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Autore: Meli_mao    09/12/2010    1 recensioni
Storia Classificatasi Seconda al contest "Dormono sulla collina" Indetto da NonnaPapera.
"Ho assistito ad uno scontro tra gladiatori; Mi sono inginocchiata ai piedi di Filippo II; Ho conosciuto il piccolo Alessandro Magno; ho viaggiato al fianco di Cristoforo Colombo; Ho navigato sotto la guida di Bartolomeu il Portoghese nel mar dei Caraibi; la regina Maria Antonietta era davvero bella come dicono; ed io non ho mai visto nessuna stella cadente illuminarmi il cammino.
Eppure sono ancora qui, e sarò ancora qui molte altre volte.[...]
E per quanto la gente non veda altro che una ventenne in me, nei miei occhi ci sono tutte le ere di questo mondo".
Grazie grazie grazie a chi leggerà!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo Secondo

 

Mr. Smith ha delle mani sottili. Sottili e pulite, oltre che morbide.
Anche se tiene spesso una sigaretta fra le dita della sinistra – è mancino – non sa affatto di fumo, ma sempre di profumo.
Avanza con un’aria elegante, una mano infilata in profondità nella tasca dei pantaloni e l’altra stretta su una pistola.
L’impermeabile nero svolazza al freddo notturno, riparandolo di poco dall’umidità della sera.
“Ammetto che non mi piace…” Parla rilassato, nonostante probabilmente i suoi occhi stiano scrutando attorno per notare ogni singolo movimento. 
“Io non ti avevo chiesto di venire…”
“Ma mi hai detto che se volevo saperne di più mi avresti mostrato” commenta accigliato, stringendo appena due dita sulla fondina.
“Non mi dirai che anche tu temi le dicerie sui cimiteri di notte!” Vorrei farla suonare come una battuta, ma il mio esce come un commento glaciale. Credo tuttavia che lui abbia intuito il vero fine.
“Maggie, io non ho paura di qualche lapide in un prato curato. Temo tutti quei pazzi scatenati che potrebbero attaccarmi per uccidermi e prendersi i miei soldi” Eccolo il problema.
“Non ti preoccupare… vedrò di salvarti” e lo sento sorridere innocentemente.
Quando mi fermo lui mi accosta, cercando di distinguere i caratteri scuri sopra alla lapide di fronte a noi.
Fischia, quando scorre sulle date di nascita e morte.
“Una vecchia conoscenza suppongo”.
La sua mano lascia l’arma per sprofondare nella tasca libera.
“Ti ho parlato di Madame Brunette…”
“La vecchia con lo scialle, la parrucca e tutto il resto” sintetizza annuendo.
“Questa è la sua tomba”.
Rapido, indolore.
Non lo sento muoversi né stupirsi, così volto lo sguardo verso di lui, incrociando i suoi occhi scuri.
Non commenta, non si muove. Scruta, con singolare indifferenza. E la cosa mi piace.
“Non dici niente?”
“Dimmi cosa vuoi che dica. Mi fa piacere che tu mi abbia portato in una parte di cimitero abbandonata persino da Dio per mostrarmi questa… tomba” conclude.
“Credi che ti abbia portato qui solo per mostrarti un pezzo di pietra?”
Sbuffa, scuotendo la testa rassegnato.
“Immagino di no”.
E le mie labbra si distendono in un sorriso naturale che lui apprezza e ricambia.

 
Madame Brunette morì 6 anni dopo il nostro incontro.
Tubercolosi, da quel che riuscii a capire con gli anni.
Il giorno in cui seppellimmo il suo corpo indossava ancora una delle sue parrucche grigie ed il vestito nero preferito, che le avevamo regalato noi con i risparmi. Il vecchio scialle viola circondava caldo le sue spalle fredde, e sulle sua labbra versammo qualche goccia di birra.
Lei amava il profumo della birra, ma da tempo non ne assaggiava più nemmeno un goccio.
Fu un misero funerale sulle prime, ed il piccolo corteo composto solo da noi – le sue ragazze – aveva attraversato la via principale della città con passi lenti e sotto gli occhi avidi della gente.
Ma Madame era amata. Amata come poche donne al mondo lo sono state.
Il prato arido attorno alla fossa si riempì di persone.
Uomini, donne, bambini. Ai primi aveva dato noi con affetto e attenzione. Alle seconde una casa e cibo, quando ne ebbero bisogno, rendendole in grado di realizzare qualche sogno. Ai terzi, la possibilità di avere delle madri al loro fianco, che si prendessero cura di loro e non li abbandonassero per strada.
I ricordi di quel giorno sono lontani, ma tra i più presenti e perfetti che io rammenti.
Ricordo la pioggerellina leggera sulle nostre testa, l’odore della strada bagnata e dei pochi fiori che portavo tra le mani. I pianti nascosti sotto i veli neri delle altre e persino gli alti cappelli dei signori che, per l’occasione, avevano indossato i loro abiti migliori con i guanti bianchi.
Ricordo lo sfregare delle corde mentre la cassa veniva calata e il canto basso ma forte che intonammo per lei.
E poi ricordo la mia vera disperazione.
Ma di questa non voglio parlare.

 
“Il “Castaway” chiuse quel giorno”.
“Lei ne era la proprietaria…”
“In realtà lei aveva fatto un testamento per lasciare l’intera struttura ed i prossimi guadagni a noi, a patto che fossimo in grado di dividerli collaborando e potessimo continuare il suo lavoro con devozione come lei ci aveva insegnato. Era l’arte della prostituzione, per quanto a quei tempi tutti ci chiamassero povere anime bisognose, perché la parola prostituta era bandita”. Nella mia voce c’è una nota di rancore.
“Ma?”
“Ma… quella busta con le sue volontà sparì quello stesso giorno, e tutti i suoi averi passarono ad un figlio che aveva avuto in gioventù e che lo chiuse, considerandolo disdicevole se non altro”.
“La prese lui?”
“Ne dubito… viveva in Francia e non riuscì, o non volle, essere presente nemmeno per la cerimonia. Arrivò due giorni dopo, se non sbaglio”.
Mr. Smith mi osserva placido, aspettando che io risponda alla sua domanda non pronunciata.
“Non tutti apprezzavano ciò che lei aveva fatto per gente come me in quegli anni. Molti avevano motivo di odiarla e disprezzarla…”
“Ne sono certo, è un po’ quello che si pensa di me, no?”
Ma lo ignoro.
“In primis le mogli di quegli stessi uomini lì presenti”.
Annuisce, tornando con lo sguardo sul nome scritto sulla pietra.
Lo vedo inginocchiarsi ed estrarre un fazzoletto bianco. Con cura la sua mano passa sopra la pietra dura e sporca: la pulisce.
Vorrei dire qualcosa, ma non ci riesco.
Vorrei chiedergli perché lo sta facendo, ma mi anticipa.
“Lei ti ha aiutato, n’è vero? Ti ha fatto cambiare stile di vita e ti ha reso ciò che sei…”
Non ho mai pianto. Nemmeno quel giorno lontano lo feci. Ma ogni tanto ne sento la necessità ed il desiderio.
Ora è quel momento. Quello stesso esatto istante in cui vorrei sentire il sapore di una piccola lacrima sulla guancia, che lenta raggiunge il mento. Vorrei sentire il tonfo sul suolo, ed il profumo che ha.
“Madame Brunette faceva solo quello che poteva, guadagnandoci senz’altro… Tuttavia penso sia una bella cosa”. Non si aspetta nessuna risposta da me, Mr. Smith.
Ma “Grazie” lo dico ugualmente.

 
Quando ogni tanto ripenso a Madame Brunette tengo quei sentimenti per me.
Cosa sono 6 anni per chi, come me, ne ha vissuti duemila?
Una goccia, in un immenso oceano colmo di sale e disperazione.
Ma quei sei anni sono come una goccia dolce, che scorre da un fiume e si getta libera nel mare, mantenendo con dignità la sua unicità.
Come ho già detto, incrociai nella mia vita tante persone, la cui storia ha fatto la nostra. Nessuno ricorderà mai nei libri il nome di Madame Brunette; nessuno rammenterà mai la sua camminata storta o le occhiate maligne in direzione di qualcuno che non apprezzava. Non ci sarà una sola persona in grado di ricordare quanto il suo Bordello avesse reso felici delle povere anime abbandonate.
Non ci saranno storie, né leggende, né parole su di lei.
Eppure, solo vivendo quei 6 miseri anni, la mia esistenza deviò verso una direzione diversa dall’autodistruzione.
Fu dalle sue labbra strette e pallide che io sentii la parola “Adattamento”.
Come potrei mai dimenticarla?

 
“È solo per lei?”
Sento la voce di Mr. Smith lontana, anche se le nostre braccia si sfiorano per quanto camminiamo vicini.
Mi è sempre piaciuta la sua voce.
Il suo modo di parlare e accentuare inconsciamente le parole più importanti.
L’oscurità che mi avvolge sembra reagire ad una strana luminosità del suo tono.
“Fu durante quei sei anni che morii per la prima volta, e spettò a Madame Brunette tirarmi fuori dalla merda, per la seconda volta”.
Ora l’ho sorpreso.
Ne vado quasi fiera, mi piace stupire la gente, anche se molte volte basta dire la mia età o mostrare più semplicemente loro il coltello che tengo sulla coscia.
“Muori anche tu?”
Sorrido rincuorata.
“La morte è soggettività. Anche se mantieni le funzioni vitali stabili non significa che tutto vada bene”.
Non ne è troppo convinto, ma non discute.
“Comunque, i primi anni che passai lì non cambiai un granchè… svolgevo il mio lavoro, assecondavo i desideri lussuriosi dell’uomo di turno. Regalavo sorrisi plastici a chiunque li pagasse. Ma rimanevo nel mio bozzolo di stagnante insicurezza e sfacelo, nel disperato tentativo di abbandonarmi ad una morte lenta e dolorosa”.
Faccio una pausa, ascoltando il suono dei miei stiletti sul marciapiede.
“Era la vigilia di Natale del 1829… si gelava persino solo avvicinandosi alle finestre”.

 
Madame si aggirava ansiosa per i tre piani della casa, tirandosi dietro una ragazzina minuta che aveva preso sotto la sua ala più come servetta che altro.
Avremmo avuto il pienone quella notte.
Si sa, tutti i signori cercano aria fresca dopo essere costretti a stare per ore in una qualche chiesa ad ascoltare la parole di redenzione e perdono.
Si purificavano l’anima e, una volta fuori, cercavano subito la via più semplice e piacevole per sporcarsela di nuovo.
Ovviamente, a vantaggio dei guadagni della vecchia.
“Castaway” non era mai stata più pulita. L’odore del disinfettante aveva sovrastato quello di sperma nelle stanze e l’aria limpida aveva sostituito quella calda e intrisa di fumo abituale.
Anche se con piccole critiche, Madame aveva spalancato tutte le finestre alle prime luci dell’alba, obbligandoci a dormine in un’unica stanza tutte insieme al piano più alto, sicura che quella non ci sarebbe servita.
La povera ragazzina ci osservava stanca con uno straccio freddo e bagnato tra le mani violacee e implorava un aiuto silenzioso.
Ma noi, o meglio le altre, erano troppo interessate a rattoppare abiti per la notte. Mentre io preferivo solo starmene zitta di fronte al camino.
Rimasi in piedi con le mani tese verso il fuoco per molto tempo, assorta.
“Sta pensando a qualcosa di interessante?”
Voltai lo sguardo verso la voce allegra che aveva parlato. Un uomo si tolse il cappello elegante dalla testa, accennando un inchino formale.
Io strinsi semplicemente le mani attorno alle spalle e annuii annoiata.
“Lord Edgar per servirvi, My lady”. Continuò galante, non suscitando nessun interesse.
“Cercavo Madame Brunette…” ritentò, ora con un sorriso calmo.
“La troverete al piano superiore. Ma posso chiamarvela io…” Volevo solo togliermelo dai piedi in verità.
“Con piacere, se non vi arreca disturbo!”.
“Affatto” Sorrisi ampiamente, voltai appena il capo verso la porta, presi un profondo respiro ed urlai: “VECCHIA”.
Lui indietreggiò stupito, scuotendosi appena.
“LORD… EDGAR PER TE” Continuai imperterrita finché Madame non apparve trafelata nella stanza lanciandomi un’occhiata gelida di ammonimento.
Si scusò e riscusò per il mio comportamento, trascinandolo lontano dove io non avrei potuto disturbarli.

 
Mr. Smith ride.
“Mi riesce difficile immaginarti tanto… che ne so… dispettosa!”
“Ero perfida, è diverso” commento.
“Lord Edgar l’hai più rivisto?” mi chiede.
“Costantemente… da quel giorno ritornò a “Castaway” due giorni a settimana fissi. Martedì e Giovedì”.
“Per te?”
Vorrei rispondergli, ma la mia espressione dev’essere assai ovvia visto che mi precede.
“Non lo biasimo…”
“Te ne innamorasti?”
“Completamente”.
È strano come faccia ancora male parlarne.
“Madame Brunette non lo accettò?”
“Oh no, lei non commentò mai una volta questa cosa. Penso che, inizialmente, l’idea di liberarsi di me le piacesse. Le avevo creato diversi problemi in appena un anno con lei. Probabilmente iniziava a pentirsi di avermi fatto la carità. Vedeva in Lord Edgar un modo semplice ed anche felice per me di lasciarmi andare”.
Fisso i piedi nelle scarpe lucide di Mr. Smith. I suoi passi arrivano regolari, e la sua andatura mi rilassa.
Il cielo grigio di Londra ricopre le nostre teste e i nostri pensieri.
Il suo volto è indecifrabile, per la prima volta da quando lo conosco.
Non riesco più a leggere le sue labbra o la luce dei suoi occhi nascosti sotto gli occhiali; neppure i movimenti delle sopracciglia. È immobile ed immutato.
“Non era il principe azzurro vero?”
Lo dice piatto, come se stesse facendo un qualche sforzo inumano.
Ha in sé la grande possibilità di essere molto più in gamba di me. Lui al mio posto saprebbe vivere meglio.
“No, non lo era”.
So solo rispondere così, lasciando andare un peso. Frase scontata, ma vera.
“Passò con me due notti a settimana per un anno. Mi riempì di regali, mi pagava anche più del dovuto”.
“Ma ti pagava…”
“Madame lo capì subito. Mi disse più volte che il pagarmi lo rendeva svincolato da ogni sentimento. Non l’ascoltai”.
Silenzio. Rigoroso e soffocante silenzio tra di noi.
“Vuoi sapere come finì?”
“Vuoi dirmelo?”
“Mi invitò nella sua villa di campagna, promettendomi chissà cosa… l’ho rimosso. Credo di aver dimenticato molto di quel giorno con lui. Inconsciamente la mia mente l’ha cancellato”.
“Stupro, violenza?” chiede con naturalezza.
“E abbandono, in un vicolo poco lontano dal Bordello, tra la sporcizia di una macelleria ed i ratti che si cibavano di essa”.
“Una donna come te… Come hai fatto a non ucciderlo?”
Ora sorrido. Lo risento partecipe a cauto.
“Madame Brunette, fu lei a trovarmi. Mi curò notando come le mie ferite si rimarginassero troppo velocemente. Mi fece la tua stessa domanda, quando scoprì cosa sono…”
“Che le hai risposto?!”
“Che lo amavo!”
“E lei?”
Rido di nuovo, al pensiero della faccia di Madame.
“Mi disse: Ti prego, Margaret, se vuoi ucciderlo ora fammi assistere!”
Anche lui ride con me.
“Lo facesti? Lo uccidesti?”
“Quando mi presentai da lui pochi giorni dopo, con questi stessi abiti ed un coltello legato sulla coscia non avevo quest’intento. Mi sarebbe bastato il suo sguardo spaventato, o le sue patetiche scuse balbettanti”.

 
La porta cigolava. Non era ricco come aveva ostentato. L’appartamento in cui alloggiava era un buco in affitto in un vicolo fuori mano. O forse, quello l’aveva preso apposta per non destare sospetti sulla sua identità.
Quando quella porta cigolante si aprì lui aveva un’aria trasognata.
Probabilmente si era appena fatto o fumato qualcosa, perché mi sorrise accogliendomi calorosamente.
Il letto era sfatto e ricordo ancora l’odore leggero ma percepibile di sangue.
Una piccola vergine era appena stata deflorata in quelle stesse lenzuola.
L’acqua del bagno scorreva. Lei era ancora lì dentro.
Credo di avergli detto qualcosa, perché all’improvviso reagì nell’esatto modo in cui mi ero immaginata.
Balbettò ed indietreggiò. Poi mi fissò dapprima stupito e poi spaventato.
Mi disse: “E’ disgustoso”, non ricordo nemmeno se la cosa avesse senso. Se lo stesse dicendo a me, o a qualcos’altro proprio non lo rammento.
La piccola entrata del bagno si aprì ed una ragazza dai lunghi capelli chiari apparve con due mani tremanti, due occhiaie violacee sotto gli occhi ed una vestaglia sporca addosso.
Pena. Provai pena, ma non abbastanza per risparmiarla.
Sputai parola cattive, mi aprii il lungo cappotto e la camicia per mostrargli le ferite rimarginate.
Sulle prime non capii se fosse la cosa giusta, limitarmi ad insultarlo.
Leggevo nei suoi occhi blu il terrore nel trovarsi di fronte una sorta di mostruosità. Così come leggevo negli occhi di quella ragazza la speranza di potersi salvare.
La mia mano però raggiunse lenta il coltello alla gamba.
Non mi mancava la forza, né le motivazioni per farlo, ma indugiai.
Nonostante tutto, provavo per lui qualcosa di profondo.
Ricordo la durezza dell’impugnatura. La lama aveva un odore acre, metallo freddo e dal colore spento.
Sottile ed affilata, eppure piccola da stare nel palmo di una mano.
Non ero lucida, non ragionavo.
Stringevo convulsamente le dita conficcandomi le unghie tra la carne. Le mie labbra erano strette e gli occhi bassi, in preda ad una qualche volontà di non guardarlo.
Un anno era stato miseramente rovinato da un solo giorno.
In quell’istante ripromisi a me stessa di non credere più a nessuno. Ci sarei stata solo io, da sola, per l’eternità.
Riaffiorarono i ricordi di volti che avevo incrociato.
I saggi filosofi dispensavano consiglio sull’amore come fosse l’unica vera possibilità di redenzione. Altri lo ritenevano un male, un atroce colpa. La fonte di tutti i tormenti.
In quel momento, io non seppi tuttavia a chi dare fiducia.
Alzai la mano con l’arma, al rallentatore potrei dire che quella era la mano di un’inesperta creatura di Dio. Percepii persino lo spostamento d’aria.
Avrei affondato alla cieca, se non ci fosse stato quell’ostacolo.
Lui aveva afferrato il mio polso.
Stringeva con rabbia, o forse disperazione.
Mi disse qualcosa, senza pensare minimamente a scusarsi.
Mi insultò, sì.
E poi… qualcosa di pesante e duro colpì la mia guancia.
I miei capelli si mossero spinti dall’urto, ricadendomi davanti.
La mia mano perse forza e il mio volto fu come obbligato a girarsi.
Non fu il dolore del colpo, o le parole che lo accompagnarono. Non fu nulla di tutto ciò a farmi crollare sulle ginocchia.
Le lacrime che scesero tracciando solchi profondi sul mio viso e il tremolio che percorse il mio corpo. Nulla.
All’improvviso non sentii più nulla.
Nessun suono arrivava alle mie orecchie, nessun odore al mio naso. I miei occhi vedevano una strana oscurità fatta di ombre vacue e deformi.
Le mie membra furono schiacciate per terra da un peso indefinibile.
Qualcosa si era come seduto sulla mia schiena e mi trascinava in un baratro.
Forse sorrisi, perché la mia prima impressione fu che la morte era davvero semplice.
Ma i miei occhi si riaprirono, mostrandomi una luce abbastanza forte da farmi riconoscere chi mi stava di fronte.
Le mie orecchie percepirono ancora le ingiurie e il mio naso captò di nuovo l’odore di quel sangue.
Ero morta per poter risuscitare.
E la mia morte, con conseguente risurrezione, mi avevano reso incapace di pensare ad altro che non fosse la vendetta.
La prima cosa che feci fu afferrare quella mano, quella che aveva sfiorato la mia guancia, e tagliarla. Affondai con la mia lama e con una febbrile eccitazione adolescenziale.
Quelle dita ora non potevano più stringere o colpire nulla.
Quelle dita erano morte. Morte allo stesso modo in cui lo ero stata io.
E ciò mi aveva reso soddisfatta, anche se non abbastanza.

 
“Non voglio sapere il resto”.
Mi blocco. Mr. Smith non sembra impressionato, però fissa malinconico un punto sulla strada in lontananza.
“L’ho ucciso, assieme a quella ragazzina!” concludo quindi, lasciandolo ad immaginarsi i particolari.
“Non avrei dovuto?” Esce duro e irritato ora il mio tono.
“Credo tu abbia fatto ciò che andava fatto”.
Alza le spalle.
“Non sono io a doverti dare consiglio, Maggie. Siamo tutti e due nella stessa corrente, anche se su barche differenti”.
Mi piace Mr. Smith. Ogni cosa di lui mi piace, persino il suo dire cose così profonde che ci metto un po’ per capire.
E con lui, vado bene anche me stessa.

 

 

 

 Note: Ringrazio Lilith De Lioncourt per il commento. Il prossimo capitolo arriverà molto presto, è l'ultimo. Mi scuso per il ritardo ma sono tempi difficili.

Un bacio. Meli_mao

   
 
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