Capitolo
Secondo
Mr. Smith
ha delle mani sottili. Sottili e pulite, oltre che morbide.
Anche se
tiene spesso una sigaretta fra le dita della sinistra –
è mancino – non sa
affatto di fumo, ma sempre di profumo.
Avanza
con un’aria elegante, una mano infilata in
profondità nella tasca dei pantaloni
e l’altra stretta su una pistola.
L’impermeabile
nero svolazza al freddo notturno, riparandolo di poco
dall’umidità della sera.
“Ammetto
che non mi piace…” Parla rilassato, nonostante
probabilmente i suoi occhi
stiano scrutando attorno per notare ogni singolo movimento.
“Io non
ti avevo chiesto di venire…”
“Ma mi
hai detto che se volevo saperne di più mi avresti
mostrato” commenta
accigliato, stringendo appena due dita sulla fondina.
“Non mi
dirai che anche tu temi le dicerie sui cimiteri di notte!”
Vorrei farla suonare
come una battuta, ma il mio esce come un commento glaciale. Credo
tuttavia che
lui abbia intuito il vero fine.
“Maggie,
io non ho paura di qualche lapide in un prato curato. Temo tutti quei
pazzi
scatenati che potrebbero attaccarmi per uccidermi e prendersi i miei
soldi”
Eccolo il problema.
“Non ti
preoccupare… vedrò di salvarti” e lo
sento sorridere innocentemente.
Quando mi
fermo lui mi accosta, cercando di distinguere i caratteri scuri sopra
alla
lapide di fronte a noi.
Fischia,
quando scorre sulle date di nascita e morte.
“Una
vecchia conoscenza suppongo”.
La sua
mano lascia l’arma per sprofondare nella tasca libera.
“Ti ho
parlato di Madame Brunette…”
“La
vecchia con lo scialle, la parrucca e tutto il resto”
sintetizza annuendo.
“Questa è
la sua tomba”.
Rapido,
indolore.
Non lo
sento muoversi né stupirsi, così volto lo sguardo
verso di lui, incrociando i
suoi occhi scuri.
Non
commenta, non si muove. Scruta, con singolare indifferenza. E la cosa
mi piace.
“Non dici
niente?”
“Dimmi
cosa vuoi che dica. Mi fa piacere che tu mi abbia portato in una parte
di
cimitero abbandonata persino da Dio per mostrarmi questa…
tomba” conclude.
“Credi
che ti abbia portato qui solo per mostrarti un pezzo di
pietra?”
Sbuffa,
scuotendo la testa rassegnato.
“Immagino
di no”.
E le mie
labbra si distendono in un sorriso naturale che lui apprezza e ricambia.
Madame
Brunette morì 6 anni dopo il nostro incontro.
Tubercolosi,
da quel che riuscii a capire con gli anni.
Il giorno
in cui seppellimmo il suo corpo indossava ancora una delle sue
parrucche grigie
ed il vestito nero preferito, che le avevamo regalato noi con i
risparmi. Il
vecchio scialle viola circondava caldo le sue spalle fredde, e sulle
sua labbra
versammo qualche goccia di birra.
Lei amava
il profumo della birra, ma da tempo non ne assaggiava più
nemmeno un goccio.
Fu un
misero funerale sulle prime, ed il piccolo corteo composto solo da noi
– le sue
ragazze – aveva attraversato la via principale della
città con passi lenti e
sotto gli occhi avidi della gente.
Ma Madame
era amata. Amata come poche donne al mondo lo sono state.
Il prato
arido attorno alla fossa si riempì di persone.
Uomini,
donne, bambini. Ai primi aveva dato noi con affetto e attenzione. Alle
seconde
una casa e cibo, quando ne ebbero bisogno, rendendole in grado di
realizzare
qualche sogno. Ai terzi, la possibilità di avere delle madri
al loro fianco,
che si prendessero cura di loro e non li abbandonassero per strada.
I ricordi
di quel giorno sono lontani, ma tra i più presenti e
perfetti che io rammenti.
Ricordo
la pioggerellina leggera sulle nostre testa, l’odore della
strada bagnata e dei
pochi fiori che portavo tra le mani. I pianti nascosti sotto i veli
neri delle
altre e persino gli alti cappelli dei signori che, per
l’occasione, avevano
indossato i loro abiti migliori con i guanti bianchi.
Ricordo
lo sfregare delle corde mentre la cassa veniva calata e il canto basso
ma forte
che intonammo per lei.
E poi
ricordo la mia vera disperazione.
Ma di
questa non voglio parlare.
“Il
“Castaway” chiuse quel giorno”.
“Lei ne
era la proprietaria…”
“In
realtà lei aveva fatto un testamento per lasciare
l’intera struttura ed i
prossimi guadagni a noi, a patto che fossimo in grado di dividerli
collaborando
e potessimo continuare il suo lavoro con devozione come lei ci aveva
insegnato.
Era l’arte della prostituzione, per quanto a quei tempi tutti
ci chiamassero povere anime bisognose,
perché la parola
prostituta era bandita”. Nella mia voce
c’è una nota di rancore.
“Ma?”
“Ma…
quella busta con le sue volontà sparì quello
stesso giorno, e tutti i suoi
averi passarono ad un figlio che aveva avuto in gioventù e
che lo chiuse,
considerandolo disdicevole se non altro”.
“La prese
lui?”
“Ne
dubito… viveva in Francia e non riuscì, o non
volle, essere presente nemmeno per
la cerimonia. Arrivò due giorni dopo, se non
sbaglio”.
Mr. Smith
mi osserva placido, aspettando che io risponda alla sua domanda non
pronunciata.
“Non
tutti apprezzavano ciò che lei aveva fatto per gente come me
in quegli anni.
Molti avevano motivo di odiarla e disprezzarla…”
“Ne sono
certo, è un po’ quello che si pensa di me,
no?”
Ma lo
ignoro.
“In
primis le mogli di quegli stessi uomini lì
presenti”.
Annuisce,
tornando con lo sguardo sul nome scritto sulla pietra.
Lo vedo
inginocchiarsi ed estrarre un fazzoletto bianco. Con cura la sua mano
passa
sopra la pietra dura e sporca: la pulisce.
Vorrei
dire qualcosa, ma non ci riesco.
Vorrei
chiedergli perché lo sta facendo, ma mi anticipa.
“Lei ti
ha aiutato, n’è vero? Ti ha fatto cambiare stile
di vita e ti ha reso ciò che
sei…”
Non ho
mai pianto. Nemmeno quel giorno lontano lo feci. Ma ogni tanto ne sento
la
necessità ed il desiderio.
Ora è
quel momento. Quello stesso esatto istante in cui vorrei sentire il
sapore di
una piccola lacrima sulla guancia, che lenta raggiunge il mento. Vorrei
sentire
il tonfo sul suolo, ed il profumo che ha.
“Madame
Brunette faceva solo quello che poteva, guadagnandoci
senz’altro… Tuttavia
penso sia una bella cosa”. Non si aspetta nessuna risposta da
me, Mr. Smith.
Ma
“Grazie” lo dico ugualmente.
Quando
ogni tanto ripenso a Madame Brunette tengo quei sentimenti per me.
Cosa sono
6 anni per chi, come me, ne ha vissuti duemila?
Una
goccia, in un immenso oceano colmo di sale e disperazione.
Ma quei
sei anni sono come una goccia dolce, che scorre da un fiume e si getta
libera
nel mare, mantenendo con dignità la sua unicità.
Come ho
già detto, incrociai nella mia vita tante persone, la cui
storia ha fatto la
nostra. Nessuno ricorderà mai nei libri il nome di Madame
Brunette; nessuno
rammenterà mai la sua camminata storta o le occhiate maligne
in direzione di
qualcuno che non apprezzava. Non ci sarà una sola persona in
grado di ricordare
quanto il suo Bordello avesse reso felici delle povere
anime abbandonate.
Non ci
saranno storie, né leggende, né parole su di lei.
Eppure,
solo vivendo quei 6 miseri anni, la mia esistenza deviò
verso una direzione
diversa dall’autodistruzione.
Fu dalle
sue labbra strette e pallide che io sentii la parola
“Adattamento”.
Come
potrei mai dimenticarla?
“È solo
per lei?”
Sento la
voce di Mr. Smith lontana, anche se le nostre braccia si sfiorano per
quanto
camminiamo vicini.
Mi è
sempre piaciuta la sua voce.
Il suo
modo di parlare e accentuare inconsciamente le parole più
importanti.
L’oscurità
che mi avvolge sembra reagire ad una strana luminosità del
suo tono.
“Fu
durante quei sei anni che morii per la prima volta, e spettò
a Madame Brunette
tirarmi fuori dalla merda, per la seconda volta”.
Ora l’ho
sorpreso.
Ne vado
quasi fiera, mi piace stupire la gente, anche se molte volte basta dire
la mia
età o mostrare più semplicemente loro il coltello
che tengo sulla coscia.
“Muori
anche tu?”
Sorrido
rincuorata.
“La morte
è soggettività. Anche se mantieni le funzioni
vitali stabili non significa che
tutto vada bene”.
Non ne è
troppo convinto, ma non discute.
“Comunque,
i primi anni che passai lì non cambiai un
granchè… svolgevo il mio lavoro,
assecondavo i desideri lussuriosi dell’uomo di turno.
Regalavo sorrisi plastici
a chiunque li pagasse. Ma rimanevo nel mio bozzolo di stagnante
insicurezza e
sfacelo, nel disperato tentativo di abbandonarmi ad una morte lenta e
dolorosa”.
Faccio
una pausa, ascoltando il suono dei miei stiletti sul marciapiede.
“Era la
vigilia di Natale del 1829… si gelava persino solo
avvicinandosi alle
finestre”.
Madame si
aggirava ansiosa per i tre piani della casa, tirandosi dietro una
ragazzina
minuta che aveva preso sotto la sua ala più come servetta
che altro.
Avremmo
avuto il pienone quella notte.
Si sa,
tutti i signori cercano aria fresca dopo essere costretti a stare per
ore in
una qualche chiesa ad ascoltare la parole di redenzione e perdono.
Si
purificavano l’anima e, una volta fuori, cercavano subito la
via più semplice e
piacevole per sporcarsela di nuovo.
Ovviamente,
a vantaggio dei guadagni della vecchia.
“Castaway”
non era mai stata più pulita. L’odore del
disinfettante aveva sovrastato quello
di sperma nelle stanze e l’aria limpida aveva sostituito
quella calda e intrisa
di fumo abituale.
Anche se
con piccole critiche, Madame aveva spalancato tutte le finestre alle
prime luci
dell’alba, obbligandoci a dormine in un’unica
stanza tutte insieme al piano più
alto, sicura che quella non ci sarebbe servita.
La povera
ragazzina ci osservava stanca con uno straccio freddo e bagnato tra le
mani
violacee e implorava un aiuto silenzioso.
Ma noi, o
meglio le altre, erano troppo interessate a rattoppare abiti per la
notte.
Mentre io preferivo solo starmene zitta di fronte al camino.
Rimasi in
piedi con le mani tese verso il fuoco per molto tempo, assorta.
“Sta
pensando a qualcosa di interessante?”
Voltai lo
sguardo verso la voce allegra che aveva parlato. Un uomo si tolse il
cappello
elegante dalla testa, accennando un inchino formale.
Io
strinsi semplicemente le mani attorno alle spalle e annuii annoiata.
“Lord
Edgar per servirvi, My lady”. Continuò galante,
non suscitando nessun
interesse.
“Cercavo
Madame Brunette…” ritentò, ora con un
sorriso calmo.
“La
troverete al piano superiore. Ma posso chiamarvela
io…” Volevo solo togliermelo
dai piedi in verità.
“Con
piacere, se non vi arreca disturbo!”.
“Affatto”
Sorrisi ampiamente, voltai appena il capo verso la porta, presi un
profondo
respiro ed urlai: “VECCHIA”.
Lui
indietreggiò stupito, scuotendosi appena.
“LORD…
EDGAR PER TE” Continuai imperterrita finché Madame
non apparve trafelata nella
stanza lanciandomi un’occhiata gelida di ammonimento.
Si scusò
e riscusò per il mio comportamento, trascinandolo lontano
dove io non avrei
potuto disturbarli.
Mr. Smith
ride.
“Mi
riesce difficile immaginarti tanto… che ne so…
dispettosa!”
“Ero
perfida, è diverso” commento.
“Lord
Edgar l’hai più rivisto?” mi chiede.
“Costantemente…
da quel giorno ritornò a “Castaway” due
giorni a settimana fissi. Martedì e
Giovedì”.
“Per te?”
Vorrei
rispondergli, ma la mia espressione dev’essere assai ovvia
visto che mi
precede.
“Non lo
biasimo…”
“Te ne innamorasti?”
“Completamente”.
È strano
come faccia ancora male parlarne.
“Madame
Brunette non lo accettò?”
“Oh no,
lei non commentò mai una volta questa cosa. Penso che,
inizialmente, l’idea di
liberarsi di me le piacesse. Le avevo creato diversi problemi in appena
un anno
con lei. Probabilmente iniziava a pentirsi di avermi fatto la
carità. Vedeva in
Lord Edgar un modo semplice ed anche felice per me di lasciarmi
andare”.
Fisso i
piedi nelle scarpe lucide di Mr. Smith. I suoi passi arrivano regolari,
e la
sua andatura mi rilassa.
Il cielo
grigio di Londra ricopre le nostre teste e i nostri pensieri.
Il suo
volto è indecifrabile, per la prima volta da quando lo
conosco.
Non
riesco più a leggere le sue labbra o la luce dei suoi occhi
nascosti sotto gli
occhiali; neppure i movimenti delle sopracciglia. È immobile
ed immutato.
“Non era
il principe azzurro vero?”
Lo dice
piatto, come se stesse facendo un qualche sforzo inumano.
Ha in sé
la grande possibilità di essere molto più in
gamba di me. Lui al mio posto
saprebbe vivere meglio.
“No, non
lo era”.
So solo
rispondere così, lasciando andare un peso. Frase scontata,
ma vera.
“Passò
con me due notti a settimana per un anno. Mi riempì di
regali, mi pagava anche
più del dovuto”.
“Ma ti
pagava…”
“Madame
lo capì subito. Mi disse più volte che il pagarmi
lo rendeva svincolato da ogni
sentimento. Non l’ascoltai”.
Silenzio.
Rigoroso e soffocante silenzio tra di noi.
“Vuoi
sapere come finì?”
“Vuoi
dirmelo?”
“Mi
invitò nella sua villa di campagna, promettendomi
chissà cosa… l’ho rimosso.
Credo di aver dimenticato molto di quel giorno con lui. Inconsciamente
la mia
mente l’ha cancellato”.
“Stupro,
violenza?” chiede con naturalezza.
“E
abbandono, in un vicolo poco lontano dal Bordello, tra la sporcizia di
una
macelleria ed i ratti che si cibavano di essa”.
“Una
donna come te… Come hai fatto a non ucciderlo?”
Ora
sorrido. Lo risento partecipe a cauto.
“Madame Brunette, fu lei a trovarmi. Mi curò
notando come le mie ferite si
rimarginassero troppo velocemente. Mi fece la tua stessa domanda,
quando scoprì
cosa sono…”
“Che le
hai risposto?!”
“Che lo
amavo!”
“E lei?”
Rido di
nuovo, al pensiero della faccia di Madame.
“Mi
disse: Ti prego, Margaret, se vuoi ucciderlo ora fammi
assistere!”
Anche lui
ride con me.
“Lo
facesti? Lo uccidesti?”
“Quando
mi presentai da lui pochi giorni dopo, con questi stessi abiti ed un
coltello
legato sulla coscia non avevo quest’intento. Mi sarebbe
bastato il suo sguardo
spaventato, o le sue patetiche scuse balbettanti”.
La porta
cigolava. Non era ricco come aveva ostentato. L’appartamento
in cui alloggiava
era un buco in affitto in un vicolo fuori mano. O forse, quello
l’aveva preso
apposta per non destare sospetti sulla sua identità.
Quando
quella porta cigolante si aprì lui aveva un’aria
trasognata.
Probabilmente
si era appena fatto o fumato qualcosa, perché mi sorrise
accogliendomi
calorosamente.
Il letto
era sfatto e ricordo ancora l’odore leggero ma percepibile di
sangue.
Una
piccola vergine era appena stata deflorata in quelle stesse lenzuola.
L’acqua
del bagno scorreva. Lei era ancora lì dentro.
Credo di
avergli detto qualcosa, perché all’improvviso
reagì nell’esatto modo in cui mi
ero immaginata.
Balbettò
ed indietreggiò. Poi mi fissò dapprima stupito e
poi spaventato.
Mi disse:
“E’ disgustoso”, non ricordo nemmeno se
la cosa avesse senso. Se lo stesse
dicendo a me, o a qualcos’altro proprio non lo rammento.
La
piccola entrata del bagno si aprì ed una ragazza dai lunghi
capelli chiari
apparve con due mani tremanti, due occhiaie violacee sotto gli occhi ed
una
vestaglia sporca addosso.
Pena.
Provai pena, ma non abbastanza per risparmiarla.
Sputai
parola cattive, mi aprii il lungo cappotto e la camicia per mostrargli
le
ferite rimarginate.
Sulle
prime non capii se fosse la cosa giusta, limitarmi ad insultarlo.
Leggevo
nei suoi occhi blu il terrore nel trovarsi di fronte una sorta di
mostruosità.
Così come leggevo negli occhi di quella ragazza la speranza
di potersi salvare.
La mia
mano però raggiunse lenta il coltello alla gamba.
Non mi
mancava la forza, né le motivazioni per farlo, ma indugiai.
Nonostante
tutto, provavo per lui qualcosa di profondo.
Ricordo
la durezza dell’impugnatura. La lama aveva un odore acre,
metallo freddo e dal
colore spento.
Sottile
ed affilata, eppure piccola da stare nel palmo di una mano.
Non ero
lucida, non ragionavo.
Stringevo
convulsamente le dita conficcandomi le unghie tra la carne. Le mie
labbra erano
strette e gli occhi bassi, in preda ad una qualche volontà
di non guardarlo.
Un anno
era stato miseramente rovinato da un solo giorno.
In
quell’istante ripromisi a me stessa di non credere
più a nessuno. Ci sarei
stata solo io, da sola, per l’eternità.
Riaffiorarono
i ricordi di volti che avevo incrociato.
I saggi
filosofi dispensavano consiglio sull’amore come fosse
l’unica vera possibilità
di redenzione. Altri lo ritenevano un male, un atroce colpa. La fonte
di tutti
i tormenti.
In quel
momento, io non seppi tuttavia a chi dare fiducia.
Alzai la
mano con l’arma, al rallentatore potrei dire che quella era
la mano di un’inesperta
creatura di Dio. Percepii persino lo spostamento d’aria.
Avrei
affondato alla cieca, se non ci fosse stato quell’ostacolo.
Lui aveva
afferrato il mio polso.
Stringeva
con rabbia, o forse disperazione.
Mi disse
qualcosa, senza pensare minimamente a scusarsi.
Mi
insultò, sì.
E poi…
qualcosa di pesante e duro colpì la mia guancia.
I miei
capelli si mossero spinti dall’urto, ricadendomi davanti.
La mia
mano perse forza e il mio volto fu come obbligato a girarsi.
Non fu il
dolore del colpo, o le parole che lo accompagnarono. Non fu nulla di
tutto ciò
a farmi crollare sulle ginocchia.
Le
lacrime che scesero tracciando solchi profondi sul mio viso e il
tremolio che
percorse il mio corpo. Nulla.
All’improvviso
non sentii più nulla.
Nessun
suono arrivava alle mie orecchie, nessun odore al mio naso. I miei
occhi
vedevano una strana oscurità fatta di ombre vacue e deformi.
Le mie
membra furono schiacciate per terra da un peso indefinibile.
Qualcosa
si era come seduto sulla mia schiena e mi trascinava in un baratro.
Forse
sorrisi, perché la mia prima impressione fu che la morte era
davvero semplice.
Ma i miei
occhi si riaprirono, mostrandomi una luce abbastanza forte da farmi
riconoscere
chi mi stava di fronte.
Le mie
orecchie percepirono ancora le ingiurie e il mio naso captò
di nuovo l’odore di
quel sangue.
Ero morta
per poter risuscitare.
E la mia
morte, con conseguente risurrezione, mi avevano reso incapace di
pensare ad
altro che non fosse la vendetta.
La prima
cosa che feci fu afferrare quella mano, quella che aveva sfiorato la
mia
guancia, e tagliarla. Affondai con la mia lama e con una febbrile
eccitazione
adolescenziale.
Quelle
dita ora non potevano più stringere o colpire nulla.
Quelle
dita erano morte. Morte allo stesso modo in cui lo ero stata io.
E ciò mi
aveva reso soddisfatta, anche se non abbastanza.
“Non
voglio sapere il resto”.
Mi
blocco. Mr. Smith non sembra impressionato, però fissa
malinconico un punto
sulla strada in lontananza.
“L’ho
ucciso, assieme a quella ragazzina!” concludo quindi,
lasciandolo ad
immaginarsi i particolari.
“Non
avrei dovuto?” Esce duro e irritato ora il mio tono.
“Credo tu
abbia fatto ciò che andava fatto”.
Alza le
spalle.
“Non sono
io a doverti dare consiglio, Maggie. Siamo tutti e due nella stessa
corrente,
anche se su barche differenti”.
Mi piace
Mr. Smith. Ogni cosa di lui mi piace, persino il suo dire cose
così profonde
che ci metto un po’ per capire.
E con
lui, vado bene anche me stessa.