Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: SyamTwins    11/12/2010    3 recensioni
Dio dirige la Quattour da secoli.
Molti umani vengono protetti da giovani Angeli Custodi.
Se il Protetto s'innamora dell'Angelo è un conto. Se l'Angelo s'innamora del Protetto è tutto un'altro paio di maniche.
Limar è la protagonista di questa storia apocalittica in cui uno strano Dio dirige un'agenzia di Angeli per purificare il mondo. Ma il potere, come tutti noi sappiamo, da alla testa.
Starà a Limar decidere come modellare il suo destino: tradire la Quattour o il proprio cuore?
[FanFiction a quattro mani: in collaborazione con S a r s a.]
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lei mi afferrò la mano. La sua mano che era così gelida mi fece sobbalzare. “Mi ha visto”, pensai deglutendo. Volevo sparire, sotterrarmi. Limar mi aveva visto. Ma che mi importava? Io non le avevo quasi mai parlato… io… Il contatto con la sua mano quasi mi spaventò, mi confondeva.
Che faceva, perché era così preoccupata? Solo perché avevo venduto un po’ di droga… Mi trascinava via incespicando per le strade sudice del Bronx. Volevo domandarle dove mi stava portando, ma avevo il fiatone per la corsa. Vedevo i suoi riccioli neri scompigliarsi al vento e mi chiedevo con una punta di aspettativa che cosa volesse fare. Ad un certo punto però in uno dei vicoli che avrei giurato sboccasse sulla strada 560 ci ritrovammo di fronte un alto muro di mattoni. Un vicolo cieco. Limar si bloccò guardandosi attorno ansimando. Si girò, voleva condurmi fuori dal vicolo esattamente come eravamo entrati. Un'altra barriera di mattoni rossi ci bloccava il passaggio, come se fosse stata lì da sempre.
«Non è possibile, hanno cominciato…», sussurrò lei con un filo di voce. Le gambe le cedettero e cadde in ginocchio per terra, incurante dei vetri di bottiglia rotti e dello sporco.
«Hanno già cominciato…», iniziò a singhiozzare.
«Perché c’è questo muro?», domandai riprendendo fiato, lasciando la mano di Limar. Lei si limitò a nascondersi il volto fra le mani mentre i singhiozzi diventavano sempre più forti. «Diamine, LIMAR!», ruggii. Iniziavo per la prima volta in vita mia ad avere paura. Paura vera.
Le presi la mano e la tirai su a forza, per poi condurla in fretta su per delle vecchie scale di metallo, una vecchia uscita di emergenza abbandonata a sé stessa. Volevo condurla al chiuso dell’edificio, e vedere se magari c’era un’uscita. Lei continuava a piangere, come se non le importasse realmente scappare da quella trappola.
Alla seconda rampa di scale però iniziai a sentire dei cigolii. Come se quella vecchia scala arrugginita avesse deciso di cedere proprio ora. Strattonai più forte Limar perché si muovesse a raggiungere un’entrata, ma era troppo tardi. L’intera rampa di scale si inclinò sbalzandoci come se stessimo attraversando un ponte di corda. Ci aggrappammo alla ringhiera con tutte le nostre forze mentre pezzo dopo pezzo la scala si inclinava sempre di più.
«Dylan», si lamentò Limar. Io la guardai terrorizzato. In quel momento neanche mi chiedevo cosa stesse succedendo. «E’ colpa mia. E’ colpa mia se dimenticherai tutto», singhiozzò asciugandosi una lacrima strofinando la guancia sulla spalla. «Prima però voglio dirti che…», un tonfo e la scala si inclinò ancora più pericolosamente. Mi ressi più forte per non scivolare giù nel vicolo.
«Voglio dirti che non puoi rovinare così la tua vita. Che devi trovare uno scopo e fare del bene…», singhiozzò. Rimasi un attimo basito, sorpreso. «Sei troppo bello per fare il delinquente», abbassò lo sguardo e ricominciò a singhiozzare con voce flebile.
«Non permettere che tutti trattino così tua madre… o che Taio sprechi la sua intelligenza marinando la scuola…», aggiunse con un sussurro.
Le sue mani bianche lasciarono la presa sul corrimano. Vidi il suo corpo cadere all’indietro nel vuoto e i piedi perdere l’equilibrio.
«Limar, NO!», gridai. Lei svanì un attimo prima di toccare il suolo.
Ma tutto questo io non l’avrei più ricordato. Nessuno si sarebbe mai ricordato di aver visto una ragazza dagli occhi da cerbiatto e il viso di un angelo nel Bronx.
E io mi sarei ritrovato seduto su delle vecchie scale arrugginite senza neanche sapere perché.



«Dylan Phoenix?», chiese l’assistente dietro al bancone. Il suo sorriso era smagliante, pensai che era obbligata a sorridere così a tutti. Un’assistente al banco informazioni della sede di un’azienda come la Quattuor Management deve sempre sorridere.
L’atrio del palazzo era così bello, io non avevo visto mai niente di così lussuoso.
«Il suo colloquio con il signor Heavens inizierà tra dieci minuti, terzo piano, prima porta a destra. Buona fortuna», di nuovo quel sorriso cordiale. Tentai di contraccambiare un po’ a disagio, e chiamai l’ascensore.
Qualche mese prima era successa una cosa strana. Come se improvvisamente fossi cresciuto, e fossi diventato un uomo, avevo capito che se non volevo trovarmi nei guai dovevo fare un cambiamento radicale della mia vita. Quel colloquio di lavoro sarebbe stato importante per me.
Premetti il tasto del terzo piano e mi lasciai cullare dall’ascensore.
Assistente sociale nel Bronx. Chiusi gli occhi sospirando. Chi se lo sarebbe mai immaginato. Io assistente sociale.
E’ che arriva un momento nella vita in cui tutti dovrebbero sentire il bisogno di donare agli altri ciò che ci è sempre mancato.
Cercai la porta indicata dalla segretaria sorridente. La targhetta d’oro riportava il cognome di Heavens seguito da un’incisione di un rametto di ulivo. Uno sguardo all’orologio per decretare che ancora non era l’orario, ma la porta si spalancò.
«Dylan Phoenix? Prego, si accomodi», un uomo sulla cinquantina in completo bianco crema e i capelli grigi mi sorrise. Io mi feci coraggio ed entrai nello studio. Come tutto l’edificio era lussuosissimo, con un arredamento semplice. Sulla parete un antico arazzo riportava qualche scritta in una lingua che sembrava latino, a occhio e croce. Accanto, in una teca murata, su un piedistallo scintillava una vecchia spada di cristallo.
«Bellissima», concordò. «III secolo, italiana. Si dice che appartenesse a un vecchio templare un po’ testardo», ridacchiò il signor Heavens facendomi cenno di sedermi davanti alla sua scrivania. Obbedii.
«Allora, quanti anni hai?», mi domandò sedendosi e congiungendo le mani. Non sembrava guardarmi con disprezzo, ma ugualmente mi scrutava attentamente.
«Quasi diciotto», risposi. Lui annuì.
«Mi fa estremamente piacere che un ragazzo del Bronx voglia aiutare la gente… è inusuale», mi sorrise. In un certo senso mi sentii ferito nell’orgoglio… come se tutti noi fossimo stati dei delinquenti.
«Non fraintendermi, non penso che nel Bronx ci vivano solo dei delinquenti. E’ che le persone sono talmente in difficoltà per aiutare sé stesse che sarebbe troppo chiedergli di aiutare anche gli altri».
Annuii, un po’ a disagio del fatto che mi precedesse così bene.br> «Studi?»
«Non molto», risposi con schiettezza. Lui rise di gusto, per poi decretare che anche “non molto” andava decisamente bene.
Lasciai lo studio stringendogli la mano, quando lei catturò il mio sguardo. Seduta su una delle sedie di attesa, rannicchiata, completamente vestita di bianco, una ragazza dai folti ricci neri e gli occhi da cerbiatto mi fissava. Eppure avrei giurato di averla già vista… ppure avrei giurato di averla già vista… Impossibile, un dejà-vu. Mi sentii il suo sguardo addosso finchè la porta dell’ascensore non si richiuse e mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo.
  
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