci stabilimmo nella città di Tacoma.
Io avevo ripreso a
lavorare; esercitavo come medico chirurgo nel piccolo ospedale della città.
Edward si era
iscritto in un’altra scuola. Nuovi compagni accanto a vecchie reazioni e
identici pensieri; mio figlio manteneva la sua tendenza all’isolamento forzato,
tenendo gli altri ragazzi a distanza e senza concedere confidenza a chi lo
osservava con curiosità e sgomento, al punto da apparire scostante e
pretenzioso, comportamento sconcertante che non smetteva mai di preoccupare me
e sua madre.
Nessuna novità
apparente nella nostra vita che scorreva accanto a quella dei mortali,
ineluttabile e senza variazioni. Il ritmo dell’esistenza riprendeva in un altro
luogo, in una città più lontana, quasi non si fosse mai fermato, ogni volta
sempre uguale, scandito nello stesso modo e dalle stesse cose; lavoro, scuola,
caccia.
Vita che fosse, per
quanto possibile, la più normale.
Ma la normalità per
noi è sempre e solo falsa apparenza, una maschera da indossare con
disinvoltura, in ogni frangente e imprevisto. La mia si era adattata
perfettamente al mio volto attraverso i secoli, come una seconda pelle. Non era
così per Edward ed Esme, troppo giovani per saper stare in equilibrio con se
stessi; la profonda solitudine unita all’atteggiamento di chiusura di uno, era
motivo d’inquietudine per l’altra. E anche la maschera, troppo oltre l’umano
per non inquietare, poteva far paura, creare disagio a chi ci incontrava. La maschera
ci proteggeva, ma non tutti si lasciavano ingannare da essa.
L’imprevisto poteva assumere
qualsiasi forma, anche la più incredibile e bizzarra, fino a diventare quasi
altrettanto mostruosa.
Vivevamo a Tacoma,
una città portuale, ma per cacciare ci spingevamo anche nei territori interni,
a volte all’estremo confine col Canada, dove la fauna era molto ricca di
animali selvatici, anche di grosse dimensioni come orsi e puma.
Oppure potevamo
restare dentro i confini della penisola di Olimpia, zona che comprendeva anche
la riserva indiana di La Push, territorio dove vivevano da secoli gli indiani
Quilleutes. La riserva si estendeva dall’entroterra e arrivava fino alla costa,
lambita dalle acque del Pacifico.
Fu durante una
caccia che sconfinammo nelle terre della riserva, senza immaginare cosa questo
avrebbe rappresentato per noi da quel momento in poi.
Quel giorno avevamo
cacciato in gruppo, senza separarci.
Correvamo con
naturalezza, senza far rumore dentro il silenzio ovattato della vasta foresta,
verde e umida di muschio che attecchiva sui tronchi degli alberi imponenti; le
chiome nascondevano alla vista il cielo slavato, gonfio di pioggia che sarebbe
caduta a breve.
Volavamo a gran
velocità sulle foglie morte che marcivano e facevano da tappeto al suolo bruno
e scuro, quando non era punteggiato da ciuffi d’erba verde e delicata.
Tra noi, Edward era
sempre il più veloce, il più rapido a cogliere differenze, tracce e odori
insoliti, a captare per primo segnali d’allarme, e naturalmente pensieri di
presenze umane a distanza. Avevamo già ucciso un paio di animali e ne avremmo
uccisi ancora, se non fossimo stati interrotti in maniera brusca da qualcosa di
assolutamente imprevisto e inimmaginabile.
Oltre a noi, c’erano
altre presenze nella foresta.
Arrivò prima l’odore
sconosciuto a ferire i nostri sensi, un fetore che generò in noi vero disgusto
e una sorta di malessere, senza poter comprendere a quale oscuro essere vivente
appartenesse una puzza simile. Odore di selvatico, ancestrale e selvaggio.
Qualcosa di animalesco, ma oltre l’animale.
Se già quello fu
sorprendente, lo furono molto di più le parole rivelatrici di mio figlio.
“Stanno arrivando
Carlisle; prepariamoci allo scontro…puntano dritti su di noi…” sibilò nervoso.
“Che genere di
creature sono?” domandai altrettanto preoccupato. Ero all’erta, pronto alla
lotta, deciso a difendere la mia famiglia.
Non sapevo cosa
aspettarmi, né contro cosa avremmo dovuto combattere. Col mio corpo feci da
scudo a Esme.
“Non sono del tutto
animali, pensano come uomini… Sono pericolosi per noi; sanno cosa siamo…”
Le sue parole oltre
che inquietanti, erano del tutto oscure. Chi o cosa, poteva sapere della nostra
esistenza?
- Sono vampiri e sono sulla nostra terra.
- Non possiamo
permettere che si avvicinino alla città…
- Sono almeno tre,
Ephraim… ma noi siamo in vantaggio…
“Sono più di noi…”
Precisò.
Edward aveva sentito
i pensieri provenire da un gruppo di creature che comunicavano fra loro. Il
folto della foresta nascondeva il branco che ci stava inseguendo;
fiutavano il nostro odore di vampiro e seguivano la traccia che lasciavamo
dietro di noi.
Quale creatura
incredibile poteva dare la caccia ai vampiri? Chi poteva sfidarci?
Nonostante la mia
esperienza, io non ne conoscevo alcuna. Miti e leggende non mi venivano in
aiuto e poi avevo smesso di crederci da tempo; troppo fantasiosi e lontani
dalla realtà che si era rivelata sempre più terrificante. Anche Esme era
perplessa. Forse spaventata, ma non per sé.
“Cosa sono, Edward?”
“Qualcosa di non
umano…”
“Possiamo
affrontarli?”
“Forse…” rispondeva
mio figlio, i muscoli tesi all’estremo.
“Stai calmo, Edward… Cerchiamo di non attaccare per primi, meglio valutare bene le loro intenzioni…” aggiunsi velocemente rivolgendomi a entrambi, mentre Edward si metteva in posizione di difesa, mostrando i denti e ringhiando verso la boscaglia che pareva animarsi di vita propria. Sia io che Esme lo imitammo, pronti ad affrontare i nostri presunti e ostili nemici. Velocemente venivano nella nostra direzione; sentivo la terra tremare per la vibrazione che trasmettevano al suolo con i loro movimenti.
Poi avvertii la
minaccia di latrati furiosi. Un suono cupo che sembrava far vibrare la
vegetazione attorno.
E mentre aspettavo
di affrontare i miei nemici, mi chiedevo se non fossimo giunti tutti alla fine
del nostro viaggio; a breve, forse avrei scoperto il destino ultimo della mia
razza antica, e se l’inferno avrebbe divorato per sempre il mio corpo di
demone. Credevo di non potermi sorprendere di nulla, credevo che fossimo le
uniche creature partorite dalla leggenda, unici mostri generati da una natura
soprannaturale misteriosa e oscura. Mi ero sempre sbagliato in maniera
clamorosa e quel giorno, realizzai quanto mistero ci fosse ancora nel mondo,
quante zone d’ombra potessero occultare verità bestiali, ignorate dagli uomini
comuni.
Improvvisi, emersero
dalla boscaglia scura che li nascondeva e ce li trovammo davanti; pochi metri
ci dividevano da quattro bestie enormi, grandi come orsi, che degli orsi non
avevano nulla, salvo il pelo scuro, quasi nero di uno di loro. Ringhiavano
minacciosi, scoprendo denti lunghi e affilati come rasoi che avrebbero potuto
tranciare di netto il braccio di un vampiro. Erano i nostri nemici naturali che
non avevo mai conosciuto, né mai incontrato.
Erano lupi e non lo
erano.
Erano uomini e non
lo erano.
Forse erano mostri.
Uomini, lupi o
mostri che fossero, erano senza paura.
Di sicuro, erano
licantropi.
Di sicuro, potevano
distruggerci.
Guardinghi,
iniziarono a girarci attorno pronti ad assalirci. Pareva ci studiassero mentre
si muovevano con cautela, e le loro zampe possenti lasciavano pesanti impronte
nella terra umida. Averli così vicini era nauseante per l’odore bestiale che ci
investiva e quasi ci faceva vacillare. Ci avrebbero attaccato sicuramente e
forse avrebbero avuto la meglio su di noi perché erano più numerosi; nonostante
la mole parevano essere molto agili e veloci. Erano lupi in tutto. Erano
sorprendenti.
Erano qualcosa di
oscuro e mostruoso quanto i vampiri stessi.
Ma nella loro
esistenza c’era un significato più nobile e alto.
Lo spirito del lupo
non è forse dotato di coraggio e forza indomita?
Quella forza fatta
di bene, che serve ad affrontare il nemico più crudele e perverso generato
dall’universo soprannaturale?
Quel coraggio
assoluto che ci vuole ad affrontare un vampiro?
Non avevo mai
trovato motivi plausibili all’esistenza dei vampiri, ma trovare in natura,
qualcosa che poteva contrastarci dava un altro senso a tutto quanto. I
licantropi erano una diretta conseguenza dei vampiri, una soluzione da opporre
al male che siamo. Forse perché a dei mostri, si possono solo opporre altri
mostri altrettanto potenti.
Sfuggire i loro
morsi mortali non sarebbe stata un’impresa facile; il pensiero che una di
quelle bestie avrebbe potuto distruggere Esme, Edward, o anche me stesso, mi
impressionava con una sensazione di stranissimo stupore, che quasi annullava la
mia capacità di ragionamento.
L’eternità stava per
finire in quell’istante, ma i secoli lasciati alle spalle non mi sembrarono più
tanto lunghi, e tutto sembrò accorciarsi all’improvviso.
Non era paura quella
che provavo; era più simile a una specie di sgomento che si avverte davanti a
un evento inatteso che ci coglie impreparati. Non temevo la morte, perché
l’avevo desiderata troppo a lungo; mi aveva sedotto molte volte come qualcosa
che si anela e non si può avere.
Speravo per assurdo,
di poter evitare lo scontro, eppure capivo che era illusorio credere di
risolvere il problema senza spargimento di sangue e saremmo anche potuti
soccombere. Come sarebbe stato morire per davvero? Finire l’esistenza nel
nulla? Smettere di lottare contro se stessi?
Abbandonai in fretta
i miei pensieri poco coerenti e tornai lucido.
L’unico vantaggio fu
poter anticipare le loro mosse, grazie alla capacità di Edward di sentire le
loro menti; per fortuna un’ anima umana dimorava ancora in loro.
“Il loro scopo è
difendere la loro terra e la loro gente; credono di trovarsi davanti a vampiri
predatori di uomini.” Spiegò mio figlio.
Pensai
immediatamente che se si fossero convinti del contrario, nessuno si sarebbe fatto
del male. Ma ci avrebbero creduto? Avrebbero almeno provato ad ascoltarci?
“Ma noi non siamo
vampiri predatori di uomini…” Dissi, guardando direttamente negli occhi
l’enorme, minaccioso lupo nero che mi stava davanti, sollevando la bocca a
rivelare canini aguzzi quanto i nostri.
Come se avesse
compreso perfettamente le mie parole, si mise a ringhiare ancora più forte,
appiattendo le orecchie indietro sulla grossa testa.
Anche senza
leggergli il pensiero, era chiaro che non mi credeva, sospetto che venne
prontamente confermato da mio figlio.
Eravamo tutti tesi,
concentrati nello sforzo di non farci distrarre dall’odore quasi
insopportabile, e attenti a parare un loro possibile attacco che poteva partire
in un momento qualsiasi contro chiunque di noi. Decisamente non sembravano
pacifici, anzi, avevano un’aria piuttosto bellicosa; non parevano disposti a
lasciarci andare per la nostra strada.
“Dovete crederci,
non siamo predatori di uomini. Siamo diversi dagli altri della nostra specie;
noi cacciamo solo gli animali. Non vogliamo fare del male a nessuno.” Ribadii
con più enfasi, cercando per quanto potevo di mantenermi calmo, mentre mi
frapponevo tra Esme e il grosso lupo nero che ci controllava.
“Vogliono delle
prove, altrimenti non ci crederanno.” Sibilò veloce Edward, mentre si muoveva
con cautela per allontanarsi dal lupo grigio che lo puntava.
Manteneva la sua
posizione, pronto allo scatto, terrificante e minaccioso quanto e più del lupo,
ma stava perdendo la pazienza; non sapevo per quanto ancora si sarebbe
controllato. La sua impulsività poteva essere un problema. Volevo assolutamente
evitare lo scontro; se c’era anche una sola debole possibilità l’avrei trovata.
Tentai di nuovo di convincere il lupo nero; mi sembrava il capo branco.
“Prova a guardare
nei miei occhi e vedrai che hanno il colore della verità, che non è quello del
sangue… non potrei ingannarvi su questo…”
Allora, gli occhi di
ghiaccio del capo branco puntarono dritti nei miei; ci fissammo ostinati. Solo
la sfida era concentrata nei nostri
sguardi così diversi, riflessi di anime altrettanto diverse. O forse, io per
lui, altro non ero che un guscio vuoto. Lentamente, mi parve che il dubbio
finalmente, gli attraversasse lo sguardo. Sembrò iniziare a rilassarsi, ma si
manteneva guardingo, rigido nella postura del corpo massiccio. Passarono alcuni
secondi interminabili in cui non accadde nulla.
L’espressione del
lupo si manteneva severa; non era più minacciosa, ma continuava a studiarmi con
molta attenzione. Poi, i suoi compagni emisero strani brontolii allarmati al
suo indirizzo; stava accadendo qualcosa all’interno del branco. Tra loro si
agitavano pensieri che non potevo captare. Fu Edward a alluminarmi sulla
conversazione che stava avvenendo e soprattutto, sulle intenzioni del loro capo.
“Vuole parlare con
te; sta per accadere qualcosa…”
Solo a quel punto
accadde ciò che non avrei mai creduto di poter vedere; stupefatto, osservai il
lupo nero iniziare a tremare violentemente come se fosse scosso da strane
convulsioni, e nell’arco di pochi secondi il suo massiccio corpo nero cambiò
nella forma di un uomo; un indiano dal corpo robusto e possente, occhi e pelle
scura tipica di quella gente si parò totalmente nudo davanti a me. Attorno a
lui, gli altri erano rimasti nella forma del lupo, forse per proteggere il loro
compagno e non trovarsi completamente esposti alla mercé di tre probabili
pericolosi vampiri.
Assistere a quella
scena fu così sorprendente che mi trovai del tutto impreparato nelle reazioni.
Dovevo avere un’
espressione oltre che stupita, anche parecchio stupida.
Licantropi, muta
forma. Cos’erano mai quelle creature?
Esistevano da che
esistevano i vampiri? Avrei voluto saperne di più, ma c’erano altre priorità
prima della mia naturale curiosità. Finalmente l’uomo davanti a me parlò.
“Il mio nome è
Ephraim Black; sono il capo della tribù dei Quilleutes. Questa che avete invaso
è la nostra terra. I vampiri sono da sempre i nostri nemici giurati… voi non
potete stare qui…”
“Io sono Carlisle Cullen, loro sono mia moglie, Esme, e mio figlio, Edward. Non volevamo invadere le vostre terre, ma per inseguire le nostre prede ci siamo spinti troppo oltre. Non intendiamo fare del male a nessuno. Veniamo dalla città di Tacoma, dove al momento risediamo stabilmente, io esercito lì come medico…”
Le mie ultime parole
lo sorpresero, ma non come avrei voluto.
“Tu saresti un
medico? Non prendermi in giro, vampiro…” Il tono era severo, mentre
pronunciava con evidente disprezzo la parola vampiro.
“È la verità. Se
vuoi delle conferme, puoi chiedere all’ospedale di Tacoma…” dissi risoluto.
L’indiano restò a
guardarmi fisso ancora per qualche minuto con un sopracciglio alzato; stava
valutando se ciò che avevo appena detto, potesse essere vero. Era una novità
anche per lui, trovarsi di fronte un vampiro tanto insolito. Alla fine, non ero
sicuro di averlo del tutto convinto, ma tenne per sé i suoi pensieri.
“È la prima volta
che incontro vampiri così strani; vedo dal colore dei tuoi occhi che hai detto
la verità… almeno, per quanto riguarda la vostra dieta. Però non potete passare
sulle nostre terre. Siete comunque una minaccia e potreste attirare altri che
non sono come voi. Dovete andarvene; per oggi lo scontro è stato evitato, ma
non sarà sempre così…”
“Capisco. Non
vogliamo creare problemi alla tua gente. Ma vorrei proporti un patto, Ephraim…”
dissi calmo.
Attesi la sua
reazione; l’espressione accigliata del suo viso rivelava il sospetto e forse,
incredulità.
“Un patto col
diavolo? Non sia mai!”
Non era del tutto
disposto a fidarsi di un vampiro, anche se vegetariano, ma volevo
provare a dimostrargli che si sbagliava.
“Prima di dire di
no, vorrei che mi ascoltassi…”
Non fece altri
commenti e attese che parlassi.
“Non invaderemo più
le vostre terre per cacciare. È una promessa, e mi impegno fin da ora a mantenerla.
Ci limiteremo a transitare vicino al confine durante gli spostamenti, magari a
sostare nei territori vicini. In cambio, vi chiediamo di non rivelare a nessuno
della nostra esistenza; noi viviamo in mezzo agli uomini, cerchiamo di sembrare
normali esseri umani, ma per il bene comune, loro non devono sapere della
nostra esistenza.”
Sembrò soppesare la
mia proposta. Speravo che fosse accettata senza troppe questioni; in fondo, non
chiedevo altro che una tregua che in qualche modo, ci permettesse di convivere
pacificamente.
“Come soluzione mi
sembra possibile. È una richiesta che possiamo accettare. Sia chiaro che se
tenterete di entrare a La Push, ci sentiremo autorizzati ad attaccarvi, e se
uno qualsiasi di voi dovesse mordere un umano, la tregua sarà considerata
infranta…”
“Non accadrà nulla
di simile da parte nostra. Ma non saremo responsabili di altri vampiri che
potrebbero passare da queste parti.”
“A quelli penseremo
noi.” confermò deciso.
Così fu stabilito il
patto segreto tra i vampiri della famiglia Cullen e i licantropi, e tutte le
parti, si impegnarono a rispettarlo; si sarebbe mantenuto nel tempo e negli
anni a venire. Saremmo passati ancora nella penisola olimpica, e sarebbe
diventata una delle nostre tappe fondamentali per il futuro.
Lasciammo la foresta
sotto l’occhio attento dei lupi che ci scortarono fino al confine della
riserva, che da quel momento, per noi divenne limite invalicabile.
Mentre ci
allontanavamo dalla zona, Edward mi rivelò le perplessità di Ephraim, dubbi che
l’indiano non aveva voluto manifestare apertamente.
“Non è sicuro di
aver fatto una cosa giusta accettando questo patto. E poi non era convinto che
tu fossi davvero un medico…”
“Beh, dovrà
convincersi che si sbaglia, perché noi, questo patto lo rispetteremo ad ogni
costo; non entreremo più in queste terre, per nessuna ragione al mondo. Per
tutto il resto, si arrenderà all’evidenza dei fatti.”
“Devo ammettere che
non mi piacciono questi cani puzzolenti. E non solo per il loro odore…”
Commentò Edward con
sarcastico disgusto. Era ancora nervoso. Capivo da cosa derivava il suo
fastidio; il confronto con i licantropi non lo faceva sentire meno mostro.
“Non devono
piacerci, Edward. Neppure noi piacciamo a loro e forse non hanno neppure tutti
i torti. Dobbiamo solo evitare di scontrarci in futuro…”
Anche a me, è capitato di pensare che la loro esistenza
sia più giusta e giustificabile della nostra.
I territori vicini
erano molto vasti e non sarebbe stato un problema, limitare il nostro raggio
d’azione, magari ci saremmo potuti spingere fino alle montagne che formavano la
catena delle Cascade, e spostare la caccia in quei territori.
In definitiva,
restammo a Tacoma qualche anno, ma l’ospedale dove esercitavo non mi offriva
grandi possibilità di crescita, né di approfondire sul campo il mio interesse
per la psichiatria, anche perché la struttura non era dotata di un reparto
attrezzato. Il direttore dell’ospedale, sapeva della mia specializzazione e
conosceva la mia volontà di applicarmi seriamente a quella branca della medicina.
Fu proprio lui a
parlarmi di un posto che si era reso vacante presso l’ospedale psichiatrico di
un altro stato. Aveva ricevuto qualche mese prima, una lettera dal direttore
del manicomio, suo amico e compagno di studi all’università, dove il collega gli
diceva che stava cercando un medico specializzato da inserire nell’organico
della struttura, una casa di cura gestita da privati.
“Dottor Cullen,
volevo parlarle da un po’ di questo posto. Il direttore del manicomio è un mio
carissimo amico, una persona di grande esperienza e altamente qualificata. Il
dottore che c’era prima è andato in pensione, ma nessuno ancora ha fatto
richiesta per prendere il suo posto. Io ho pensato immediatamente a lei; ha
tutte le qualità che servono per un incarico simile, è competente e preparato,
e credo che sarebbe un’ottima occasione per applicare le sue conoscenze e fare
pratica con la psichiatria. La paga potrebbe non essere altissima, ma penso che
questo sia l’ultimo dei suoi problemi. Non è qui con noi da molto, e forse non
trova entusiasmante l’idea di ripartire per ricominciare a lavorare in un altro
stato, ma deve pensare che in questa cittadina sperduta non si presenteranno
molte occasioni di migliorare la sua carriera. Le chiederei di rifletterci
sopra, prima di rifiutare.”
“La ringrazio per la
fiducia. Potrebbe interessarmi davvero, la sua proposta. La valuterò.”
Eravamo nel suo
ufficio privato; lo avevo ascoltato con la massima attenzione e alla fine del
suo lungo discorso, avevo risposto subito con un certo entusiasmo.
Si trattava
certamente di una buona occasione che forse, non si sarebbe ripresentata tanto
presto.
Ci pensai su qualche
giorno.
Ero un po’ restio
solo per il fatto di dover costringere la mia compagna e mio figlio ad un altro
trasloco, ma in realtà, era solo una pura questione di tempo.
Prima o poi, saremmo
dovuti ripartire comunque. Tanto valeva farlo per uno scopo.
Ne parlai con Esme e
poi con Edward, ma loro non mi opposero particolari obiezioni.
Esme mi avrebbe
seguito tranquillamente, mentre Edward non avrebbe avuto alcun motivo per voler
restare ancora a Tacoma. Non riusciva, o forse non voleva mai legarsi ad un
posto più di un altro. Anzi, a volte sospettavo che ogni nuova partenza, per
lui, fosse l’unica distrazione un minimo eccitante che lasciasse entrare nella
sua esistenza.
“Un posto vale
l’altro; possiamo andarcene quando vuoi.”
Rispondeva alzando
le spalle, e devo ammettere che quelle sue reazioni mi preoccupavano sempre un
po’.
Avevo il sospetto che
non fossero sempre sincere, perché ostentava un’ eccessiva indifferenza. Dopo
aver scoperto la storia sorprendente e amara di Emy, avevo capito che la
freddezza di Edward era solo apparente; chissà che razza di sentimenti si
agitavano in lui, chissà che pensieri. Chissà che sforzi doveva fare per
nascondere i suoi impulsi, per non farsi trascinare dalle sue emozioni
violente.
Non avrei voluto che
le mie decisioni fossero prese come imposizioni, pur sapendo che in parte lo
erano.
Dopo qualche anno
diventavano obblighi necessari.
Così, solo dopo
molte discussioni, ripensamenti, confronti aperti tra quello che volevo io, e i
desideri dei miei famigliari, mi decisi per la partenza; nel 1926 ci preparammo
a lasciare Tacoma, per raggiungere la città
di Madison nello stato del Mississippi.
Stava per iniziare
una nuova avventura. Coincideva nel mio cuore con il germoglio tenero di una
nuova speranza.
Cosa speravo di
trovare nel Mississippi? Non saprei dirlo…
La speranza quasi
sempre delude, e alla fine, ci troviamo con qualcosa che non avevamo chiesto.
Cercavo nuove
prospettive per Esme e Edward, o forse solo per me stesso? Il mio, non era solo
l’ennesimo tentativo di placare l’unica vera sete che in tanti secoli, non ero
mai riuscito a soddisfare e far tacere davvero? La sete di sapere, la sete di
esperienza e conoscenza che poteva elevare, salvare dall’abbrutimento. Sapevo
solo che nulla sarebbe mai stato definitivo, né per me, né per loro. Speravo,
sì… Non potevo farne a meno.
Anelavo sempre a
qualcosa di più solido e concreto, che fosse positivo, ricco di esperienze
vitali, costruttive per la loro esistenza. Speravo non avesse senso solo per
me, ma anche per loro, che in qualche modo, erano obbligati a seguirmi.
Speravo… forse, inutilmente.
Forse non avrei
trovato nulla, come niente sarebbe cambiato nella nostra vita.
Ma poi pensavo a
quante inaspettate coincidenze avevano dato forma alla mia esistenza così come
l’avevo vissuta, fino a quel momento.
Ancora non potevo
saperlo, ma stavo per trovare sul mio percorso un'altra tessera misteriosa del
mosaico, un incastro prezioso del puzzle che sarebbe venuto a comporre la mia
vita, una briciola un po’ folle di quella primavera che avrebbe soffiato sul
gelo dei nostri cuori.
Continua…
Ciao a tutte. Eccomi
qui, con questo nuovo capitolo.
Stavo pensando che è già un anno che lavoro su questa storia e
ancora la fine mi sembra lontana.
Avevo qualche perplessità, se inserire o meno questo pezzo della
storia, perché non mi sembrava davvero fondamentale, inoltre non ero certa
delle date, del periodo in cui collocare il patto coi Quilleutes; nel libro, la
Meyer descrive il fatto come se fossero presenti quasi tutti i componenti della
famiglia Cullen, quindi farebbe pensare che sia avvenuto anni dopo, ma i conti
non mi tornavano con il racconto che fa Jakob a Bella, parlando del suo
antenato Ephraim.
Insomma, le mie idee erano un po’ confuse, ma per ragioni
puramente pratiche, io ho preferito anticipare il fatto e inserirlo qui.
In definitiva, non penso che sia importante, almeno ai fini
della mia storia; diciamo che questo può essere considerato come un capitolo di
passaggio, anche se ho cercato di dargli un po’ di spessore per renderlo un po’
più interessante. Spero di averlo fatto nel modo giusto.
Forse vi chiederete perché non ho fatto alcun cenno a Forks;
semplice, la fondazione della città viene fatta risalire agli anni ’40, quindi
ho dedotto che i Cullen vi si siano stabiliti dopo.
Il capitolo che mi preme di più sviluppare sarà il prossimo, e
già in questo, ho lasciato qualche indizio sulla storia che voglio provare a
raccontare. Una storia che forse non vi aspettate, ma che spero apprezzerete.
Sarà un capitolo difficile, quindi dovrete aspettare un po’ prima di leggerlo.
Come al solito, ringrazio tutte voi che leggete, commentate, preferite e
seguite questa storia.
L’ho già fatto, rispondendo alle vostre recensioni
singolarmente, ma vi ringrazio di nuovo.
Spero sempre di non deludervi, ma se avete delle critiche o
commenti da fare, fatele liberamente, vi risponderò e cercherò di migliorare la
mia storia.
Se non ci sentiremo prima, vi saluto e vi auguro Buon Natale e
buone feste in anticipo.
Alla prossima.