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Autore: Hakigo    05/12/2010    1 recensioni
RACCONTO IN REVISIONE!
Cit Cap. 6: [Lo guardai imbarazzata e indignata, mordendomi il labbro, aspettando la sua reazione, ma lui mi stava semplicemente guardando, imbacuccato dentro Il suo cappotto da mille dollari e la dentro la sua sciarpa firmata. Sorrideva, col naso rosso e gli occhi brillanti.
In quel momento, quando mi sporsi verso di lui e lo baciai, capii.
La mia non era una cotta. Era qualcosa di dannatamente serio, troppo serio.
Mi cacciavo sempre nei guai, ma che potevo farci se non potevo vivere senza I miei stupidi problemi? Capii che l'amore non ha ostacoli, non ha pregiudizi, non ha ragione. L'amore è come una clessidra: se si riempie il cuore, la mente si svuota. Lui, quell'uomo splendido che mi teneva stretta a sè con il giornale ancora tra le dita, era il mio amore, il Dio del mio cuore e non avrei potuto impedirlo. L'amavo, l'amavo tantissimo e non avrei permesso al mio cervello di farmelo scappare, non ora che ne avevo tremendamente bisogno.
Quel bacio di una mattina gelida di settembre, mi scaldò più della cioccolata calda che ora giaceva impotente sul marciapiede.]

Un racconto attuale, che non mette da parte le difficoltà che propone la vita. Il tutto misto ad una tenera storia d'amore della protagonista Irene, un'italiana amante dell'arte e della buona cucina.
Buona lettura.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mentre scendevo le scale per arrivare al garage, mi soffermai di nuovo davanti alla sua porta, come in attesa che potesse aprirsi da un momento all’altro. Attesi invano per almeno due minuti, mentre Alexander mi tirava i capelli per richiedere l’attenzione.
- Irene? – mi chiamò una voce facendomi sobbalzare.
Mi voltai: era la signora Maria, la migliore amica di Angelina.
- Buon giorno – salutai cortesemente, anche se sapevo bene cosa voleva da me. Mi aveva visto, quella mattina seduta davanti alla porta mentre il bambino piangeva disperato nel mio appartamento. Probabilmente tutto il condominio mi aveva sentito urlare contro Joe e ora come di routine, la pettegola veniva ad informarsi per poi spiattellare gli affari miei ai quattro venti.
- Stai bene, tesoro? Ho sentito le tue urla, poco fa – come previsto. Osava anche chiamarmi “tesoro”.
Ero già passata in una situazione simile dopo l’uccisione di mio fratello. Nessuno era corso in strada o aveva chiamato un’ambulanza. Ora la situazione si ripeteva. Maria aveva sentito piangere il bambino, ma come tutti gli altri condomini non era accorsa a vedere cosa gli fosse successo. Odiavo quel genere di persone che si tiravano indietro.
- Sto bene – tagliai corto e lei ovviamente non fu soddisfatta dalla mia risposta. Mi voltai e continuai a scendere senza nemmeno salutare.
Arrivai alla macchina e deposi il bambino sul seggiolino, sedendomi poi al posto di guida e mettendo in moto.
Ricordai il ruggito accattivante della costosa Porche Carrera di Fernando. Era andato via solo qualche ora prima e già mi sentivo vuota.

Una volta nello spiazzale dell’ufficio, venni assalita dall’ansia: non volevo vedere Joe, avevo paura di trovare la mia scrivania vuota o di esser costretta a fare chissà cosa per mantenere il posto e non era un’ipotesi remota, conoscendo il mio capo.
Mi accorsi che Alexander si stava allontanando e gli andai incontro.
Si chinò a terra, raccogliendo poi una foglia secca e marroncina, portandomela.
- Grazie – ringraziai prendendo il gambo tra pollice ed indice, facendola roteare. Mi osservava rapito con la boccuccia aperta – Foglia – spiegai continuando a giocarci.
- Ioia – mugugnò rapito. Ridacchiai.
Si voltò e riprese a correre, tenendo le braccia in avanti, come se potesse cadere da un momento all’altro. Cominciò a saltare sulle foglie secche facendo rumore.
Tutti gli impiegati si soffermavano almeno due secondi ad osservarlo sorridendo, soprattutto le donne. Mentre una signora le passava la mano sulla testolina, alzò la testolina, vedendo una foglia staccarsi da un ramo, collegando così che quello strano oggetto rumoroso proveniva da lassù.
La afferrò al volo con estrema agilità e poi me la portò.
- Su! – indicò l’albero con una smorfia che mi fece ridere. Indicava l’albero con il polso, tenendo la manina aperta.
- Non si può – scossi la testa.
- No? – chiese accigliato.
- Non serve più all’albero – tentai di spiegare ma lui ovviamente non capì. Lo presi in braccio e lo portai dentro, andando verso l’ascensore, chiamandolo e attendendo, mentre cullavo Little Joe.
- Sei venuta – rabbrividii. Era stato Joe a parlare. Perché era lì?
- Già – l’ascensore arrivò – Pensavo fossi in ufficio –
- Sono venuto a prendermi un caffè –
Scusa bella e buona. Dal suo ufficio poteva vedermi arrivare, avevamo la macchinetta del caffè anche nel nostro reparto e in quello vicino.
Entrai nell’ascensore e lui mi venne di lato. Mi si parò davanti solo quando le porte si richiusero. Alexander mugolò infastidito quando Joe mi strinse tra la parete ed il suo corpo, schiacciandolo contro il mio petto e costringendolo a passarmi le braccia intorno al collo, poggiando la testolina sulla mia spalla.
- Gli fai male – ringhiai stringendo il bambino, senza smettere di guardarlo negli occhi. In uno scontro, l’importante è proprio quello di non abbassare mai lo sguardo.
- Ti voglio – sussurrò suadente, guardandomi dall’alto in basso. Nonostante tutto mi venne la pelle d’oca. Una voce ed un corpo come il suo non si trovavano dappertutto.
- Ti odio – risposi acida. La porta dell’ascensore si aprì al terzo piano, ovvero quello del nido. Scivolai sulla sinistra ed uscii, camminando velocemente, quasi con la paura che mi potesse seguirmi, anche se non aveva senso, visto che ci saremmo visti fra pochi minuti in ufficio.
- Ecco qui il piccolo Elgei! – trillò una delle maestre che stava alla reception. Lasciai il bambino a terra, sfilandogli cappello guanti e cappotto prima che cominciasse a scorrazzare per il piazzale.
Cercai di trattenermi più tempo possibile, chiacchierando con la donna e spiegandole la situazione che era appena venuta a crearsi.
- Vi prego di mantenere il silenzio – aggiunsi infine.
- Certo, signorina. Nessuno saprà nulla – mi confermò facendomi sospirare di sollievo. Era ora di andare in ufficio, nella tana del lupo.
Presi l’ascensore buttandomi all’indietro andando, sbattendo letteralmente contro la parete. Al piano successivo salirono Norman e altre due persone.
- Buon giorno, Irene – mi salutò, ma io mi limitai ad un cenno del capo. Mi sentivo stanchissima.
- C’è qualcosa che non va? – mi chiese cordiale, poggiandomi una mano sulla fronte, come per controllare se avessi la febbre.
Un solo sguardo bastò a fargli scoprire tutto.
- Ci vediamo alla pausa pranzo? – domandò una volta fuori.
- Non esco mai durante la pausa. – risposi istintivamente, dandomi dell’idiota: lui cercava di aiutarmi ed io rifiutavo – Vieni tu da me – aggiunsi cercando di recuperare.
Lui sorrise – A più tardi. – confermò.
Sorrisi educatamente. Da come mi guardò preoccupato, probabilmente più che un sorriso dovevo avere un’espressione tormentata e stanca.
Entrai, guardandomi in giro con agitazione. Nessuno sospettava nulla e tutti lavoravano o almeno facevano finta di farlo, si prendevano caffè o chiacchieravano con i colleghi. Mi diedi della stupida, di nuovo: non erano gli altri ad essere stranamente indifferenti, ero io ad essere agitata  per quello che mi aspettava in ufficio con il mio capo.
Salutai i miei colleghi, trattenendomi a chiacchierare come accadeva di rado. Presi un caffè e scherzai, parlando del più e del meno.
- Irene! – mi chiamò una voce femminile.
- Si? – risposi cortesemente.
- Ti ho appena portato le intestazioni sulla scrivania –
- Grazie, Louise – ringraziai.
- Oh!  - fece come se avesse ricordato qualcosa – Joe ha chiesto di te. Ti conviene sbrigarti. Ha un colloquio con il dirigente, sta aspettando solo che lo chiami – mi immobilizzai. Era un caso il colloquio con il capo? Cosa stava tramando?
Non potevo rimanere a bere caffè in eterno. Raccolsi tutto il coraggio che avevo, buttai il bicchierino, salutai i colleghi e mi avviai verso la mia porta. Presi un lungo respiro prima di aprire.
Joe era seduto alla sua scrivania. Mi voltai verso il mio tavolo e fortunatamente tutto era al suo posto. Poggiai la mia borsa sul ripiano e presi in mano il mio lavoro giornaliero.
Credevo che non si sarebbe mosso, ma si alzò, procedendo lentamente fino ai vetri che ci separavano dal resto dell’ufficio, chiudendo le veneziane.
Solo una volta aveva adottato quel provvedimento: quando ero venuta a conoscenza della sua paternità.
I suoi passi risuonavano sul pavimento lustrato. Lo sentii avvicinarsi, piano piano, fino a quando il suo respiro si fermò a pochi centimetri da me. Poggiai quel che avevo in mano sul tavolo.
-  Mi aspetto dei ringraziamenti, Irene. Ringraziami del fatto che ho deciso di non  licenziarti.  – mi afferrò per le spalle. Mi sembrava di essere sul set di un film. Non riuscivo a credere che tutta quella situazione fosse reale. Forse mi sarei svegliata da un momento all’altro, prima che Angelina si sentisse male. Eppure, in un sogno non si avvertono i respiri o il tocco di una persona. Ero terrorizzata. Il mondo di Joe non mi apparteneva.
Cominciò a massaggiarmi piano le spalle muovendo le dita in modo lento e preciso, facendomi sciogliere la tensione anche non volendo. Poi si separò, passandole sul mio collo, rilassando anche quello. Mi spostò i capelli sulla spalla sinistra, baciandone la parte destra rimasta libera, provocandomi una serie di brividi che cominciarono a corrermi per tutta la schiena. Odiavo il mio corpo e le sue reazioni.
Appena mi resi conto che le sue mani stavano scendendo sempre più in basso verso il mio inguine facendomi ansimare, mi ridestai da quel tepore in cui ero piombata.
- Lasciami – sibilai. Voleva sempre e solo quello.
- E tu lasciami fare. Fino ad un secondo fa ansimavi, ti stavi lasciando andare. Tu non mi odi, mi desideri e lo sai. –
Le sue parole mi colpirono dritte al cuore. Aveva ragione? Ne avevo avuto la prova fino a pochi secondi prima. Non potevo mentire a me stessa e se non avessi avuto degli ideali probabilmente mi sarei donata a lui già molto tempo prima, ma io non ero così. Anche se lo desideravo, ormai era inutile negarlo, non avrei mai voluto avere un rapporto tanto per soddisfare le mie voglie, soprattutto le sue.
- Lasciami andare – sibilai di nuovo, divincolandomi.
Mi afferrò per i fianchi e mi voltò verso di lui. I nostri visi erano vicinissimi e sentivo chiaramente il profumo di caffè provenire dalle sue labbra che si espandeva su tutto il mio viso.
- Oggi ho una riunione con il capo – cominciò. Trattenni il respiro: sapevo già dove voleva arrivare – Se vuoi mantenere il posto di lavoro, come ho già deciso, dovremo stringere un patto –
Deglutii e chiusi gli occhi, reprimendo la rabbia e la frustrazione.
Non mi sarei mai aspettata di ricevere una risposta simile in tutta la mia vita, eppure adesso per un dannatissimo capo pervertito e arrapato stava succedendo. Adesso che avevo Alexander a carico per un periodo indeterminato, non potevo perdere il lavoro per cercarmene un altro. Probabilmente sarei anche dovuta andarmene dai miei familiari o addirittura tornare in Italia dove avevo lavorato appena uscita da scuola.
- Cosa vuoi? – mi arresi. Avrei accettato dei compromessi, ma entro un certo limite.
- Voglio che tu ti lasci andare – chiaro e conciso, la sua proposta arrivo chiara e concisa alle mie orecchie, facendomi rabbrividire con un sentimento misto tra eccitazione e paura.
- Sai che non posso. – dissi lentamente, completamente rossa in viso.
- Se continuerai a vivere nell’astinenza, non farà bene al tuo corpo – rispose vicino al mio orecchio.
Cosa potevo rispondere? Ero completamente inesperta su argomenti simili poiché nessuno si era mai spinto tanto oltre con me.
- Non mettermi in questa condizione, Joe. Ho bisogno di lavorare, non voglio.. –
- Non vuoi tornare in Italia? –
- Esattamente. – ammisi a capo basso. Lui era a conoscenza dell’identità di mio padre in quanto mio capo, ma conteneva quei documenti segreti in una cassaforte in casa sua, insieme a quelli di tutti gli altri dipendenti.
Deglutii spaesata. La mia mente correva veloce o almeno cercavo di farla andare a tutta velocità. Dovevo trovare una soluzione al più presto, prima che andasse dal capo.
- Farò qualsiasi altra cosa, ma non questo – tentai, ma cos’altro poteva desiderare dopo una richiesta come la sua? Non esisteva qualcosa di più subdolo che potesse chiedermi.
- Impossibile. – rispose infatti, spingendosi ancora di più contro di me.
Allungò il suo viso verso il mio per baciarmi ma riuscii a spostarmi. Tuttavia lui mi fece voltare, tenendo il mento stretto tra indice e pollice. Bussarono alla porta. Eccolo il richiamo del capo. Accettare o perdere. Il suo tempismo era ottimo.
Se solo non avessi perso tempo con i miei colleghi avrei avuto più tempo per discutere e trovare un’altra soluzione. Aveva il coltello dalla parte del manico.
- Prendere o lasciare. – disse chiaramente con un sussurro.
Bussarono di nuovo. Vidi la figura muoversi per andare verso la maniglia. Andò tutto a rallentatore. Ero nel più completo panico. Chiamare aiuto sarebbe stato inutile ed avrebbe equivalso a firmare le mie dimissioni. C’era una sola cosa da fare.
- Accetto! – dissi tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi, aspettandomi il peggio.
Un momento prima che la porta si aprisse, mi lasciò andare, afferrando le pubblicità che stavano dietro di me.
- Capo? – chiese la donna mentre io guardavo dritto davanti a me quasi fossi una statua di sale.
- Sì? – chiese noncurante, facendo finta di osservare bene tutto quello che c’era scritto e le richieste dei clienti.
- Il dirigente la sta aspettando – disse Louise guardandomi accigliata.
- Certo, arrivo – annuì Joe andando verso la  scrivania e prendendo il materiale che poteva servirgli. La porta si richiuse. Non ero ancora tornata alla realtà. Vedevo e sentivo quel che mi circondava, ma mi sentivo distante, come se la mia decisione mi stesse portando lontano da tutto, nonostante servisse all’esatto contrario, cioè a farmi rimanere al mio posto in azienda.
- Irene? – mi chiamò Joe.
Mi voltai verso di lui, guardandolo dritto negli occhi.
Lui si accigliò: ero talmente tanto abituata a guardarlo male che probabilmente lo avrei guardato a quel modo per tutta la vita.
- Non so quanto starò con il dirigente. Inviami tutto per e-mail, se finisci prima che io ritorni –
Sbattei le palpebre. Cosa stava facendo? Perché si comportava così…normalmente? Mi voltai verso le mie tavole, studiandole per la prima volta veramente da quando ero entrata, dandogli le spalle.
Sentii una mano risalirmi per la coscia e mi irrigidii al’istante.
- Non a lavoro – lo pregai quasi.
- Non era specificato nel patto – la mano si insinuò lentamente nell’interno coscia e la allontanai.
- Lo specifichiamo ora – sibilai rabbiosa.
Ridacchiò, mi lasciò andare ed andò vero la porta, uscendo e lasciandomi quindi sola. Mentre lavoravo, ebbi tutto il tempo per riflettere della mia scelta e più ci pensavo, più capivo di aver sbagliato della grossa. Ma cos’altro potevo fare?
Con Alexander a carico per un periodo imprecisato non potevo permettermi di non ricevere una paga, anche perché non si poteva mai sapere se la sorella di Grace avrebbe ritardato, rimandato o addirittura rinunciato all’ultimo minuto?
“Vendermi” era stato decisamente eccessivo, ma con Joe non esistevano altri tipi di pagamenti, ma in un modo o nell’altro avrei trovato il modo di sfuggirgli, anche se sarebbe stato molto difficile.
Avrei voluto che fosse stato Fernando a riabbracciarmi per primo dopo Andrea e le occasioni erano state veramente molte in un certo senso, persino la sera precedente, prima che andasse via.
Esatto. Fernando era andato via e io mi cedevo all’uomo che mi aveva sedotto quella stessa mattina.
All’ora di pranzo, Norman, puntuale come un orologio svizzero, bussò cortesemente alla mia porta.
- Avanti – dissi con lo sguardo concentrato sullo schermo. Stavo sistemando la terzultima tavola. Ancora un paio d’ore e sarei tornata a casa.
- Hai fame? – mi chiese.
Mi voltai verso di lui: in mano aveva la confezione del Burger King con una macchia di olio gigante sul fondo. Pensai a quante calorie dovevano esser contenute all’interno di quella busta, ma invece che sentirmi disgustata, mi venne l’acquolina in bocca. Avevo un assoluto bisogno di mangiare grasso e fortunatamente non seguivo alcuna dieta, riuscendo a mantenermi abbastanza in forma, nonostante avessi almeno un paio di chili di troppo.
- Adesso tantissima! – trillai quando vidi all’interno patatine e hamburger.
Cominciammo a mangiare mettendo al riparo tutti i documenti che mi servivano per lavorare. Nonostante Norman fosse mio amico e mi stesse facendo divertire moltissimo, non riuscivo a dimenticare l’accordo con Joe.
- Com’è andata? – chiese una volta finito di mangiare, divenendo improvvisamente serio.
Quella domanda, nonostante fosse attesa, mi spiazzò completamente.
- Non bene – tagliai corto mentre mi pulivo le mani e guardavo gli scarti sul tavolo.
- Cos’ha fatto? – chiese sinceramente preoccupato.
Feci spallucce guardando fuori – Ho accettato un patto – mi mantenni sul vago. Io avevo imparato a conoscere Joe nel giro di un paio d’anni, ma Norman lo conosceva molto meglio di me, visto che avevano frequentato lo stesso college. Sul suo viso passarono migliaia e migliaia di espressioni. Cercò di parlare ma richiuse la bocca all’istante. Era stupito ma allo stesso tempo arrabbiato. Penso che quella sola frase gli avesse rovinato completamente la giornata, ma se avessi mentito e lui lo avesse scoperto, poi sarebbe stato peggio per entrambi.
- Non dovevi farlo – sibilò almeno due minuti più tardi.
- Non avevo altra scelta. O il patto o la disoccupazione. –
- Avresti potuto trovare almeno un milione di altri lavori! –
- Non posso permettermelo. Io sono qui in trasferta, sarei dovuta tornare in Italia nella vecchia azienda –
- Avresti potuto dare le dimissioni anche da quella e rimanere qui in America. –
- Avrei perso l’appartamento.. – commentai.
- Potresti venire da me! – si propose. Lo guardai sorridendo tristemente: Norman faceva di tutto per aiutare ad essere felice. Perché non riuscivo ad amarlo?
- Veramente, non posso lasciare il bambino da solo. –
Lui rimase in silenzio. Sapevamo entrambi che avevo ragione. Fino a quando c’era un unico adulto di mezzo non c’erano problemi, ma quando si trattava di un bambino non era la stessa cosa.
- Troveremo un piccolo monolocale a Grace e al bambino vicino al mio appartamento.. – tentò allora.
- Grace è andata via.. – annunciai solenne.
- Cosa? E’ impossibile, Alexander è giù al nido.. – ci mise pochi secondi a connettere il tutto. Lo stupore passò attraverso i suoi occhi – Non è possibile commentò.. –
- Sono sola con il bambino, adesso –
- Come farai? Non potrai mai riuscirci da sola! –
- Ho già chiamato Melanie, la sorella di Grace..Ha detto che potrebbe venire a prenderlo fra una settimana, ma non ne era sicura. Non voglio lasciare Alexander a Joe.. – la mia voce era diventata un sussurro.
- Vieni da me, Irene. Possiamo farcela! – mi incoraggiò.
- Non è mio figlio ma Grace ha incaricato me di proteggerlo, almeno fino a quando non arriverà la sorella. E’ una mia responsabilità. Anche se sarà difficile, posso farcela. –
- Irene.. – mi chiamò avvicinandosi a me con la sedia, prendendomi le mani – Lascia il lavoro e vieni a vivere con me. Ci prenderemo noi cura del bambino, io e te. Non avremo bisogno di altro –
Abbassai lo sguardo e guardai le sue mani grandi e forti. Quella era una proposta, era impossibile negarlo. Mi chiesi fino a che punto arrivavano i suoi sentimenti per me e capii che non aveva limiti. Mi chiesi cosa trovava in me di tanto speciale. Non avevo futuro ed ero una ragazza come tante altre. Vivevo la vita così come si presentava, all’ordine del giorno, con le sue gioie ed i suoi dolori.
- Non capisco cosa ci trovi tu in me, sinceramente. – sussurrai guardando le sue spalle larghe.
- Non farmi domande simili. Se dovessi risponderti, non capiresti, poiché non lo capisco nemmeno io. Vieni con me Irene. – se solo Fernando non fosse arrivato, probabilmente sarei saltata fra le sue braccia da un momento all’altro. Se solo non fossi stata già innamorata, probabilmente il mio cuore sarebbe impazzito, invece di rimanere solo nell’agitazione.
- Lasciami pensare. – risposi mentre la campana segnava la fine della pausa pranzo.

- Non ti dispiace di non poter festeggiare il Natale con tuo figlio? - chiesi il pomeriggio dopo ad Angelina.
- Mia figlia ha già chiesto al primario di farmi uscire per le feste. Andrò per un po' di giorni a New Orleans e poi a Fernando non piacciono queste feste. - disse stancamente, mentre continuava a lavorare a ferri – E tu? Dove festeggerai il Natale? Tornerai in Italia? -
- Andrò in Inghilterra, da mia madre e mio fratello. -
- Non hai intenzione di tornare da tuo padre? -
La guardai stranamente. Le avevo detto che mio padre era in galera, tralasciando il mio passato, ma pensavo che avesse più delicatezza. - No. - risposi – Non voglio vederlo. -
- Non è un bene lasciare I genitori abbandonati a sé stessi. Il perdono è divino, te l'ho detto tante volte. -
- Ha commesso un atto che non posso perdonare. –
Annuì. La osservai. Avevo una voglia tremenda di raccontarle tutta la mia vita, per potermi sfogare con lei quando ne avrei avuto bisogno, ma era dannatamente difficile. Poi, cosa avrebbe pensato di me e della mia famiglia? Così, come tante altre volte, decisi di reprimere quel desiderio.
- Che lavoro fa Fernando? - chiesi di punto in bianco.
- Un giorno è un delinquente, un giorno è un poliziotto e un giorno è un poeta. - disse sorridendo. Un dilemma decisamente contorto. Come poteva fare tutti quei lavori in una sola volta? Arrivò l'infermiera, avvisandomi che l'orario delle visite era finito. Salutai Angelina, baciandole la fronte, uscendo dalla camera. Fra un mese e poco più sarei partita e mi dispiaceva il fatto che non l'avrei rivista fino al nuovo anno. Uscii nel vento pungente.
Data la risposta di Angelina, era ovvio che Fernando le avesse proibito apertamente di rispondere in modo chiaro e conciso. Quando aveva pronunciato la parola “delinquente” mi era arrivato un tuffo al cuore, passato subito dopo per il resto della frase.
Inoltre, stavo considerando veramente l’idea di tenere con me Alexander e di andare a vivere da Norman. L’amore poteva nascere da un momento all’altro, avevo solo bisogno di tempo per dimenticare Fernando.
Mi balenò un’idea in mente.
Io avevo Alexander e Grace non c’era più. Joe mi aveva minacciata di licenziarmi ma io potevo rigirare la situazione con delle semplici frasi. Avrei potuto minacciarlo di dire a tutti il suo segreto, facendo scoppiare uno scandalo e fermando definitivamente la sua ascesa al successo.
Nessun’altra donna dell’ufficio l’avrebbe voluto se fossero venute a conoscenza della gravidanza e della vita di Grace.
Adesso mi sentivo più forte. Avrebbe potuto togliermi la casa ma era un rischio che ero disposta a correre.
Era sabato e non ero andata a lavoro. Tuttavia, secondo accordo del giudice, Joe aveva passato tutto il pomeriggio con il bambino e entro poche ore doveva riportarlo in casa. Non volevo che venisse da me, di nuovo, ma era necessario perché mettessi in atto il mio piano.

Il mio capo-stupratore arrivò in perfetto orario alle sette di sera, con il bambino addormentato e la giacca sporca di bava. Appena depose il bambino nel box, venne in cucina dove io stavo preparando la cena per me e per lui.
- Dov’è Grace? Sono almeno due giorni che non la vedo –
“Finalmente te ne sei accorto” pensai.
- Grace non c’è. –
- E dov’è? –
- Non lo so.. – sorvolai sul fatto che mi avesse scritto chiaramente che sarebbe andata in Canada.
- Come fai a non saperlo? E’ uscita con una nuova conquista? A che ora torna? –
Mi chiesi il perché di tutte quelle domande.
- Come mai tutte queste domande? Credevo fosse solo un peso per te. -  chiesi infatti acida.
-  E’ pur sempre una madre ed ha delle responsabilità – spiegò duro. E io che per pochi secondi avevo pensato che pensasse almeno un po’ a lei.
- Grace non tornerà – conclusi continuando a controllare i fornelli, senza guardarlo.
- Come sarebbe a dire? Cosa mi stai nascondendo? – domandò.
- Grace è fuggita. Senza il bambino – parlai ad una lentezza estenuante e voltai lo sguardo solo per godermi la sua espressione. Era una statua di sale, con la bocca leggermente aperta. Si vedeva chiaramente che stesse salutando tutte le notti di divertimenti con donne e amici, passati a bere e parlare delle cose più varie. Mi stavo godendo a pieno ogni singolo secondo.
- Quindi presumo che dovrò prendere io il bambino.. – commentò con almeno un minuto di ritardo.
- No. Grace mi ha chiesto espressamente di tenerlo o di chiedere ai suoi fratelli. – risposi rimanendo sul vago, senza dirgli che in realtà la sorella, Melanie, aveva già accettato di prenderlo in custodia.
- Dove vuoi arrivare? – domandò poi.
Annuii. Sapevo che me lo avrebbe chiesto – E’ proprio qui che entri in campo tu, capo – dissi, rimanendo in silenzio. Mi piaceva tenerlo sul filo di un rasoio.
- Parla! – la sua reazione mi metteva voglia di ridere, ma mi limitai a sorridere.
- Ricordi quel patto che abbiamo fatto ieri..? – cominciai vaga.
- Sapevo che avevi in mente qualcosa! –
- Bene. Io non dirò niente e tu rinuncerai al patto. –
- Un patto è un patto. –
- Non c’era nessuno presente, e poi non c’era ancora di mezzo tuo figlio. –
- Potresti sempre darlo in custodia ad uno dei fratelli –
- Io voglio tenerlo. – dissi decisa.
- Potrei licenziarti. Potresti arrivare alla stessa situazione di Grace. –
- Potrei dire a tutti che hai un figlio e che tu hai deciso comodamente di non tenerlo e di non sposare la madre, mandandola allo sbando e costringendola ad andarsene –
- Sarebbe una bugia. –
- Sarebbe uno scandalo. Prendere o lasciare, Joe. –
- Sai che potrei comunque prenderti da un momento all’altro, se volessi. –
- Non lo farai. –
- Perché no? – chiese spavaldo avvicinandosi.
- Perché insieme alla notizia della tua paternità, potrei anche aggiungere una denuncia per violenza sul posto di lavoro. –
Rimase in silenzio. Avevo vinto.
- Affare fatto? –
- D’accordo, ma dovrai dire addio alla tua casa. –
- E’ un sacrificio che sono disposta a correre. –
Il telefono squillò. Visto che io ero ai fornelli non potevo allontanarmi, così andò lui a rispondere.
- Pronto? – lo sentii rispondere.
- Sono un suo amico. – cominciò a parlottare. Sembrava accigliato.
Alzò lo sguardo su di me, spalancando gli occhi. Poggiò la mano sul ricevitore.
- E’ l’ospedale… - annunciò.
Il mio primo pensiero andò ad Angelina – Cosa? – chiesi con il cuore in gola.



Note Finali____
Credevate che mi ero dimenticata di voi, eh?! E infatti è proprio così! ._.
No, scherzo xD Ho ritardato tantissimo cavoli, credo di aver superato il mio record. Mi scuso tantissimo, ma ho dovuto formattare il pc e ho dovuto ricominciare tutto il capitolo da capo, stupido windows! Comunque eccomi qui con un capitolo succulentissimo.
Se alla fine siete rimasti col fiato sospeso era proprio quello il mio obbiettivo. Baci, haki-chan.
   
 
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